Pasquino

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Soleanna1
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Pasquino

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Pasquino è la più celebre statua parlante di Roma, divenuta figura caratteristica della città fra il secolo XVI ed il XIX.

Ai piedi della statua, ma più spesso al collo, si appendevano nottetempo fogli contenenti satira in versi diretta a pungere anonimamente i personaggi pubblici più importanti, papi compresi. Erano le cosiddette "pasquinate", dalle quali emergeva, non senza un certo spirito di sfida, il malumore popolare nei confronti del potere.

La statua è in realtà un frammento di un'opera di stile ellenistico, danneggiata nel volto e mutilata degli arti. Rappresenta probabilmente un guerriero di area ellenica. Si è sostenuto trattarsi di un frammento di un gruppo, forse dello scultore Antigonos) raffigurante "Menelao che sorregge il corpo di Patroclo morente" (del quale sarebbe una copia bronzea l'opera oggi a Firenze nella Loggia dei Lanzi), ma l'attribuzione è stata contestata. Precedenti attribuzioni intendevano che raffigurasse "Aiace con il corpo di Achille" o "Ercole in lotta con i Centauri".

Reperita a poca distanza da piazza Navona (rione Parione), si ritiene che sia stata impiegata per l'ornamento dello Stadio di Domiziano, oggi coperto dalla piazza.

Fu ritrovata nel 1501 durante gli scavi per la ristrutturazione del Palazzo Orsini (oggi Palazzo Braschi), proprio nella piazza dove oggi ancora si trova (allora detta piazza di Parione ed oggi piazza di Pasquino). La ristrutturazione, di cui si occupava anche il Bramante, veniva eseguita per conto dell'influente cardinale Carafa, in seguito divenuto noto per la campagna di moralizzazione dell'arte; il prelato, che si sarebbe stabilito nel prestigioso palazzo, insistette per salvare l'opera, da molti ritenuta invece di scarso valore, e la fece sistemare nell'angolo in cui ancora si trova, applicandovi lo stemma dei Carafa ed un cartiglio auto celebrativo.

Sul perché la statua abbia proprio questo nome, familiare ed affettuoso, non si hanno che una nutrita serie di ipotesi, per lo più leggendarie.

Si vuole, da alcuni, che Pasquino fosse un personaggio del rione noto per i suoi versi satirici: si è detto che potesse essere un barbiere, un fabbro, un sarto o un calzolaio. Secondo Teofilo Folengo "mastro Pasquino" sarebbe stato un ristoratore, un trattore che conduceva il suo esercizio nella piazzetta. Da altri si sostiene invece che fosse il nome di un docente di una vicina scuola, i cui studenti vi avrebbero notato delle rassomiglianze fisiche; sarebbero stati questi, secondo questa versione, a lasciare per goliardia i primi fogli satirici.

Vi è anche un'altra antica versione che vorrebbe collegare il nome della statua a quello del protagonista di una novella del Boccaccio (Decameron, IV, 7) morto per avvelenamento da salvia, erba nota invece per le sue qualità sanifiche. Il nome quindi sarebbe stato ad indicare chi viene danneggiato dalle cose che si spacciano per buone (come poteva essere, in quel contesto, il potere teocratico papale).

Quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini
Le Pasquinate colpirono molti personaggi, la maggior parte dei quali noti per aver preso parte all'esercizio del potere temporale del papato. Sebbene oggi siano note solo poche pasquinate, queste in realtà furono numerosissime, "editate" a distanza di brevi periodi di tempo; e nonostante la loro affissione non fosse davvero cosa rara, curiosamente non venne mai a scemare l'interesse popolare per esse, malgrado appunto la quantità e la frequenza.

Uno dei pontefici attaccati con accanimento da Pasquino è stato Sisto V (1585-1590):


"Fra tutti quelli c'hanno avuto er posto
De vicarj de Dio, nun z'e mai visto
Un papa rugantino, un papa tosto,
Un papa matto, uguale a Papa Sisto.
E nun zolo è da dì che dassi er pisto
A chiunqu'omo che j'annava accosto,
Ma nu la perdonò neppur'a Cristo
E nemmanco lo roppe d'anniscosto.
Aringrazziam'Iddio c'adesso er guasto
Nun pò ssuccede ppiù che vienghi un fusto
D'arimette la Chiesa in quel'incrasto.
Perché nu ce pò èsse tanto presto
Un antro papa che je piji er gusto
De méttese pe nome Sisto Sesto".
Con marcata preferenza per l'uso del verso rimato, sebbene con spesso gravi lacune di metrica, apparvero sulla statua commenti di volta in volta salaci, beffardi, maliziosi, di scherno, volti a dar concreto corpo al "castigat ridendo mores" di Molière dando addosso a papi, parenti, cognate (come Donna Olimpia Maidalchini), ed a quanti per nepotismo o comunque favoritismo sguazzavano a piacimento intorno alle leve del comando. I versi li spogliavano delle loro spocchie, traducendoli in termini comprensibili ai cittadini comuni, sperabilmente cogliendone aspetti umoristici o comici.

Clemente VII de' Medici, ad esempio, morì dopo una lunga malattia; su Pasquino apparve conseguentemente un ritratto del suo medico, che forse era giudicato non esente da responsabilità circa l'esito delle sue stesse cure, ma tenuto conto delle qualità morali del suo paziente fu indicato come: ecce qui tollit peccata mundi (ecco colui che toglie i peccati del mondo).


Pasquino, come comprensibile, era in breve tempo divenuto fonte di preoccupazione, e parallelamente di irritazione, per i potenti presi di mira dalle pasquinate, primi fra tutti i papi. I veleni ampiamente profusi gli furono ampiamente ricambiati, di gran cuore.

Diversi furono del resto i tentativi di eliminare la statua e fu il forestiero Adriano VI, durante il suo breve e controverso pontificato, quello che stava per riuscire a disfarsene, avendo dato ordine di gettarla nel Tevere. Fu distolto quasi in extremis dagli smaliziati cardinali della curia, che intravidero il pericolo e la possibile portata di un simile "attacco" alla congenita inclinazione alla satira del popolino romano.

Quando altri, successivamente, lo fecero vigilare notte e giorno da guardie, le pasquinate apparvero infatti ancora più numerose ai piedi di altre statue: l'idea era stata di Benedetto XIII, che emanò anche un editto che garantiva la pena di morte, la confisca e l'infamia a chi si fosse reso colpevole di pasquinate.

Già nel 1556, però, sotto Pio V, un tal Nicolò Franco era stato accusato di essere l'autore delle pasquinate e per questo condannato alla forca (ed alla vicenda di questo oscuro popolano pare essersi ispirato Luigi Magni per alcuni aspetti del suo film "Nell'anno del Signore").

Verso dopo verso, Pasquino era di fatto asceso ad un rango di specialissimo antagonista della figura papale, simboleggiando il popolo di Roma che punteggiava coi suoi commenti gli eccessi di un sistema col quale conviveva con sorniona sufficienza. Pasquino segnalava che, per la sua particolare storia, Roma sapeva valutare anche figure che assommavano in sé il massimo potere religioso ed il massimo potere di governo, riuscendo a scorgerne le eventuali umane modestie, a rimarcarne velleità e malefatte. Come tale, era fisiologicamente un punctum dolens dei vescovi di Roma, ma pure come tale la sua "produzione" si estinse con la fine del potere temporale, con la breccia di Porta Pia, che metteva il popolo romano di fronte a nuovi tipi di sovrano, a nuovi tipi di stato.

Si è detto che Pasquino sia stato "distratto" dalla contemporanea messa in circolazione dei sonetti del Belli, che col suo spirito mostravano più di qualche apparentamento e che nel medesimo senso proseguivano la sua opera; in ogni caso la statua tacque, priva del suo antico bersaglio, e fogli appesi non se ne videro più.

Durante il fascismo, in occasione dei preparativi per la visita di Hitler a Roma, Pasquino riemerse dal lunghissimo silenzio per notare la vuota pomposità degli allestimenti scenografici, che avevano messo la città sottosopra per settimane:

"Povera Roma mia de travertino!
T'hanno vestita tutta de cartone
pè fatte rimirà da 'n'imbianchino..."
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