Dacia Maraini

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Dacia Maraini

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[align=center]Dacia Maraini[/align]

Dacia Maraini nasce a Firenze. La madre, siciliana, appartiene a un’antica famiglia, gli Alliata di Salaparuta. Il padre, Fosco Maraini, per metà inglese e per metà fiorentino, è un etnologo conosciuto che ha scritto diversi libri sul Tibet e sul Giappone. La famiglia Maraini si trasferisce in Giappone nel ’38 poiché il padre portava avanti uno studio sugli Hainu, una popolazione in via di estinzione che viveva nell’Hokkaido.
Nel ’43 il governo giapponese che aveva fatto un patto di alleanza con l’Italia e la Germania, chiese ai coniugi Maraini di firmare l’adesione alla repubblica di Salò. Sia Topazia che Fosco rifiutarono di firmare e furono perciò rinchiusi in un campo di concentramento nei pressi di Tokio assieme alle tre figlie bambine. Ci rimasero fino alla fine della guerra quando furono liberati dagli americani.
Rientrati in Italia, andarono ad abitare in Sicilia, presso i nonni, nella Villa di Valguarnera di Bagheria, dove le bambine cominciarono gli studi. La povertà è una costante di quegli anni di difficile adattamento al nuovo ambiente.
Qualche anno dopo la famiglia di divide. Il padre va ad abitare a Roma, la madre resta a Palermo con le tre figlie che frequentano le scuole della città. Sono gli anni della prima formazione letteraria e dei sogni di fuga.
La fuga avverrà quando Dacia Maraini compie i diciotto anni e decide di andare a vivere a Roma con il padre. Qui prosegue il liceo, si arrangia per guadagnare, facendo l’archivista, la segretaria, la giornalista di fortuna.
A ventuno anni fonda, assieme con altri giovani, una rivista letteraria, "Tempo di letteratura", edita da Pironti a Napoli. Prende a collaborare, con racconti, a riviste quali "Paragone", "Nuovi Argomenti", "Il Mondo".
Nel 1962 pubblica il primo romanzo presso l’editore Lerici: "La vacanza" . Intanto si sposa con Lucio Pozzi, pittore milanese, da cui si divide dopo quattro anni di vita in comune e un figlio perso poco prima di nascere.
Nel 1963 esce il suo secondo romanzo "L’età del malessere" che ottiene il premio internazionale degli editori "Formentor".
Il terzo è del 1967 e si chiama "A memoria": Viene pubblicato da Bompiani. Intanto Nanni Balestrini le chiede per la Feltrinelli le sue poesie che escono nel 1966 con il titolo "Crudeltà all’aria aperta". Il libro viene recensito con molto favore dallo scrittore Guido Piovene.
In questi' anni Dacia Maraini comincia ad occuparsi di teatro. Fonda, assieme con altri scrittori, il Teatro del Porcospino, in cui, si rappresentano solo novità italiane:da Gadda a Parise, da Moravia a Wilcock, da Siciliano a Tornabuoni.
Proprio in quel periodo Dacia Maraini si mette a vivere con Alberto Moravia. Sarà una convivenza che durerà fino agli anni settanta.
Nel 1968 esce un libro di racconti, "Mio marito" edito da Bompiani due anni dopo Einaudi pubblica il suo libro di teatro "Ricatto a teatro e altre commedie''.
Nel 1973 fonda, assieme con Lù Leone, Francesca Pansa, Maricla Boggio e altre, il teatro della Maddalena, gestito e diretto da donne.
Nel 1978 vi si rappresenta "Dialogo di una prostituta con un suo cliente" (pubblicato da Images di Padova). Il testo verrà tradotto e rappresentato negli anni seguenti prima a Bruxelles, poi a Parigi e quindi a Londra e ancora in quattordici paesi diversi.
Un altro romanzo viene, pubblicato nel 1972: "Memorie di una ladra". Monica Vitti ne ricava un film fra i suoi più riusciti, "Teresa la ladra" .
Nel, 1975 esce "Donna in guerra", edito da Einaudi. Negli anni seguenti viene pubblicato in sei lingue.
Di quegli anni il testo teatrale "Maria Stuarda", che viene tradotto e rappresentato in quindici paesi e ancora si continua a rappresentare.
Nel 1980 esce "Storia di Piera" scritto in collaborazione con Piera Degli Esposti. il libro avrà otto edizioni. Marco Ferreri ne ricaverà un film con Marcello Mastroianni, Hanna Shigulla e Isabelle Hupperer.
Del 1984 è i 1 romanzo "Il treno per Helsinki", edito da Einaudi. Il libro viene tradotto in cinque lingue. Nel 1985 segue 'lsolína" pubblicato da Mondadori e che riceve il premio Fregene. Questo romanzo è stato ripubblicato da Rizzoli nel 1992.
Nel 1990 esce "La lunga vita di Marianna Ucrìa" accolto molto positivamente dalla critica e dal pubblico. Il libro riceve, il premio Supercampiello. Pochi mesi dopo gli sarà assegnato il premio per il "Miglior libro dell'anno", Napoli. Seguono i premi: Quadrivio (Rovigo), Apollo (Salerno), "Reggio Calabria". Viene tradotto in quindici lingue.
Nel 1991 esce una raccolta di poesie dal titolo "Viaggiando con passo di volpe", edizione Rizzoli. Il libro prende il premio "Città di Penne" 1992.
Ancora nel 1991 viene pubblicato il libro di teatro "Veronica, meretrice e scrittora" che prende il premio "Fondi La Pastora" nel 1992.
Nel 1993 esce, presso Rizzoli, il libro "Bagheria" che conosce subito un buon successo di pubblico e di critica. Intanto, il teatro Stabile di Catania rappresenta la versione teatrale di "Marianna Ucrìa" con l'adattamento dell’autrice, la regia di Lamberto Pugelli, la partecipazione di Paola Mannoni e Umberto Ceriani.
Nel 1994 viene pubblicato il Romanzo "Voci". Nel 1996 esce il saggio "Un clandestino a bordo". Nel 1997 un altro romanzo: "Dolce per sé", Nel 1998 viene pubblicata l’antologia di poesia "Se amando troppo". Nel 1999 viene pubblicato il libro di racconti "Buio" che vince il prenio Strega . Sempre pubblicati dall’editore Rizzoli seguono "Fare teatro (1966-2000)" che raccoglie quasi tutta l’opera teatrale di Dacia Maraini, "Amata scrittura", un libro sulla trasmissione televisiva condotta dall’autrice, nel 2000, e nel 2001 "La nave per Kobe". Nello stesso anno Fabbri pubblica il libro di favole "La pecora Dolly". nel 2003 esce l'intervista con Piera degli Espositi "Piera e gli assasini", nel 2003, sempre dall'editore Rizzoli esce il Romanzo "Colomba" che vince il premio Parco Majella e, nel 2006 la raccolta di articoli "I giorni di Antigone" . Nel 2007 esce da Mondadori il saggio "Il gioco dell'Universo" di cui Dacia Maraini è coautrice insieme al padre Fosco Maraini.
Ultima modifica di birillino8 il gio mag 10, 2007 11:23 pm, modificato 1 volta in totale.
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birillino8
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ROMANZI

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La vacanza

Lerici 1962[/align]

È il primo romanzo di Dacia Maraini. Racconta la storia della vacanza di una adolescente che si pone le domande tipiche della sua etá: cos’è la vita, cos’è il corpo, cos’è l’amore e il sesso. Non ottiene risposte se non quelle che portano ad un’arida alienazione dei sentimenti.


leggi brano.....«Che vuoi?»
«Spogliati,» disse impaziente.
Mi tolsi il vestito e mi fermai trattenendo il respiro.
«Hai finito?» domandò guardandomi per la prima volta negli occhi e sorrise. Mi tolsi il resto aspettando che succedesse qualcosa di importante.
«Voltati,» disse a bassa voce.
Mi voltai. Lo sentivo respirare a fatica. Si dimenava. Guardando in basso, vidi, attraverso le fessure del pavimento, il mare giallo e verde.
«Voltati.» gridò. Mi girai.
«Voltati.» Era pallido e si torceva.
«Che hai?»
Mi fissò con gli occhi vuoti, grandi e persi.
«Che hai?» Mi avvicinai per aiutarlo e fui allontanata dal suo braccio teso. Convulsamente fini di cambiarsi, si alzò e se ne usci senza dirmi una parola.




di Alberto Moravia

Alberto Moravia, dopo aver letto La vacanza, breve romanzo di Dacia Maraini pubblicato in questi giorni dall’editore Lerici, ha voluto presentarlo ai lettori con una prefazione che noi riproduciamo.

Cara Dacia, oggi non si fanno più prefazioni ai libri degli scrittori esordienti. Le prefazioni sembrano aver perduto la loro utilità, salvo forse nel caso di un romanzo straniero sconosciuto oppure di un saggio che i meriti di essere indicato al lettore competente. Un lancio pubblicitario ben orchestrato è certamente più producente di una prefazione. L'editore con i suoi foglietti di propaganda, e le sue fascette, le sue inserzioni in ,giornali e riviste, i suoi annunzi alla radio, dirà quello che il libro contiene e, a suo parere, può dare al lettore; e lo dirà in maniera più adeguata ed efficace in quanto non si rivolge, come il prefatore, a degli scrittori e a dei critici, cioè a gente del mestiere, bensì a dei lettori indaffarati e distratti che, come avviene per qualsiasi altro prodotto industriale, vogliono, magari inconsciamente, essere "persuasi" a i comprare il libro in maniera, per così dire, automatica, cioè senza affrontare le angosce culturali di una scelta.
Il prefatore, d'altra parte, non potrà mai, ovviamente, elogiare il libro quanto l'editore: nei suoi elogi egli sarà sempre gravemente imbarazzato proprio dalla sua qualità di uomo di cultura. Infine il prefatore avrà sempre, in fondo, presso il pubblico, meno autorità dell'editore. Infatti il lettore comune non può fare a meno di pensare che il prefatore ha dei motivi personali per scrivere la prefazione cioè motivi privati di amicizia e di stima; mentre l'editore lui non vuole che vendere il libro, un motivo così ovvio da non sembrare neppure un vero motivo, giacché qual è l'industriale che non desidera vendere i propri prodotti? L'autorità dell'editore, d'altronde, sarà maggiore di quelle del prefatore anche perché quest'ultimo non pare rischiar niente in fondo, mentre l'editore rischia palesemente il suo denaro. E quale industriale arrischierà il capitale su un prodotto se non saprà in anticipo che ci guadagnerà? Dunque se l'editore spende vuol dire che è sicuro di riprendere il denaro speso; dunque per male che vada si tratterà di un libro, come si dice divertente; dunque compriamolo. Ma il prefatore, poveretto, si troverà di fronte ad un compratore alquanto sospettoso che si domanderà: «Perché mai questo signore raccomanda un prodotto dal momento che non gli viene niente in tasca? A che scopo? ».
La risposta ci sarebbe, naturalmente: «per amore dell'arte». Ma è una risposta forse un po' ingenua e che, comunque, con il lettore moderno, non vale. Il lettore moderno, infatti, compra un libro non perché è bello ma perché, in qualche modo sovente oscuro e misterioso, esso soddisfa un suo bisogno. Tra i bisogni dei lettori comuni, temiamo che quello del bello sia uno degli ultimi. Dunque è vero, io non sono interessato alla vendita del tuo libro né, d'altronde, voglio puntare il dito sulle pagine belle o interessanti che esso contiene: penseranno i critici e i lettori più intelligenti a trovarle a suo tempo, allorché il libro sarà pubblicato. No, io scrivo questa prefazione per parlare di te e così introdurti nella società alla quale da oggi apparterrai. Tu esordisci con questo libro, sei una debuttante, come si dice in gergo mondano. La mia introduzione vuole avere il valore di una presentazione, appunto, in una società come quella degli scrittori, tra le più esigenti e, in fondo, chiuse. Di conseguenza, più che del tuo libro, parlerò del tuo destino letterario e umano, quale l'ho veduto in questi ultimi anni configurarsi e prendere consistenza, assai difficilmente e lentamente.
Ricordo benissimo la prima volta che mi portasti una tua novella, quella che fu poi pubblicata in "Nuovi Argomenti". Eri ancora una studentessa di liceo, o meglio non lo eri più da poco tempo perché eri stata respinta agli esami di licenza e questo aveva provocato in te quasi un trauma e al tempo stesso una volontà decisa di sormontarlo. D'altra parte tu stavi attraversando dei tempi difficili: avevi è vero scritto quel racconto ma nello stesso tempo volevi renderti indipendente e ben sapendo che la letteratura non può servire a risolvere certi problemi, ti eri quasi rassegnata a sospendere la tua attività letteraria: studiavi dattilografia e stenografia; pensavi di diventare hostess di qualche linea aerea transatlantica; cercavi di abituarti all'idea di diventare la segretaria di qualcuno che, appunto, avesse bisogno di una segretaria.
Non importa. Quello che soprattutto ti premeva non era la sicurezza economica né forse, ancora, la letteratura: era uno sbocco, un'uscita, un'affermazione, una rivincita. Il racconto che mi portasti tradiva questa origine.
Scritto dalle dita macchiate d'inchiostro di una studentessa delle scuole medie, vi si sentiva più volontà che ispirazione. Una volontà barbara e quasi cinica, della barbarie e del cinismo civili e ingenui propri alla Sicilia dalla quale non tanto tempo addietro eri arrivata. Tu volevi, in realtà, come si dice con termine volgare ma energico ed esatto, "sfondare".
Ben inteso lo volevi come si può volerlo a vent'anni: non con il calcolo della mente, ma con l'istinto cieco e amabile di una pianta che cresce lungo un muro, che sale e continua a crescere aggirando gli ostacoli finché non riesca ad affacciarsi dall'altra parte, al sole. Questa, diciamo così, tua ambizione esistenziale di pianta che cerca la luce e il calore era del resto dimostrata, oltre che dalla varietà eclettica delle soluzioni che proponevi via via al tuo problema economico, dalla qualità stessa della tua scrittura: volontaristica, tutta di contenuto, priva di grazia e di ornamenti, di una serietà persino eccessiva. Ti dissi di rifare il racconto; lo rifacesti non so quante volte; e, alla fine, come ho detto, esso comparve in "Nuovi Argomenti". Ti furono mandate le solite copie in omaggio, ricevesti il solito compenso che diamo a tutti i nostri collaboratori, qualche altra copia, credo, te la procurasti per avere la soddisfazione di vedere il tuo nome sulla copertina di una rivista e tutto finì lì. Ufficialmente diciamo così, eri entrata nella letteratura, ma con l'animo ne stavi ancora fuori.
Era stato dunque un inizio dal quale non si poteva ancora capire niente: l'ambizione può essere un fatto letterario ma può anche non esserlo. Mi aspettavo per questo sia di vederti rispuntare con un'altra novella, sia invece di venire a sapere che volavi avanti e indietro sulla rotta aerea Roma -New-York. Fui, non dico sorpreso, ma piacevolmente rassicurato quando vidi che la tua ambizione cadeva e che tu avevi molto presto capito cosa fosse l'arte: non una via diritta e brutale verso un successo qualsiasi, bensì una lunga, amorosa, noncurante e quasi sonnambolica pazienza. Una organica, fisiologica e profonda attesa. Avevi, insomma, scoperto d'istinto e senza che nessuno te lo dicesse (io non te l'avrei mai detto, volevo che tu facessi tutto da sola, sopratutto gli errori) che bisogna coltivare il proprio campicello. Così, da allora, cominciò il tuo vero lavoro; ed io mi accorsi che eri molto diligente, ostinata e appassionata; che nella tua giornata avevi saputo ritagliare e cintare di silenzio e di solitudine alcune ore che dedicavi soltanto alla letteratura; che nonostante momenti di dubbio e di scoraggiamento e forse anche di disperazione, non rinunziavi a cercare e qualche volta ti pareva di riuscire nella tua ricerca. Tutte cose che gli artisti conoscono bene; ma era abbastanza sorprendente che tu, appena uno o due anni prima studentessa di liceo, le avessi trovate da sola, per conto tuo, in piena ingenuità, fuori di qualsiasi sodalizio o educazione letteraria. Insomma non avevi più alcuna impazienza, alcuna ambizione. Intanto anche la tua vita cambiava: ti eri sposata.
Mi facesti vedere alcune novelle e una fu ancora pubblicata su "Nuovi Argomenti". Echi e derivazioni letterarie avevano preso il posto in questo racconto della volontà ambiziosa che si notava nella tua prima composizione. Era un passo avanti perché lo scrittore non può separare le esperienze della vita da quelle letterarie. Nel frattempo tu avevi affrontato, come per caso, l'argomento di questo tuo primo romanzo. Ho detto: per caso: infatti ne lessi altre due stesure che erano molto diverse. Anche questo mi sembrò un buon segno: davvero tu non eri più affatto impaziente e ambiziosa; ti chinavi invece sopra te stessa come sopra un campo selvaggio e cercavi pazientemente fra l'erba il magico quadrifoglio.
Adesso il tuo romanzo è qui sulla mia tavola, in bozze, insieme con la lettera del tuo editore che mi chiede una prefazione. Dovrei parlare del romanzo, dunque. Ma non voglio farlo in maniera particolareggiata, appunto perché quello che mi interessa di più in un'opera è il carattere complessivo dello scrittore e di conseguenza dell'opera e non quello che di solito viene chiamata la "pagina". Vorrei perciò parlare sopratutto della qualità del tuo talento letterario, almeno come mi è apparso sinora. Dunque tu sei sopratutto una scrittrice realista. Cosa intendo per realista? Intendo lo scrittore che ama la realtà per quello che è e non per quello che dovrebbe essere, cioè soltanto e appunto perché è realtà; e che non si ritrae di fronte ad alcun aspetto per quanto imprevisto di questa realtà, sempre che ciò sia richiesto dall'economia della sua opera.
Oltre al realismo ci sarebbero molte cose da dire: un romanzo, specie un romanzo come il tuo che è il primo che scrivi e nel quale probabilmente ci sono, nascosti e invisibili agli occhi dei più, i semi delle opere future, è sempre una cosa assai complicata, con molti aspetti e molti livelli. Vorrei soltanto soffermarmi sulla tua protagonista e dirne qualcosa da romanziere, ossia più da uomo di mestiere che da critico. Questo personaggio di adolescente è la cosa migliore del romanzo, la tua più felice e più complessa invenzione. Essa parla in prima persona e tuttavia non conosciamo i suoi pensieri perché, probabilmente, non li conosce lei stessa, cioè non li pensa. Questa contraddizione che dà al personaggio tutto il suo dinamismo sta ad indicare una completa alienazione. In altri termini hai creato un personaggio molto moderno, con giusta e poetica intuizione della sua singolare capacità di essere al tempo stesso dentro e fuori le situazioni. A questo punto voglio tornare a te perché come ho già accennato, non è tanto il tuo libro che appare ed è pubblicato, ma la tua persona. E noi in realtà non leggiamo tanto un libro quanto impegniamo un dialogo con l'uomo che è nel libro. Questo spiega forse perché talvolta preferiamo i libri difettosi ma con un uomo interessante dietro la pagina ai libri cosiddetti perfetti dietro i quali si cela un uomo meschino. Il tuo libro non è esente per fortuna dai difetti che sono propri ai libri vitali e sopratutto ai primi libri. Ma l'uomo, o meglio la donna che sta dietro la pagina sicuramente vale la pana di un dialogo. Ed è per questo che ti ho presentata, affinché qualcuno possa aprire il libro e conversare con te e diventarti amico e dirti, come avviene nelle conversazioni amichevoli: "sì, hai ragione; no, hai torto; qui non ti esprimi bene; come hai fatto a pensare questa cosa? Da dove ti sono venute queste idee?" eccetera, eccetera.
Detto questo, la sola cosa ormai che mi resta da augurarti è che, alla fine, i tuoi interlocutori rimangano incuriositi; e che domani riprendano la conversazione con te, voglio dire che leggano anche gli altri libri che senza dubbio scriverai in futuro.


Buon dialogo, dunque, cara Dacia.

Con amicizia,
Alberto Moravia

di Dacia Maraini

Rileggere un libro scritto tanti anni fa è come guardare una fotografia della propria adolescenza. Il tuo corpo è lì in tutta la sua concretezza ma nello stesso tempo non c'è più, è svanito. Sono io o non sono io quella ragazza che scriveva in maniera distaccata e stupita? Dov' è finita quella mano che si soffermava crudele sui particolari senza riconoscerli come parte di un tutto? Quella mano che si impuntava, attonita, di fronte alle contraddizioni incomprensibili per una mente ancora infantile?
Quella ragazza innamorata dei libri che leggeva sempre, accanitamente: a scuola quando gli altri studiavano, ai giardini quando gli altri giocavano, nelle sale da ballo quando gli altri amoreggiavano, sulla barca quando gli altri prendevano il sole; dov'è andata a finire col suo carico di parole e di vicende altrui?
Guardandomi indietro non riesco più a vederla quella ragazza, ombra della mia ombra, che pure è lì a ricordarmi, attraverso la sua scrittura, quanto siamo parte di una continuità filata, nonostante le perdite della memoria e le macerie delle mutazioni. Niente si perde di ciò che abbiamo vissuto, neanche lo sghembo atto del crescere in tempi difficili e precari.
Non sono portata alla nostalgia. Ma scrutare il passato, si, mi piace, anche quello che va oltre la mia nascita: nella giovinezza per me solo sognata dei miei genitori o dei miei nonni, nei tempi mirabolanti dei miei antenati. Di quanto si può allungare lo sguardo della memoria familiare senza perderci la trebisonda?
C'è qualcosa nella giovinezza stellare del nostro sguardo che ci viene incontro dalle fotografie dell'adolescenza. È una illusione di eternità che ci stordisce? O una conferma ancora più tesa e cocciuta della irrealtà delle forme? Che volano, si sfaldano, e ridono delle nostre presuntuose aspettative?
Da quanto mi è dato sapere posso solo dire che «c'era una volta una ragazza», uscita ferita da una guerra odiosa e brutale. Una ragazza che ha conosciuto la fame fino al punto di delirare dietro un pezzo di pane muffito. Quella ragazza è scampata alla guerra, al campo di concentramento, non si sa per quale miracolo del caso. Ha conosciuto le penurie del dopoguerra: le scarpe risolate cento volte, i cappotti rivoltati, le mani piene di geloni per il freddo di stanze mai riscaldate, i libri letti di nascosto sotto le coperte, alla luce di una pila.
Quella ragazza che si dimenticava perfino come si chiamava tanto era sprofondata dentro un romanzo, aveva deciso che anche lei, appena possibile, avrebbe scritto un libro perché nei libri sta il sale del mondo e lei era ghiotta di quel sale; le importava poco dello zucchero e del miele.
Quella ragazza, a diciassette anni, ha cominciato a scrivere un romanzo asciutto e ruvido che ha voluto chiamare La vacanza, ma non nel senso di uno svago o di un viaggio festoso, bensì di un vuoto; un vuoto che le faceva torcere il collo in un gesto dolente di ricerca: chi e cosa c'era al di là della porta, al di là della strada, al di là del fiume, al di là della città? Qualcosa di sensato, per cui valesse la pena di sacrificarsi, oppure solo pena e confusione?
La risposta la cercava nei libri. Era troppo timida e impacciata per rivolgersi alle persone. Nel trovarsi faccia a faccia con qualcuno, arrossiva e impallidiva penosamente; le si asciugava la saliva in bocca tanto da non riuscire a spiccicare una parola.
Solo la scrittura poteva sostituire in qualche modo la parola muta, la parola sepolta in bocca come un morticino imbalsamato. Solo la scrittura le avrebbe dato un poco di pace e per questo si era messa a scrivere; per raccontare -vincendo la paura e la vergogna di essere al mondo delle storie inquietanti. Era un'attività solitaria, come aveva scoperto, che le faceva cercare il silenzio e la concentrazione. Ma poi, per misteriose vie alchemiche, quelle parole concepite in un isolamento certo sino riuscivano a raggiungere orecchie e occhi lontani, e questo le incuteva una strana forma di fiducia e di coraggio.
Il personaggio di Anna si era presentato a lei una mattina, chiedendo asilo e comprensione.
Sono sempre i personaggi che vengono a trovarmi e mi chiedono, ancora oggi, di scrivere di loro. All'inizio recalcitro, mi schermisco. Sembra difficile, quasi impossibile, parlare di qualcuno che si conosce poco, che accampa pretese assolutiste sulla nostra immaginazione; qualcuno che vuoI essere ascoltato, accudito, osservato e analizzato. Che fatica, mio dio, come potrò, mi dico.
E invece, poi, l'impresa si fa ogni giorno più eccitante: mentre scrivo prendo a conoscere il personaggio e più lo conosco più mi viene voglia di conoscerlo a fondo. Ecco come i furbissimi personaggi, scappati chissà da dove, ti costringono a stargli dietro, con curiosità e trepidazione. Alla fine ti innamorano pure e scrivere di loro diventa una cosa necessaria.
Anna è nata cosi, da un sentimento di somiglianza infantile. Quella bambina che aveva bussato alla mia porta era quasi un'altra me stessa, ma era anche un'altra, una estranea piena di domande che non riuscivo a capire.
E lei che mi ha raccontato di quel padre sensuale e pasticcione, di quella matrigna pigra e sorniona, di quel fratello solitario e cocciuto, di quei vecchi e di quei giovani che venivano attratti dal grembo della ragazzina come fossero api in cerca di fonti zuccherine.
C'era molto di Palermo, anzi di Mondello, in quelle arie pomeridiane odorose di alghe e di gelsomini, ma ho trasferito tutto sulla costa del Lazio, perché ormai vivevo a Roma e volevo che il mio sguardo non si perdesse in lontananze irriconoscibili.
Poi tutto è caduto nel pozzo-limbo della memoria, li dove i personaggi che ci hanno tenuto compagnia per anni giacciono sonnolenti in attesa di essere riportati alla luce. Ed ecco che si presenta l'occasione, da me quasi temuta, di questo ritorno. Consegno nelle mani dei lettori un personaggio dimenticato, dolorosamente atono e misteriosamente impedito, sperando che abbia conservato qualcosa della freschezza di quegli anni.

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L'Età del malessere[/align]
Torino, Einaudi 1963



Un padre creatore di arzigogolate e gigantesche gabbie invendibili, una madre esausta e malata, un fidanzato che sta per sposare un’altra donna, un lavoro senza futuro,


Ha ricevuto il premio Formentor, 1962


leggi brano........Ci sedemmo attorno alla tavola, mio padre, mia madre e io. Fuori pioveva ancora. La mamma succhiava gli spaghetti schizzando intorno la salsa. Il papà s'irritava. Non le diceva nulla ma per farle notare il contrasto, arrotolava la forchetta su se stessa, con pazienza, finché ogni filo era avvolto e se la portava alla bocca con abilità. Ma la mamma non gli badava. Teneva gli occhi sul piatto e masticava.

[…]
Squillò il telefono. Corsi a rispondere.
—Se è Cesare, digli che oggi devi studiare, —mi gridò dietro la mamma. —Devi farti desiderare, —aggiunse. Chiusi la porta della cucina e sollevai il ricevitore.
—Enrica?
—Chi è?
—Sono io, Carlo.
Restammo in silenzio.
—Che c'è? Ti ho disturbata?
—No, —risposi, —solo aspettavo la telefonata di qualcun altro.
—Chi?
—Non lo conosci.
—Ci vediamo oggi?
—No.
Silenzio. Respirava nel telefono, come se aspettasse che cambiassi idea.
—Be', ciao, —dissi.
—Ciao Enrica.
Tornai in cucina dove la mamma stava sparecchiando. E mi sorpresi a sentirla cantare. Aveva una voce bassa e dolce che mi ricordava quando ero bambina e lei cantava per me delle vecchie canzoni di campagna.
—Che mal di schiena. Chi era? —domandò.
—Carlo. Uno della scuola.
—Che fa suo padre? È ricco?
—Non credo.
—Sempre amici che non valgono niente, —commentò aspra. —Una ragazza come te deve pensare al matrimonio. Deve rendersi preziosa; scegliere con cura le amicizie. È inutile frequentare gente che non può servir ti a niente. Che fa Cesare? Perché non telefona?
[…]
Il telefono squillò di nuovo. La mamma fece per andare a rispondere ma la precedetti.
Era Cesare. Vidi proiettata sul muro la sua faccia annoiata. La sua voce suonava prepotente al di là del filo.
—Ti passo a prendere. Ho voglia di fare una passeggiata in macchina, che ne dici?
—Vengo, —dissi.
—Allora alle quattro.
—Va bene.
—Ciao.
La mamma mi osservò mentre sorbivo il caffè. Respirava male, come se avesse qualcosa nella gola. Da un po' di tempo soffriva di asma. Quando si stancava le mancava il fiato e il viso le si chiazzava di rosso.
—Chi era? —chiese.
—Cesare.
—Finalmente si è deciso. Ti passa a prendere lui?
—Sì.
—Con la macchina del padre?
—Sì.
—Bene, —approvò, —ma ricordati le cose che ti ho detto —Mi sorrise senza convinzione, con una luce di tristezza nelle pupille scure.
Il papà si era addormentato, con la testa appoggiata sul petto e le mani sulle cosce. Ogni tanto spostava un braccio come se volesse trovare una posizione più comoda.
—Be', io vado a riposare, —disse la mamma. Usci chiudendosi la porta alle spalle.
Non avevo sonno. La sicurezza di vedere Cesare nel pomeriggio mi faceva sentire caldo al ventre. ..

[…]

La curva della guancia, i punti scuri della barba, la peluria bionda sul collo, la piccola cicatrice dietro l'orecchio. Quando il mio sguardo arrivava all'ascella, ricominciava da capo, risalendo in su. Il gonfiore della guancia, l'ombra della barba, i peli sul collo, il piccolo taglio rosso dietro l'orecchio e l'attaccatura del braccio.
Lo osservavo da vicino, con un occhio solo; l'altro era schiacciato contro il cuscino.
Cesare dormiva, come sempre, con la bocca leggermente socchiusa e i capelli arruffati sulla fronte.
Per l'ultima volta osservavo da vicino la curva della sua guancia, l'orecchio accartocciato e trasparente, la cicatrice trasversale, come un frego di matita rossa, l'incavo dell'occhio e le palpebre abbassate, le ciglia molli e bionde, la linea della spalla e l'attaccatura del braccio.
Alzai una mano e con delicatezza toccai la sua guancia. Sotto le dita si sollevavano le punte rigide della barba. Sfiorai l'orecchio con un polpastrello, esplorai la china del collo e scivolai sulla spalla fino a raggiungere l'ascella.
Rabbrividii. La coperta ci era scivolata di dosso. Eravamo nudi e mi sentivo venire la pelle d'oca. Cesare si voltò lentamente e apri gli occhi.
—Che hai? —domandò.
—Niente. Ti guardo.
—Sei triste?
—Un po'.
—Sai che ho pensato? Che forse, quando sarò tornato dal viaggio di nozze e quando ci saremo sistemati nella nuova casa, se avrò un po' di tempo, potremo vederci ancora. In fondo mi secca rinunciare del tutto a te.
—No.
—Perché no?
—Perché sono stufa di questa vita. Dopo che ti sei sposato, per me deve cominciare un nuovo periodo.
Stava per replicare. Ma con un dito gli tappai la bocca e gliela baciai. Si divincolò, mi circondò la vita con le braccia e mi sorrise. Era sorpreso.
—Cosa farai da ora in poi? —domandò.
—Non so. Mi cercherò un lavoro.
—E la Bardengo?
—Non ha bisogno di una segretaria.
—Lo immaginavo che non sarebbe durata a lungo: lei è troppo matta e tu troppo poco ambiziosa.
—Però vorrei veder ti ancora, —insistette dopo pochi attimi di silenzio.
—No.
—Sei strana. Se mi vuoi bene perché non dovresti vedermi ancora?
—Non ti vorrò bene in eterno.
Rise. Mi strinse a sé con calore. Era un po' come la prima volta. Pensava a me e non si preoccupava di Ninì né del matrimonio.
—Ma se io ti pregassi di venirmi a trovare ancora?
—Non verrei.
Si accigliò. Mi prese la testa fra le mani e cercò i miei occhi.
—Dici davvero?
—Sì.
—Lo sai che anch'io ti voglio bene. Non dovresti trattarmi cosi. È una vendetta?
—Non è una vendetta. Solo voglio trovare qualcuno tutto per me.
—Ma io sarò tutto per te.
—E Ninì?
—Oh quella! —esclamò arricciando le narici.
—Perché la sposi, Cesare?
—La vuoi proprio sapere la verità? —disse sollevandosi su un gomito. —Forse è la prima volta che lo confesso, anche a me stesso. La verità è che sono stanco di studiare, che non ce la farò mai a prendere la laurea e voglio una casa mia e una vita da uomo, hai capito? Non è onesto verso di lei, lo so. Ma non m'importa. Lei mi ama, da anni. Le faccio un piacere. Non la tratto poi male. Ma voglio una casa dove ricevere gli amici, lontano da mio padre e voglio lavorare senza dover prendere la laurea. Il padre di Ninì ha una fabbrica di sapone, lo sai. lo intendo lavorare lì dentro col suocero. E potrò infischiarmi se non ho la laurea, perché nessuno me la chiederà mai. Mi capisci?
Annuii. Mi fissava tristemente. Poi scosse la testa e si nascose la faccia fra le palme.
—Sono un egoista. E pensare che fino a qualche anno fa avevo tante ambizioni, tanti progetti per il futuro. Volevo diventare un ingegnere e costruire case. Ma è anche colpa di quella sciagurata. È lei che mi tormenta perché la sposi. È stata lei a convincermi che non avevo bisogno di prendere la laurea per lavorare nella fabbrica di suo padre. E anche lui, mio suocero, che pende dalle labbra della figlia, a farmi fretta, a pregarmi di sposare presto la figlia e di dargli dei nipoti. Perché lui è vecchio e vuole ritirarsi da gli affari. Quell'imbecille. È anche colpa sua. Sua e di lei. La piccola ingenua fatina dagli occhi azzurri.
—Perché ridi? —esclamò, adirato. Mi afferrò per le spalle e mi spinse sotto di sé.
—Sarai sempre mia anche se non lo vuoi.
—Ne sei proprio sicuro?
Non rispose. Prese a baciarmi con furia. E mi schiacciò col suo corpo fino a farmi mancare il respiro.
La sua pelle aveva un sapore amaro di ferro e di sale.
—È tornato tuo padre, —dissi irrigidendomi improvvisamente.
Mi tappò la bocca con un bacio. Il suo viso era tanto vicino che lo distinguevo appena. Il naso bianco e carnoso, le labbra rotonde, la fronte tagliata da due rughe orizzontali. Poi non lo vidi più perché la sua faccia era caduta sulla mia: il naso contro la guancia, le labbra contro il mento, in un abbandono stanco.
Restammo a lungo cosi, abbracciati, finché il telefono non ci fece sobbalzare. Cesare allungò il braccio nudo oltre il mio corpo, portandosi la cornetta all'orecchio. Sentii il filo sdipanarsi sulla mia schiena.
—Ma si, stai tranquilla, —diceva Cesare cercando di addolcire la voce. —Ma si, ti dico che lo farò. Va bene. Andrò anche all'anagrafe. Ma a quest'ora è chiuso, come te lo devo dire. Ci andrò domattina.
Sbuffò rimettendo l'apparecchio al suo posto. Ritirando la mano, mi carezzò le spalle.
—Ora me ne vado, —dissi.
—Perché? Resta ancora.
—Ma non devi studiare?
—Stupida, —mi sorrise allegro, —sta' tranquilla che quei libri non li toccherò più finché campo. È finita con lo studio. Mio padre può urlare, piangere, protestare, non me n'importa. Gli sbatterò la porta in faccia e me ne andrò a casa mia. Non è bello essere liberi?
[…]
—Abbracciami, —dissi, —è l'ultima volta che ci vediamo — Mi sentivo piegare le gambe.
—Ma no. Ci rivedremo certamente.
Fino all'ultimo voleva fingere. Mi lasciai spingere fuori della porta e udii come tutte le altre volte la serratura scattare alle mie spalle.

[…]

Dacia Maraini - Da "L’età del malessere"



di Dacia Maraini

Non rileggo mai i miei libri. Preferisco lasciarli lontani e addormentati. Che poi non dormono affatto perché viaggiano per il mondo e mi capita di ritrovarmeli fra le mani ricoperti di una scrittura sconosciuta, chiusi da copertine in cui non mi riconosco. Un mese fa in Germania mi sono trovata faccia a faccia con una copia delL’Età del malessere appena ripubblicata dalla Rowolt Verlag, munita di una copertina davvero curiosa: un giovanotto in lambretta che cerca di abbordare, tutto proteso, una prosperosa ragazza bruna che cammina ancheggiando. Ho guardato l'interno per controllare che fosse proprio L'età del malessere come mi avevano detto. Si era proprio il mio romanzo del '63. Quanto mi è sembrato lontano! E non soltanto per quell'immagine stereotipata. Sono passati tanti anni e il mio pensiero ha preso altre strade, altri ritmi.
Dei miei libri passati qualche volta ricordo le emozioni che hanno accompagnato la loro scrittura: la ricerca delle parole, il lavoro sulle metafore, la vicinanza con un personaggio, il senso fisico di un paesaggio, di una casa, creati per l'occasione. Ricordo come mi dividevo fra la tendenza ad un frasare paratattico, breve e conciso, quasi sincopato e la voglia di adagiarmi nelle lunghe descrizioni, nei pigri vagabondaggi del pensiero.
Sono sempre stata indecisa fra i ritmi veloci e contratti di una prosa concreta, misurata e ritmi lenti, dilatati di una narrazione barocca e sensuale. A volte decisamente protesa verso una disperata sobrietà, a volte abbandonata ad una opulenta ricchezza di immagini.
Recentemente in una scuola dove avevano letto L'età del malessere dei ragazzi mi hanno chiesto: ma Enrica è lei? Certo, Enrica mi assomiglia, ma nello stesso tempo è un'altra da me, lontana e sconosciuta.
I personaggi nascono da noi, sono carne della nostra carne, ma nello stesso tempo sono diversi da noi, sviluppano un loro carattere autonomo, un loro destino particolare. Un poco come succede con i figli che nascono da un corpo femminile, portano i segni dei caratteri dei genitori, ma poi si sviluppano in modo proprio, spesso perfino imprevedibile e imprevisto.
Esattamente come racconta Pirandello, i personaggi tendono a prendere possesso della scena narrativa e ad imporre le loro ragioni. Mi è successo più volte di trovar mi in disaccordo con i miei personaggi che volevano agire in un modo diverso da come avevo previsto. Per scoprire, col procedere del racconto, che avevano ragione loro. Hanno sempre ragione i personaggi, perché il loro unico interesse è la fedeltà al proprio carattere, mentre l'autore tende a sacrificare il particolare in vista del generale, imponendo una sua idea dell'insieme narrativo che non sempre corrisponde ai bisogni più profondi del singolo personaggio.
Oggi posso dire che Enrica mi è estranea, si è allontanata troppo da me. Eppure conservo il ricordo del piacere che ho provato nello scrivere di lei, seguendola passo passo lungo strade che mi erano familiari ed estranee nello stesso tempo.
Non so mai quando scrivo se riuscirò a rendere corposi, dal punto di vista stilistico, i viaggi dell'immaginazione. Lo stile, come dice Roland Barthes «non è il risultato di una scelta ma è il prodotto di un impulso... è una dimensione solitaria e verticale del pensiero... è la "cosa" dello scrittore, il suo splendore e la sua prigione...; esso è la parte privata del rituale, si leva dalle profondità mitiche dell'autore e si espande indipendentemente dalla sua responsabilità».
Come dire meglio la carnalità dello stile, che è il risultato dell' organizzazione linguistica di un rapporto complesso e unico che lo scrittore stabilisce con se stesso e il mondo?

Dacia Maraini

Agora, 23 novembre 1988

Dal disincanto all'amarezza
di Alida Airaghi

L'età del malessere è il secondo romanzo di Dacia Maraini, pubblicato nel ‘62 e subito accolto come libro rivelazione di un stile nuovo, di un'autrice promettente.
Ambientato nella periferia romana, ha come protagonista la borghesia più umile, vittima e insieme artefice degli anni del boom economico di un'italietta miracolata e squallida.
La vicenda è narrata in prima persona da Enrica, una diciassettenne che vive con indifferenza sia i suoi drammi personali, sia quelli della penosa fauna umana cui appartiene.
Figlia unica di una coppia già in là con gli anni, la ragazza osserva con disincanto il lento declino della madre, sfiancata e umiliata nel logorante arrabattarsi di un piccolo impiego: la vede oscena nel suo corpo sformato, nei vestiti lisi, nelle amicizie volgari, e insieme penosa nelle ambizioni meschine di rivincite, di riscatto. Forse con più effetto, ma con uguale severa implacabilità, Enrica guarda al padre, artista fallito e alcolizzato che si è ridotto a dedicare ogni suo tempo ed energia alla costruzione di elaboratissime e invendibili gabbie per uccelli.
In questo tragico universo familiare si muove la giovane, senza tuttavia la benché minima voglia di evaderne. Abulica, indifferente a tutto, sue uniche aspirazioni sembrano essere l'acquisto di un paio di scarpe nuove o di un maglioncino aderente.Non si ribella alla frustrante relazione cui la costringe Cesare, uno studente fuoriclasse, che la usa come amante di riserva, in attesa di sposare una ricca fidanzata che rispetta.
Enrica frequenta un corso di computisteria e stenografia tra insegnanti e compagni che paiono tutti più disgraziati e infelice di lei, compie poi un'umiliante esperienza di lavoro in casa di un'anziana ed eccentrica contessa, niente sembra segnarla, niente la scuote. Vive come in crudi e crudeli, dalla morte della madre, a saltuari episodi di prostituzione, ad un drammatico aborto clandestino.
Solo alla fine, il matrimonio di Cesare la costringe a scegliere, le impone un cambiamento: e il libro termina con l'intenzione almeno annunciata di voltare pagina, di dare un nuovo indirizzo alla propria vita. II fascino che indugia in queste pagine è tutto in questa storia narrata senza alcuna retorica o ammiccamento, ma con tale dolente asciuttezza che il malessere in cui sono avvolti i personaggi contagia anche il lettore, amareggiandolo, indignandolo.

Alida Airaghi
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A memoria

Milano, Bompiani 1967[/align]
È un romanzo basato sulle esperienze dei movimenti di avanguardia e neoavanguardia legati più alla poesia e alla pittura che non alla prosa. Il ritmo ripetitivo dei dialoghi e il non senso — dovuti alla mancanza di memoria del personaggio principale — sono più importanti della sequenza logica del testo

leggi brano.....12 gennaio

"Sai una cosa strana? quando ho i dolori sento
che sono vivo."
"E quando stai bene? "
"Quando sto bene, ho la sensazione di essere
morto. "
"Oggi che non hai i dolori, ti senti morto? "
"Oggi no. Perché conservo il ricordo dei dolori di ieri."
"E ieri? "
"Stavo male, non te lo ricordi? "
"Sì, lo so."
"Domani uscirò."
"Cosa ha detto Migliorini? "
"Che domani posso alzarmi."
"Ti senti bene? "
"Sì, benissimo. Comincio a non crederci più."
"A cosa? "
"Alla malattia."
"Forse guarirai."
"Io credo di sì."
" Cosa ha detto Migliorini? "
"Che guarirò. Ma lui racconta sempre balle."
"Balle perché? "
"Sai che quando ho i dolori mi sento più vivo? "
"E quando non ne hai?"
"Mi sento morto."
"Cosa ha detto Migliorini? " "Che domani posso uscire. "
"Allora domani esci."
"E un raccontaballe terribile. "
"Chi? "
"Migliorini. "
"Lo so."
"Non ci credo più alla malattia. "
"Forse guarirai. "
"Sono guarito."
"Cosa ha detto Migliorini? "
"Che domani posso uscire. "
"E un gran raccontaballe. "
"Chi? "
"L'hai detto tu. "
"Sono guarito, ma quando sto male, mi sento più vivo. "
"Preferisci sentirti morto. "
"Sì. Ci si sente più tranquilli. Più normali."
"Normali perché? "
"Un morto in mezzo agli altri morti, e normale. "
"Cosa ha detto Migliorini? "
"Che domani posso uscire. "
"Allora domani esci? "
"È un raccontaballe terribile. "
"Chi? "
"Io la malattia non me la sento. Ma quando sto male, sono più vivo. "
"E quando stai bene? "
"Sto bene come un morto. "
"Uscirai domattina? "
"Forse. "
"Cosa ha detto Migliorini? "
"Che domani esco."
"È un raccontaballe. "
"È un gran raccontaballe. "
"Chi? "
"Migliorini. "
"Preferisci sentirti morto? "
"Sì. Ci si sente più tranquilli. Più normali."
"Normali perché? "
"Normali nella normalità della morte. "
"E la malattia che fa morire. "
"No, le malattie fanno vivere. Il dolore insomma, di qualsiasi specie. "
"E la morte? "
"La morte non esiste. Parlo della morte nella vita. "
"Forse guarirai."
"Sono già guarito. "

13 gennaio

"Non si apre così lo sportello."
"E come? "
"Non lo vedi che mi hai quasi scrostato la macchina? "
"Cosa vuol dire quasi? "
"Per fortuna e una macchina forte. La vernice dico. Hai visto che vernice? "
"La mia e tutta scrostata. "
"Per forza: e una macchina di serie. "
"Molto bella questa automobile. "
"L’hai mai provata? "
"No."
"Monta. "
"Molto bella. "
"L'hai ma! provata? "
"No mai."
"Beh, sali, provala."
"Molto bella."
"Non l'hai mai provata? "
"No."
"Vieni, provala adesso."
"Va molto bene. "
"Ti piace? E come un cavallo, nervoso, pronto, agile, e anche delicato."
"Questi libri cosa sono? "
"Libri di scuola."
"Vai a scuola? "
"Sì, la terza liceo. "
"Che libri sono? "
"Orazio, Virgilio e altre barbe. "
"Dove li porti? "
"Dovevo studiare con Mario quel mio amico che stava al bar deI tennis, ma laggiú, faceva troppo freddo e poi e venuta la sua ragazza, Marina e così me ne torno a casa. "
"Anche questo e un libra di studio? "
"No, questo e Pavese. Il mio autore preferito."
"Pavese? "
"È l'unico autore moderno che si possa leggere. Gli altri fanno schifo."
"Lo conosci bene? "
"Certo. Quello che mi piace e il suo senso della morte."
"Di Pavese? "
"Ma sì. La morte come malattia che corrode tutto, che mangia, che avvelena. Non c'e niente di integro né di intatto. Noi viviamo e la morte ci corrompe piano piano, senza quasi che ce ne accorgiamo. "
"Ah sì."
"Apri il libro, a pagina duecentotredici, leggi, in alto a destra."
" L 'idea deI suicidio era una protesta di vita."
" Continua. "
"Tutto questo fa schifo. Un gesto. Non scriverò più. "
"Ti piace? "
"E un libro di studio? "
"No, questo e Pavese, il mio autore preferito."
"Pavese? "
"È l'unico autore moderno che si possa sopportare."
"Chi? "
"Pavese. Apri, a pagina duecentotredici, leggi."
"Tutto questo fa schifo. Non parole, un gesto. Non scriverò più."
"E non scrisse più. "
"Che ha fatto? "
"Si è suicidato. Leggi lì, dove hai il dito."
"L 'idea deI suicidio era una protesta di vita. "
"Bello, giusto. Anch'io, alle volte, ci penso."
"A che?"
"Al suicidio. La vita fa schifo. "
" Perché? "
"Bisognerebbe agire, non parlare. "
"Agire? "
"Sì, suicidarsi, per esempio invece di chiacchierare tanto. Ma che fai? "
"Hai paura che ci vedano? "
"No. Ma non sai trattenerti? "
"No. "
"Ma tu hai la fede. Sei sposata? "
"Sì. "
"E vivi con tua marito? "
"Sì. "
"E vai in giro in cerca di uomini. Lo fai spesso? "
"Abbastanza. "
"Ma tu sei malata. "
"Hai paura che ci vedano? "
"No. Ma la donna che prende l'iniziativa non mi piace. "
"Torniamo indietro? "
"No, aspetta. "
"Sei sudato. Hai caldo? "
"Aspetta. Non ritirare le mani. "
"Hai paura che ci vedano? "
"Ma tu hai la fede. Sei sposata? "
"Sì. "
"Vivi con tuo marito? "
"Sì. "
" E vai in giro a caccia d'uomini. Lo fai spesso? "
"Abbastanza. "
"La tua malattia ha un nome: erotomania. Non lo sapevi? E una aberrazione psichica. Dovresti farti curare. "
"Vuoi che scenda? "
"No. Aspetta. Ormai."
"Ormai cosa? "
"Non posso trattenermi."
"Hai paura che ci vedano? "
"Chiudi gli occhi. "
"Hai un fazzoletto? "
"Tieni gli occhi chiusi. "
"Perché? "
"Perché sì. Non voglio che mi guardi. "
"Hai paura che ci vedano? "
"No. Aspetta. Ma come ti chiami? "
"Maria. "
"Sono io il colpevole. Non avrei dovuto assecondarti. Io sono sano, cosa credi. A me, queste aberrazioni mi fanno senso."
"Ti fa schifo? "
"Sì, come quando vedo un pederasta. Io, quando un uomo non e normale, lo vedo subito. Basta guardargli la bocca."
"La bocca? "
"Sì, e sempre un po' larga e sfatta. Ma oggi la società e piena di gente come te e come loro. Una folla di degenerati. "
"Scendo, devo andare. "
"No. Aspetta. Ormai."
"Ormai cosa? "
"Non posso trattenermi. "
"Hai paura che ci vedano? "
"Chiudi gli occhi. "
"Il fazzoletto? "
"Tieni gli occhi chiusi. "
"Perché? "
"Non voglio che mi guardi. "
"Scendo, devo andare. "
"No, aspetta. Ma come ti chiami? "
"Maria. "
"La società e piena di gente come te. Non c'e più pudore né riserbo né purezza. La gente e diventata sfacciata, avida e oscena."
"Scendo. Devo andare."
"No, aspetta. Non ritirare le mani. Ma come ti chiami tu? "
"Maria. "
"Tieni gli occhi chiusi. "
"Perché? "
"Non voglio che mi guardi. "
"Scendo. Devo andare. "
"No, aspetta. Ci sono."
"Vuoi il fazzoletto? "
"Tieni gli occhi chiusi. "
"Perché? "
"Non voglio che mi guardi. "
"Scendo. Devo andare. "
"No. Aspetta. Ma come ti chiami? "
"Maria. "
"La società oggi e piena di gente come te. Che schifo. Dio mio, che schifo. Dovremmo suicidarci tutti, per protesta. "
"Protesta? "
"Sì. Non ti ricordi cosa dice Pavese. Pagina duecentotredici? "
"No. "
"Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. "
"E poi? "
"L 'idea deI suicidio era una protesta di vita."
"E poi? "
"Dovrei cominciare io. Dovrei suicidarmi. Per protesta. La vita mi fa schifo. Tu mi fai schifo. Mi fate schifo tutti quanti."

14 gennaio

"Mangia l'angelo dalle ali azzurre. Guarda, non sembra che stia per spiccare il volo? "
"È bellissimo. Peccato mangiarlo. "
"Comincia dalle ali. "
"Mi farai diventare un maiale. "
"Adesso mangiagli la testa. "
"Come crocchia sotto i denti. Sembra di vetro. "
"Gliel'hai staccata netta coi denti. Quella crema rossa, sembra sangue. Non sembra sangue, guarda. "
"È troppo dolce. "
"Mangiagli la coda. "
"È tutto azzurro anche di dentro. "
"Di che cosa sa? "
"Di zucchero. È dolcissimo. "
"Mangiagli la testa. "
"E bellissima, peccato mangiarla. "
"Comincia dalle ali."
"Mangerò prima lo svolazzo della veste."
"La coda vuoi dite. "
"Quale coda? "
" Quella cosa azzurra e luccicante. "
"È la gonna. "
"Gli angeli non portano la gonna. "
"Mangiagli la testa."
"È troppo dolce. "
"Non sembra sangue? Guarda come cola da tutte le parti. "
"Mi sento i denti pieni di zucchero. "
"Mangiagli le ali."
"Mi farai diventare un maiale. "
"Mangiagli la testa. "
"Come crocchia sotto i denti. Sembra di vetro. "
"Gliel'hai staccata netta con un colpo. "
"Questa crema rossa sembra sangue. "
"Il sangue dell'angelo sparso per noi. "
"È troppo dolce. "
"Mangiagli la coda. "
"Mi sento la gola intrisa di zucchero. "
"Mangiagli le ali."
"Mi farai diventare un maiale. "
"Mangiagli la testa. "
"Mangerò prima lo svolazzo della veste. "
"La coda vuoi dite? "
"Quella cosa azzurra e luccicante. "
"E la gonna. "
"Gli angeli non portano la gonna. "
"Mangiagli la testa."
"È troppo dolce."
"Non sembra sangue? Guarda come cola da tutte le parti. "
"Mi sento la pancia piena di zucchero. "
" Strappagli le ali."
"Si rompono a schegge, come fosse vetro."
"Mangiagli la testa. "
"È buona. "
"Gliel'hai staccata netta coi denti. Che forza. Ma guarda, non sembra che coli del sangue vero da quel povero collo mozzo?"
"Sembra sì."
"Mangiagli le ali."
"Troppo dolce."
"Staccagli la testa con un colpo netto."

17 gennaio

Ha ricominciato a piovere. Sul tetto della casa di fronte, fra le tegole lucide di pioggia, oscillano ciuffi di erba nuova. La grande casa gialla con la scritta in latino è nascosta dietro un velo di nebbia. Le gocce vanno a sbattere sui vetri, scivolano diagonalmente, a strattoni e quindi si frantumano in minutissime particelle scintillanti. La pioggia ha ripreso ascendere rapida. Fra le tegole brillanti della casa di fronte, i ciuffi d'erba nuova oscillano al vento. La grande casa gialla dalle sculture in rilievo e nascosta da uno strato di nebbia. Piove ancora. Le gocce urtano contro i vetri, si rompono e scivolano lentamente, lasciando delle lunghe tracce orizzontali. Ha ripreso a piovere. Fra le tegole lucide di pioggia dei ciuffi di erba verde, dondolano spinte daI vento. Le gocce si infrangono sui vetri e colano verso il davanzale rapidamente. Un'ombra scura appare in basso, sul marciapiede, davanti alle scritte della casa gialla. La pioggia ha ricominciato a cadete rapida e pesante. Fra le tegole della casa di fronte oscillano i piccoli ciuffi d'erba cresciuti negli interstizi umidi. Adesso la figura nera sul marciapiede è ben visibile: è una donna. Non porta ombrello. Ha il corpo infagottato in un lungo impermeabile nero, che le copre anche la testa. Adesso piove di nuovo. Le gocce cadono oblique e vanno a sbattere contro il vetro, cospargendolo di righe e di punti scintillanti. Fra le tegole della casa di fronte i ciuffi d'erba nuova dondolano al vento. Un'ombra scura appare in basso, sul marciapiede, di fronte alla larga casa gialla. Le foglie grandi e brune dei platani la nascondono in parte. La figura adesso si sposta piano verso il centro della strada. È una donna. Penzolante contro il fianco destro, tiene una borsa larga e profonda, di colore marrone chiara. Ha ricominciato a piovere. Sul tetto della casa dirimpetto i ciuffi d'erba tremano scossi dal vento. Le gocce vengono sbattute con forza contro il vetro e scendono lentamente verso il basso lasciando delle impronte scintillanti. La donna non porta ombrello. Il suo corpo e ricoperto da un lungo impermeabile nero a cui e attaccato un cappuccio nero anch'esso, che le nasconde la testa. Penzolante contro il fianco destro essa tiene una borsa larga e lunga, di colore marrone. Piove ancora. Le gocce urtano contro il vetro della finestra e si frantumano e cadono lasciando impronte argentee disordinate. I ciuffi di erba pallida fra gli interstizi delle tegole della casa di fronte oscillano spinti daI vento. La donna adesso attraversa la strada, la testa leggermente piegata sul petto, in modo che il cappuccio le nasconda la faccia e i capelli. Quando arriva davanti al fruttivendolo, dall'altra parte del marciapiede, all'angolo della piazza, si ferma, si guarda intorno. Ha ripreso a piovere. Le gocce cadono oblique sui vetri, si rompono e colano verso il basso lasciando delle righe chiare, scintillanti. Un'ombra scura appare in basso, sul marciapiede. Le foglie brune e brillanti dei platani la coprono in parte. La donna non porta ombrello. Il suo corpo e infagottato in un lungo impermeabile nero che le copre anche la testa. La pioggia ha ricominciato a cadere pesante e rapida. Le gocce vanno a sbattere sui vetri, si rompono contro i cristalli e cadono giù in forma di minutissime scaglie scintillanti. Adesso la donna solleva la borsa all'altezza deI viso, con una mano la tiene aperta, mentre con l'altra vi fruga dentro. Le foglie grandi e opache dei platani la nascondono in parte. Ha ricominciato a piovere abbondantemente. Le gocce urtano contro i vetri e scivolano lungo il cristallo lasciando tracce di liquide scaglie biancastre. Adesso la donna tiene in mano una lettera. Accanto a lei, sul muro, vicino aI negozio deI fruttivendolo, spicca la scatola metallica verniciata di rosso, della cassetta per le lettere. Ha ricominciato a piovere. Sul tetto di fronte i ciuffi di erba nuova tremano mossi dal vento. La donna fa tre passi nella direzione della cassetta. Solleva un braccio tenendo stretta in mano la lettera. Nel far questo gesto, la manica dell'impermeabile scivola scoprendo un pezzo di braccio grasso e bianco chiuso all'altezza deI gomito da una maglia gialla. Piove ancora. Le gocce urtano contro il vetro e scivolano oblique lasciando impronte scintillanti. La donna ritira la mano vuota. La manica scende a coprire il braccio nudo. Essa riprende a camminare con precauzione, facendo dondolare la larga borsa sul fianco destro.

18 gennaio

"Ho ricevuto una lettera anonima. "
"Sì, lo so."
"Come lo sai? "
"Ho visto che la leggevi. "
"Ma come hai fatto a capire? "
"Me l'hai detto tu. "
"Te l'ho detto ora."
"Cosa dice?"
"Dice che tu mi tradisci. "
"E poi? "
"E poi niente. Dice di stare attento, perché tu mi tradisci, questo e tutto. "
"Quando e arrivata? "
"Poco fa, con la posta. "
"Cosa dice? "
"Lo sai che ho fatto? L'ho stracciata. Ho sempre considerato le lettere anonime una manifestazione di volgarità e di falsità. "
"Quando e arrivata? "
"Lo sai cosa ho fatto? L 'ho bruciata? "
"Cosa dice? "
"Dice che tu mi tradisci. "
"E poi? "
"Poi niente, l'ho stracciata. "
"Lo so."
"Come fai a saperlo? "
"Ti ho visto mentre lo facevi. "
"E come facevi a sapere che era una lettera anonima? "
"Quando e arrivata? "
" Stamattina, con la posta. "
"Cosa dice quella lettera?"
"Dice che tu mi tradisci. Ma io non ci ho mai creduto alle lettere anonime."
"Lo so."
"Come lo sai?"
"Lo so."
"Sai che ho fatto? L 'ho distrutta. Le lettere anonime sono una porcheria. Guai a dare lato credito. "
"Cosa dice la lettera? "
"Dice che devo stare attento perché tu mi tradisci. "
"E poi? "
"Come poi? Poi niente. Non basta forse? Ma io l'ho stracciata. Che vengano a dirmelo di persona, se hanno coraggio, questi vigliacchi. "
"Quando e arrivata? "
"Questa mattina con la posta. "
"Cosa dice? "
"Dice che tu mi tradisci. "
"E poi? "
"E poi niente. Una lettera anonima non può venire che da una persona gretta e meschina. Vorrei sapere chi l'ha scritta. "
"Cosa dice? "
"Dice che tu mi tradisci. Punto e basta. E una gran porcheria."
"Quando e arrivata? "
"Questa mattina con la posta. "

[...]


di Renato Barilli

Questo romanzo di Dacia Maraini è dominato da una figura femminile, da una sorta di eroina esistenziale, Maria, il cui programma di vita corrisponde da vicino a quello propugnato ed esemplificato da gran parte della migliore narrativa sperimentale contemporanea. Si tratta, potremmo dire in breve, di una disperata ricerca di autenticità e di prossimità ai valori più diretti e tangibili della esistenza, ad attimi e circostanze di vita colti quasi allo stato puro: un programma che dunque implica di riflesso il rifiuto dei valori inautentici, delle gerarchie autoritarie, delle norme e delle convenzioni tradizionali. Secondo una terminologia specialistica agitata nel romanzo stesso, si potrà precisare che Maria, mentre possiede una memoria "artistica", ovvero una memoria" che non risponde a dei nessi logici, temporali o razionali... la memoria dell'inconscio dove tutto si equivale" (in fondo, la memoria proverbialmente illustrata dalla madeleine di Proust), ha perso invece completamente la memoria "sociale"", quella da cui discende un impiego razionale e opportuno dei nostri atti, nel quadro delle finalità e dei valori collettivi. Un tempo, tale contrasto tra i due tipi di memoria e di condotta si sarebbe potuto riportare al dissidio classico tra vita contemplativa e vita attiva; e in fondo, una simile distinzione poteva ancora apparire valida per tutti i grandi narratori sperimentali dei primi del Novecento, che infatti obbligavano volentieri i loro protagonisti all'inerzia più totale, dal punto di vista pratico, portandoli per compenso a sviluppare In misura ipertrofica le facoltà conoscitive e percettive. Ma gli eroi della narrativa contemporanea di punta non si limitano più alla sola contemplazione: il regard, lo sguardo dilatato sulle cose, rientra certo in larga dose fra i loro strumenti usuali, e per esempio, come vedremo, anche Maria vi ricorre con insistenza; ma l'esigenza di un avvicinamento integrale alla vita li induce anche a ritrovare un tipo di azione più impegnativa e tangibile, anche se ovviamente anch'essa "inutile" e gratuita, dal punto di vista dei vantaggi e delle convenienze sociali. Così, se esaminiamo la condotta di Maria, troviamo che essa non si limita solo ad opporre la più sprezzante inerzia e neghittosità, là dove le buone ragioni sociali richiederebbero invece un intervento energico e tempestivo, per difendere una eredità minacciata, o per tutelare il proprio buon nome, o per curare affari e interessi d'ordine materiale. Inerte fino all'esasperazione su questo piano,
Maria diviene invece attiva in modo altrettanto esasperato su un altro, scandaloso e antisociale questo, giacché si tratta di una continua ricerca di avventure erotiche con ragazzi delle più disparate condizioni sociali, per lo più molto giovani d'età e immaturi. Ma evidentemente è quello dell'erotismo uno dei mezzi più diretti per stringere da vicino la vita e la realtà: esso occupa esattamente lo stesso luogo tenuto in altri tempi dalle "epifanie" joyciane o dalla madeleine proustiana: con la differenza che, esaurito ormai il modulo contemplativo, oggi l'estasi esistenziale è ricercata in una partecipazione più piena di tutto il corpo, e quindi in un agire concreto, in una gestualità fisica.
Naturalmente i "normali", coloro che restano nell'ambito della memoria "sociale" hanno un termine molto duro per qualificare un simile tipo di condotta: ninfomania, ed è la parola che uno dei molti partners occasionali di Maria non esita a gettarle in faccia con disgusto. In effetti, sempre a un livello di psicologia "normale", l'assoluta libertà erotica della protagonista sembrerebbe mal conciliarsi con un altro dato di fatto insistentemente fornito dal romanzo, cioè con l'amore struggente che la lega al marito Pietro. A voler infatti catalogare questo racconto secondo categorie convenzionali, lo si dovrebbe appunto definire come una appassionata storia di amore coniugale posta sotto il segno luttuoso e funereo della morte. Ma in realtà il rapporto Maria-Pietro è molto più complesso, e sicuramente non poggia in prevalenza, come pure sarebbe logico pensare, su rapporti di ordine eroticoconiugale, giacché non tardiamo ad apprendere che il marito è pressoché impotente, o per lo meno risente di forti tare e inibizioni sul piano sessuale. Si tratta piuttosto di un rapporto di solidarietà esistenziale e di complementarità intellettuale. Maria e Pietro sono uniti profondamente dal comune proposito di dichiarare guerra ai valori inautentici, filistei, borghesi. Solo che Pietro altro non sa fare se non realizzare tale rivolta secondo modalità ormai vecchie e inefficaci, quelle appunto della pura contemplazione inattiva. La scheda comportamentistica da ricavarsi sul suo conto ce lo mostra come un "intellettuale" debole e immaturo, un po' narcicista e compiaciuto della bellezza dei suoi lineamenti, inetto negli affari pratici, e perfino incapace di imporre la disciplina ai giovani con cui è giornalmente in contatto nella sua qualità di insegnante. L'impotenza sessuale e una malattia fisica che lo porterà presto alla morte sono i due corrispettivi concreti e oggettivi di questa sua passività di fondo. Maria dal canto suo sente indubbiamente di essergli superiore, di possedere strumenti più validi e più pieni per infrangere la normalità e far presa sulla vita: a cominciare, ben inteso, dalla sua stessa ninfomania, cioè da quell'avido ricorrere alle avventure erotiche più audaci e spinte. E in ciò è forse una segreta e quasi inconscia affermazione della femminilità stessa della scrittrice, sui caratteri più freddi e raziocinanti proverbialmente appartenenti all' altro sesso. Eppure, la netta coscienza di tale superiorità non impedisce a Maria di ammirare sinceramente il marito, di sentirsi unita a lui da uno stretto vincolo di solidarietà viscerale, così da doversi solennemente ripromettere di raggiungerlo presto, anche se la sua propria morte non potrà risultare da comode cause naturali, come quella dell'indolente consorte, ma dovrà in qualche modo venir provocata attraverso un'attività sistematica e volontaria.
Questa sorta di primato esistenziale di cui la protagonista gode rispetto alla figura più scialba ed esangue del marito trova una precisa conferma d'ordine tecnico. Un merito indubbio del romanzo della Maraini è di aver ottimamente risolto le questioni relative a tale ambito, evitando sia la monotonia dell'uso indifferenziato di un unico modulo, sia l'eccessiva e frastornante varietà dei piani stilistici moltiplicati, per pura ansia sperimentale. Questi si riducono fondamentalmente al numero di tre, ben distinti tra loro, e nello stesso tempo rigorosamente impiegati, ciascuno nel suo ambito. Ora di questi tre piani stilistici o canali di comunicazione, due spettano a Maria, mentre il marito, a giusta ragione, non ne dispone di alcuno, dato appunto il suo carattere di pallido alter ego rispetto a quello più forte e robusto della moglie. Come si era già anticipato, questa si vale innanzitutto del "monologo esteriore ", ovvero del regard "alla Robbe-Grillet": tecnica meritoriamente privilegiata fra tutte quelle escogitate dallo sperimentalismo contemporaneo, per il fatto che essa sa conciliare e garantire mirabilmente la presenza-assenza del personaggio: presenza incombente, a un palmo dalle cose, che premono sullo schermo visivo con tutta la loro intatta esistenzialità; e nello stesso tempo assenza del personaggio da se stesso e dalle consuete motivazioni sociali, giacché egli appare centrifugato, uscito fuori di sé, sostituito da un "vuoto " inquietante la cui azione si faccia sentire tenace e perturbante come quella di un vento freddo. Del regard e delle sue risorse, Maria si vale per seguire le tappe successive della malattia e della consunzione di Pietro, oppure nei momenti in cui viene a trovarsi in intimità con qualcuno dei suoi partners occasionali: come si vede, nell'un caso e nell'altro momenti estremi, situazioni parossistiche, al culmine di una circostanza drammatica, il che contraddice profondamente l'opinione banale che esso sia un abbandonarsi alla descrizione più neutra e passiva; anche se è vero d'altronde che, per effetto stesso del regard, il dramma resta congelato e sospeso, piuttosto che scoppiare e raggiungere le più alte temperature. Un altro canale usato da Maria, e questa volta bisogna riconoscere che si tratta di qualcosa di più personale e inventato, consiste in un dialogato a rapide battute, corrispondente a vari momenti e occasioni della sua pur magra e ridotta vita sociale: le occasioni che la portano a informarsi sulla salute del marito, o a darne conto ad amici e parenti, o a far la conoscenza di giovani operai e studenti con cui imbastire qualche rapida relazione. Un dialogato a prima vista del tutto normale e convenzionale, se non fosse che Maria rinuncia a farlo scorrere sul nastro della memoria sociale, e a tenerlo agganciato agli scopi e ai fini correnti cui pure era indirizzato. In realtà, la memoria autistica si impadronisce di quegli spezzoni di conversazione, li sigilla su se stessi, come in tanti circuiti chiusi, costringendoli a ripetersi, a ritornare continuamente sui propri passi, quasi intervenisse di tempo in tempo un difetto tecnico a bloccare lo scorrere del nastro. Le frasi più ovvie e innocue assumono cosi, attraverso quei ritorni periodici, un'insistenza ossessiva, e finiscono per ribadire la tonalità di esaltazione "fredda" e nauseata traspirante da tutti i brani poggianti sul regard.
Manca finora al nostro inventario il terzo dei canali di cui si vale il romanzo. Abbiamo già detto che esso non appartiene alla protagonista, né tanto meno all'esangue figura di Pietro. Ma questi due personaggi, nelle rispettive funzioni, esauriscono l'ambito degli eroi di primo grado, dei personaggi autentici, di coloro che si sono distaccati dal piano dei valori convenzionali. Questo significa che il terzo canale non potrà essere affidato se non a un personaggio appartenente all'altro mondo, al mondo dei "sani" e dei "normali". Ma la scrittrice evidentemente ha voluto evitare un urto troppo netto, tra questi due diversi mondi, e soprattutto non ha ritenuto opportuno assicurare all'ordine vecchio e filisteo il privilegio di disporre di un piano stilistico tutto per sé. Ecco allora l'ingegnosa soluzione di introdurre una figura, per cosi dire, intermedia e perplessa, quella di Giacomo, né del tutto normale, né del tutto "altro", amico della giovane coppia, variamente affascinato dalle loro doti rispettive: dall'intelligenza e dalla bellezza aristocratica di Pietro, e dalla calda vitalità prorompente da Maria. Di qui l'inizio di un tumultuoso epistolario da lui indirizzato alla donna: più che epistolario, in effetti un rotto monologo interiore, ove Giacomo non indugia mai a svolgere per intero i suoi pensieri, ma si limita ad abbozzarli in brevi frasi fortemente ellittiche. Una comunicazione rapida, quasi gestuale, un puntinismo psicologico, martellante e incisivo. E tuttavia, coerentemente col fatto che Giacomo resta pur sempre un "normale",provvisto di voglie e impulsi comuni, è questa la parte del romanzo meglio ravvisabile e descrivibile secondo le più comuni categorie psicologiche. Non per niente è anche la parte che si vale della tecnica relativamente più "datata" e divenuta ormai pressoché classica e canonica, appunto quella fornita dal monologo interiore joyciano. Naturalmente, alle profferte amorose di Giacomo, tutte ragionate, coerenti, appoggiate a un decorso prevedibile, che passa attraverso le tappe obbligatorie della svalutazione del marito (debole, inetto, esangue) e dell'esaltazione di sé (uomo forte, vitale, maturo), si contrappone il rifiuto costante di Maria, che non vorrà mai accettare quella relazione troppo logica e conveniente, e che preferirà continuare ad accoppiarsi capricciosamente coi giovani incontrati per strada.
Il piede che Giacomo mantiene saldamente poggiato sul piano della normalità gli permette di essere il tramite attraverso cui gli elementi inautentici del romanzesco di vecchio tipo possono affluire nel racconto: dapprima, e per lungo tempo, solo attraverso una sorta di obiettivo e distaccato rapporto informativo, e poi, verso il finale, addirittura con un colpo di scena di cui Giacomo stesso si rende protagonista. Uno dei meriti della Maraini, infatti, oltre a quelli dell'aver assunto una problematica viva e una tecnica nello stesso tempo articolata e rigorosa, sta anche nell'aver compreso che non si può puntare esclusivamente sull'autenticità del regard, ma che, almeno in filigrana e in contrappunto, conviene continuare a giocare abilmente con vecchi elementi inautentici di trama, di intreccio. L'epistolario di Giacomo è cosi anche una sorta di radiocronaca dello svolgersi dei fatti a livello "normale": Pietro muore e attorno alla sua eredità si sveglia l'appetito dei fratelli, i quali ovviamente avranno buon gioco contro l'abulia programmatica di Maria, potranno impugnare il testamento e privarla di tutti i beni lasciatile dal marito. Nello stesso tempo i "sani" dalla parte di lei, la madre per esempio, si adoprano per svegliarla dal letargo e spingerla all'azione, cercando anche di curarne le gravi carenze di memoria "sociale" , le cause cioè del male e della menomazione patologica che sembrano allontanarla dalla normalità e dalla buona salute.
La madre di Maria: è questo un personaggio che dapprima fa capolino, nelle lettere di Giacomo, secondo un tratto psicologico affatto risaputo e prevedibile: sembrerebbe di essere di fronte al caso banale dell'innamorato che ritrova, nella bellezza pur sfiorita della madre della sua donna, qualche motivo di tenerezza e di nostalgico affetto, dandosi quindi a colmarla di favori. Ma poi, man mano che risulta definitiva la ripulsa di Maria, una scelta sorprendentemente logica si farà strada nell'animo dell'amante deluso: quell'immagine tanto aderente di lei, che la madre ha il merito di incarnare in un corpo e in una psicologia "normali" , non scossi dal furore della rivolta, perché infine non accettarla, come unico surrogato a un amore e a una congiunzione altrimenti impossibili? Ed ecco quindi il colpo di scena veramente romanzesco, quasi da feuilleton ottocentesco: Giacomo sposerà la madre di Maria, ovviamente sperando di unire così al possesso carnale della prima un sottile possesso spirituale sulla seconda. Ma in realtà a quel modo la perderà definitivamente e affretterà la fine del fragile ponte comunicativo che fino a quel momento era riuscito a intrattenere con lei. Avviene infatti che proprio questi colpi di scena, queste azioni astute e calcolate provenienti dal mondo dei " sani " inducano Maria ad accentuare ancor più la sua distanza da essi, e a mettere in atto finalmente una coerente, sistematica, tangibile testimonianza del suo atteggiamento, del suo progetto di vita decisamente "altro". Un martirio, se vogliamo, nel senso etimologico del termine. Si chiude nel suo appartamento, ove una ormai catastrofica situazione economica l'ha privata di tutto: mobili, luce, gas, telefono, ove quindi nessuno può raggiungerla a infrangere una perfetta, totale solitudine. L'estremo strumento tecnico di cui si possa ancora valere, l'ultimo ad abbandonarla, è ovviamente quello del regard: un regard che si porta a distanza sempre più ravvicinata alle cose, al magro panorama di oggetti che un orizzonte ormai ridottissimo le consente di scorgere.
E quindi anche lo stesso "sguardo" , come già il nastro dei dialoghi registrati, entra nel circuito chiuso della memoria autistica, nella sconfinata distesa di un eterno presente. In quel momento, Maria attinge l'assoluto cui si è ardentemente indirizzata da tempo, corrisponda esso alla morte o a una sorta di vasta e onnivora "estasi materialistica"che abbia finalmente bruciato ogni residua distanza tra l'uomo e le cose, consentendo di attingere una immedesimazione perfetta con il puro flusso vitale. Una silenziosa catastrofe, questa della Maraini, che consuona sensibilmente con quelle cui pervengono di frequente nelle loro opere altri protagonisti della nuova generazione, il romanziere Le Clezio, il regista Godard, a conferma dell'urgenza e della attualità di una problematica comune.

Renato Barilli
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Memorie di una ladra

Milano, Bompiani 1972
Milano, Rizzoli 1993
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Basato sul racconto di una vera ladra della storia della sua vita, e su vari altri racconti sentiti nelle prigioni femminili italiane durante un’inchiesta giornalistica svolta dall’autrice, questo romanzo si svolge nell’ambiente del "Lumpen Proletariat" romanesco tra piccoli furti di strada e grandi punizioni nelle carceri e nei manicomi criminali.

leggi brano........Un giorno Dina mi fa: sai che ti dico, mi sono stufata di fare sempre io; devi imparare pure tu a sfilare portafogli; oggi andiamo e il lavoro lo fai tu, io ti aspetto fuori. Dico: va bene, ci provo, ma ho paura. Dice: non ti preoccupare; tu abbracciatelo bene, baciagli l'orecchio che gli uomini perdono la testa quando gli baci l'orecchio e intanto gli infili la mano in tasca; hai capito? Dico: sì ho capito.
Il pomeriggio usciamo sul tardi che era già buio. Faceva freddo, ma non c'era vento. Si stava abbastanza bene. Io andavo ancora in giro con quel cappotto leggero di Roma perché non avevo trovato i soldi per comprarmene uno nuovo.
Camminiamo per il centro, verso piazza del Duomo. Io mi guardavo quelle guglie di pietra, tutte merlettate, biancastre. Dico: hai visto che roba? Dice: invece di guardare in alto, guarda per terra, le chiese non hanno portafogli. E io subito mi sono messa a scrutare i passanti che mi sembravano tutti gente ricca: cappotti col bavero di pelliccia, borse di coccodrillo, cappelli di castoro.
Dico: qui facciamo affari! Dice: non ti credere, è più apparenza che altro. Dina faceva la saputa, ma sbagliava pure lei. Da ultimo ne aveva sbagliati parecchi.
Gliel'ho detto. Si è arrabbiata. Dice: non è colpa mia se gli uomini si sono imparati ad andare in giro col porta foglio vuoto. La faccia da ricco io la riconosco, ma non posso indovinare se i soldi li porta appresso oppure no.
Mentre discutiamo passa uno che ci guarda con due occhi accesi e Dina mi dà un pizzicotto. Eccolo! mi fa, datti sotto!
Io non sono brava a fare il teatro come lei. Mi faccio coraggio, mi volto, sorrido un po' invitante. Anche lui si volta. Si ferma. Torna indietro. Dico: e ora che faccio? E Dina: fai la graziosa, fai la timida; vedrai che tutto va bene.
Faccio la graziosa, ma io non sono brava, si capisce che sono finta. Mi viene da ridere; mi viene da prenderlo a pugni perché mi è antipatico, ha la faccia storta, è giallo, porta un cappelletto in testa che gli copre appena la punta e basta.
Dina mi dava dei calci, degli spintoni. Finalmente quel lo apre bocca. Dice: siete sole? Dico: sì, non siamo di Milano, la città non la conosciamo. Dice: ve la faccio conoscere io; siete libere? Dico: sì sì.
E quello comincia a portarci in giro per Milano. Dina mi dava le gomitate. Dovevo proporgli di andare al cinema, ma non mi veniva. Continuavamo a camminare come tre scemi; lui che diceva: questo è il Duomo, lassù c'è la ma donnina, bello eh? E io: bello, bello. Dina era furiosa.
Per fortuna ad un certo punto capitiamo proprio davanti a un cinema dove davano un film d'amore molto conosciuto. Dico: perché non andiamo a vedere questo film? mi piacerebbe. Dice: andiamo. Dico: però viene anche la mia amica, non la posso lasciare sola. Dice: come vuoi. Ci paga il biglietto a tutte e due, e anche caro perché era un cinema di prima visione.
Io mi volevo vedere il film. Pensavo: dopo, verso la fine gLielo prendo il portafoglio. Invece non era possibile. Dina mi torceva la pelle del braccio. E quello poi voleva pomiciare. Dico: guarda, non ti agitare troppo perché la mia amica poi si scandalizza.
Non gli permettevo di toccarmi. Lo toccavo io. Gli carezzavo il collo, le spalle, un po' fra le gambe. Poi chiudo gli occhi e mi dico: ora gli bacio l'orecchio come m'ha detto Dina, è il momento buono.
Dina fremeva perché ero lenta, impacciata. Ma io avevo paura che quello si accorgeva che stavo rovistando nella sua tasca. Gli uomini poi non si sa perché portano tante tasche. Questo qui ne aveva due sulla giacca, fuori; due dentro, due nei pantaloni, era un pasticcio.
Dina lo capiva subito dove stava il portafoglio. Io no. Poi me l'ha detto che lei lo spiava mentre pagava il biglietto alla cassa. Io non ci avevo mai pensato.
Insomma stavo con le dita a tastare in queste tasche. E per la preoccupazione, sudavo, ero una fontana. Finalmente ho sentito qualcosa di duro sotto le dita. Era il porta foglio. Ho stretto i denti e per poco non gli porto via un orecchio. Per fortuna lui l'ha preso come un segno di passione. Sempre con questo orecchio fra i denti, gli sfilo il portafoglio e lo passo a Dina, sopra il bracciolo. Ero così contenta di esserci riuscita che me lo baciavo veramente, quel fesso, per la gioia.
Gli ho dato due schiocconi sulle guance e due sulla bocca e lui era tutto esaltato. Era bruttino, con le orecchie a sventola. Dico: mamma mia come sei scemo!
Dina si alza, va al gabinetto. Io rimango ancora un po' con lui, gli dico quattro cretinate, gli metto una mano fra le cosce. Poi, quando sono passati tre minuti, dico: vado a vedere che fa la mia amica, non vorrei che stesse male. Mi alzo e vado. Come esco, comincio a correre che neanche Dina mi teneva dietro.
Ci fermiamo in una strada solitaria. Tiriamo fuori il portafoglio. C'erano duecentotrentamila lire. Abbiamo subito diviso; centoquindici a lei e centoquindici a me. Dico: hai visto che ce l'ho fatta pure io? Ero orgogliosa, mi pareva di avere fatto chissà che. Ma prima di impararmi ce n'era voluto.
Dina mi rimbeccava, mi diceva: ah stupida, rincoglionita, non sei buona a fare niente! E io, a forza di sentire queste umiliazioni, queste strillate, mi sono imparata la scaltrezza come lei.
Quella sera abbiamo festeggiato con una cena grandiosa. Abbiamo mangiato: trippa, stracotto, baccalà alla crema, aragosta, dolce di ricotta, caffè, vino e birra. Non riuscivamo ad alzarci dalle sedie tanto eravamo gonfie di cibo. Torniamo al Commercio mezze ubriache; il padrone ci viene incontro, tutto sorridente, dice: siete allegre eh! vuol dire che la vita vi va bene! posso offrirvi qualche cosa? una grappa? un vermuth? ve lo porto su in camera; ci facciamo una bevutina alla vostra salute.
Io gli faccio un rutto in faccia. Dina che non perde mai la calma dice: come sei carino! grazie! però noi adesso dobbiamo dormire perché domattina ci alziamo presto. A domani! ciao! E lo pianta lì come un ciocco. È bravissima lei con gli uomini. Finge che ha paura di loro. Promette promette e poi non mantiene mai.
Un innamorato vero ce l'aveva; si chiamava Domenico. Lo chiamavano Mimi. Ma lo vedeva poco perché pure lui faceva il ladro ed era sempre in giro per affari. Avevano due giri diversi.
Il giorno dopo dormiamo tutta la mattina. Poi andiamo nei negozi a rifornirci. Dina si compera una borsa di pelle rossa, un paio di scarpe rosa col tacco. Io mi compro un cappotto foderato di pelliccia, bello caldo, color blu del cielo. La pelliccia interna era di nailon, ma teneva caldo lo stesso. Anche questa pelliccia era blu, ma più chiara. Noi compriamo guanti, biancheria, calze. Ci facciamo mettere a posto i capelli da un parrucchiere di lusso.
Il giorno dopo viviamo di rendita e il giorno appresso pure. Passiamo il tempo a letto a dormire, a leggere giornaletti, a rifarci le unghie, a chiacchierare, mangiucchiando dolci di mandorla.

[...]

Quello stesso giorno, tornando a piazza Vittorio incontro un'amica mia, una certa Nicolina. Mi dice: senti Teresa, mi devi fare un favore. Dico: che favore? Dice: io ho avuto un uomo che m'ha succhiato il sangue; ti devo confessare tutto, io ho fatto pure le case per quest'uomo; sono stata a Milano, a Torino, ho girato diverse case di tolleranza. Sono arrivata a fare centomila lire al giorno, ma di queste cento, novanta le dovevo dare a lui; a me mi lasciava giusto per campare e pure malamente. Io allora l'ho preso di petto e gli ho detto: caro Natalino, così non può andare; io lavoro e poi i soldi te li pappi tu. E lui per consolazione mi ha portata dentro la sua Jaguar rossa a pranzare in un ristorante di lusso con gli amici. Mi presentava come la sua fidanzata. E io ero contenta. Ma poi ha ricominciato come prima. Mi trattava come un pedalino e mi portava via il novanta per cento di quello che guadagnavo.
Dico: ma quello ti proteggeva, Nicolina! Dice: mi proteggeva ma mi costava troppo assai; certe volte non avevo neanche i soldi per comprarmi le calze; andavo in giro con le calze bucate.
Insomma che favore vuoi? dico io. Aspetta, dice, che ti racconto. Dice: io a questo gli volevo bene, lo sopportavo pure che era cattivo. Però poi un giorno l'ho visto con un'altra, una ragazza nuova e per la gelosia l'ho denunciato. L'ho denunciato per sfruttamento.
Dico: ma sei una boia! che avrà detto la gente d'omertà? non lo sai che le denunce non si fanno? tu passi da infame! Dice: infatti mi è dispiaciuto dopo che l'ho fatto; ma soprattutto mi dispiace per il padre di Natalino che è un vecchio e sempre viene da me a piangere per questo figlio; dice che adesso arriva Natale, che la madre vuole rivedere il figlio, che il ragazzo in galera sta male, piange; dice che specie per chi non c'è mai stato è una cosa terribile il carcere, da non sopportare; insomma mi prega di ritirare la denuncia.
Dico: e tu fallo! se non lo fai guarda che l'ambiente dopo ti chiama infame, ti sputa in faccia, sei discacciata da tutti; poi questo è un mondo vendicativo, non puoi più camminare tranquilla. Dice: io ritratto, sono convinta a farlo, però voglio che mi ridanno i soldi che ho uscito per la causa, per l'avvocato Ammazzavacca.
Dico: ma io che c'entro? Dice: tu lo sai che devi fare? devi andare a chiamare questo vecchio, il padre di lui che sta al mercato al banco numero dodici. E gli dici: ti vuole Nicolina, ti vuole parlare.
Dico: va bene, se si tratta solo di questo il favore te lo faccio. Però dopo te la sbrogli con lui perché io non ci voglio entrare in questa faccenda.
Insomma faccio da mediatora. Vado da questo vecchio, gli dico di Nicolina. Dico: vedete un po' di rimbonire la cosa perché sembra che lei è disposta a ritirare la denuncia, però vuole che le ridate i soldi che ha cacciato per l'avvocato Ammazzavacca, per la causa, vuole questo mezzo milione e poi ritratta.
Il vecchio mi dice: basta che ritratta l'accusa di sfrutta mento contro mio figlio, io il mezzo milione glielo do. Tu fai la testimonianza, firmi questa carta con lei e siamo a posto.
Così ci diamo appuntamento al bar con questo padre il giorno appresso, era un giovedì. Io vado a prendere Nicolina e insieme andiamo al bar designato per ricevere i soldi e firmare la carta di ritrattazione, sotto la mia testimonianza.
Lui viene, questo Balocca, al bar. Era un bel vecchio, grave. Dice: prendete qualcosa? un caffè? Dico: no, no, mettetevi d'accordo che combiniamo subito. Dice: il mezzo milione ce l'ho qui pronto; però prima Nicolina mi deve firmare questa carta.
Tira fuori una carta bollata in cui c'è scritto: io sotto scritta Nicolina Gasperoni dichiaro di avere denunciato Balocca Natalino soltanto per un atto di gelosia, ma dichiaro che non è vero che mi sfruttava, bensì l'ho fatto per la gelosia mia.
Poi dice: ecco qua, Teresa, tu firmi qui sotto per testimoniare che io ho dato il mezzo milione. Ma dov'è questo mezzo milione? ancora non l'ho visto, fa Nicolina. Il vecchio tira fuori un pacco di soldi. Dice: il mezzo milione ec colo qua; prima firma che poi te lo do. Allora lei firma e poi, sotto, firmo io.
Tutto d'un botto, appena abbiamo firmato, si apre la porta, bam bam ed entra la polizia. Balocca se ne va con la carta firmata e i soldi. E noi veniamo arrestate.
Ci portano in questura. Dico: io non ho fatto niente, io ho solo testimoniato. E racconto la storia com'è andata. Ma non mi davano retta i questurini. Non mi stavano neanche a sentire.
Però io in questura stavo tranquilla, perché pensavo: tanto mi rilasciano, io non c'entro, una testimonianza non è reato.
Invece ci mettono dentro tutte e due per estorsione. E quella è una cosa l'estorsione che non si scherza; si prendono come niente cinque sei anni. Ma io non avevo fatto nessuna estorsione. Avevo solo testimoniato. Questo fatto non mi andava giù. Per fare una firma di testimonio innocente dovevo prendere sei anni!
Ercoletto stava per uscire. Dico: ora quello sente che sono di nuovo dentro e mi abbandona; si metterà con un'al tra. Dico: ora la casa mi va tutta distrutta. Come vado dentro la casa mi va distrutta e devo ricominciare da capo. Dico: a me queste case mi portano jella, è meglio che non me ne faccio più. Come mi facevo una casa, venivano le amiche invidiose, gelose, ah che bello questo! che bello quest'altro! dove l'hai comprato? che bella camera, dove l'hai comprata? e mi mettevano la iattura, l'invidia, mi di struggevano.
Poi appena andavo in galera, si buttavano dentro questa casa e mi portavano via tutto, si ripulivano tutto che quando uscivo non ritrovavo neanche una spilla.
Lì dentro alla galera mi sentivo un'anima persa. Dico: ma perché sto qui rinchiusa? Erano sei mesi che stavo li e non si decidevano a farmi il processo. Per la prima volta non riuscivo proprio a darmi pace. La reclusione non la digerivo proprio. Litigavo tutto il tempo con quella, con questa, mi azzuffavo.
Me la prendevo con quella disgraziata di Nicolina. Dicevo: guarda questa scema che m'ha combinato! ma rimbambita che non sei altro, almeno chiama il giudice, digli che io non c'entro!
Dice: neanche io c'entro, non ho colpa. Dico: t'ho fatto un favore, non ti ho chiesto niente. Ti ho chiesto qualcosa per questo favore? Dice: no. Dico: lo vedi! non m'hai dato niente, non volevo niente, t'ho solo aiutata. E ora sto chiusa qui dentro per te.
Veniva suor Carmina dalle mani dure. Stai zitta Teresa, mi faceva, con quella vociona grassa. Dico: dovrebbe stare lei al posto mio! io mi rassegno, dico, quando mi prendono per una cosa che ho fatto, ma per una cosa che non ho fatto, no. Dice: zitta tu delinquente! Non ci credeva che non avevo fatto niente.
Sono stati sei mesi di dolori. Non mangiavo, non parla vo. Me ne stavo buttata sul letto a pensare. E più pensavo e più diventavo rabbiosa. Pensavo a Ercoletto che a quest'ora stava uscito e chissà che faceva.
Pacchi non me ne mandava e neanche lettere. Mi aveva abbandonata. Orlando stava sempre chiuso e non sapevo neanche dove. Ero avvilita. Le suore venivano, spalanca vano la finestra. Teresa, alzati, dice, non fare la finta malata perché nessuno ti crede! Ma io non ero malata, ero disgustata. M'ero seccata della vita.
Le compagne capivano. Salivano qualche volta a portarmi una sigaretta. Saliva pure Nicolina e io la cacciavo via, non la volevo vedere, anche se sapevo che lei era stata ingannata come me.
Stavo lì con gli occhi chiusi, ma non dormivo. Neanche la notte mi riusciva di dormire. Stavo abbacchiata, mezza rinscemita e non mi andava di fare niente. Mi alzavo per mangiare, mandavo giù un mezzo cucchiaio di minestra e tornavo a letto. La suora mi faceva: prenderai sei anni e ti starà bene perché sei malandrina e chissà cosa avete combinato tu e quella prostituta di Nicolina!
Io dico: sei anni qua dentro per non avere fatto niente non li faccio. Piuttosto mi ammazzo. Infatti una mattina prendo un lenzuolo lo tiro tutto come una fune, lo torco, preparo la cappiola, l'attacco alle sbarre della finestra e m'impicco.
In quel momento passa Anna Bordoni, una che era tenuta in palma di mano dalle suore. Io avevo calcolato che a quell'ora non veniva nessuno, erano tutte all'aria. Invece questa Anna passa per andare al gabinetto, le era venuta una voglia improvvisa, dà una guardata dentro la mia cella, le salgono gli occhi e mi vede che sto lì impiccata con la lingua di fuori.
S'è messa a strillare, ha chiamato gente. È venuta la monaca, m'hanno presa, m'hanno sciolta, m'hanno fatto le iniezioni.
Non capivo niente. Ero morta. E invece mi hanno riportata in vita. Mi hanno voluta salvare. Ero diventata tutta nera al collo. La gola mi faceva male, non potevo neanche inghiottire la saliva. Ero tappezzata di chiazze sulla faccia. Non so come m'hanno salvata. Si vede che sono proprio dura a morire.
Dopo di allora mi stavano sempre addosso. Non mi lascia vano mai sola. Stavo chiusa in infermeria con Lella degli Angeli che non mi spiccicava mai gli occhi di dosso. Là ho fatto amicizia con una ragazza che era dentro per tentato aborto. Si era bucata l'intestino coi ferri da calza per ammazzare quel figlio che era il figlio di suo zio. L'hanno portata dentro che perdeva sangue come una pecora scannata. L'hanno ricucita, rimessa a posto. Si era per forata l'intestino, ma il figlio non era stata capace di man darlo via. E se l'è dovuto tenere.
Lo zio poi ha negato di essere stato lui. La madre e il padre hanno creduto allo zio e non venivano neanche a trovarla perché dicevano che era una disonorata assassina che aveva tolto l'onore alla famiglia.
Con questa Pinuccia giocavamo a scopone. Vinceva sempre lei. Era simpatica. Timida. Poi ho saputo che ha fatto un figlio storpio. Ma l'ha tenuto e ora non so dove sta. Credo che è impiegata a servizio; l'ho sentito dire. Dopo otto mesi che sono dentro, una mattina viene suor Innocenza e mi dice: Teresa, sei scarcerata! ti riconoscono che sei innocente. Dopo otto mesi!

[...]

di Giovanni Giudici

Credo che il lettore abbia diritto a qualche notizia sul come è nato questo libro di Dacia Maraini che s'intitola con una punta di ottocentesca civetteria, "Memorie di una ladra". Riferisco per lo meno le notizie che sono state fornite a me e che ho ogni ragione di ritenere esatte. Incaricata qualche anno fa da un quotidiano romano di condurre una inchiesta sulle condizioni delle detenute nel carcere femminile di Rebibbia, l'autrice vi venne a contatto col campionario di umanità che si può immaginare, entrando in confidenza e magari in amicizia con alcune di quelle persone, ognuna delle quali sembrava fortemente interessata (come succede in molti di questi casi) a che lei raccontasse in modo particolare la sua storia.
Tra queste era una donna ormai cinquantenne, la stessa che nel libro agisce e parla col nome di Teresa Numa, condannata più volte per borseggi e piccoli furti: doveva ( e deve) essere un personaggio abbastanza singolare, se fra tante fu proprio lei a sollecitare l'immaginazione dell'autrice e a suggerirle la possibilità di trasformare una materia d'inchiesta giornalistica in materia di romanzo. La Maraini, mi dicono, tornò a Rebibbia; ma la Teresa Numa ( chiamiamola pure col suo nome letterario) non c'era già più e non deve essere stato molto facile scovarla e indurla al racconto delle sue peripezie.~ Questo racconto è la materia del libro: quarant'anni, più o meno, di vita, trascritti in trecento pagine, in tono calmo e fluente, tipicamente rievocativo, senza alcuna artificiosa ricerca di "suspense", senza rigide strutture cronologiche che non siano quelle, inevitabili, del tempo materiale necessario per raccontare; con solo qualche dato esterno di riferimento, costituito daI fatti dell'epoca (la guerra, il dopoguerra ecc.).
Teresa Numa è una ragazzina di Anzio, appartiene a una famiglia abbastanza numerosa e di condizione abbastanza modesta se non proprio povera resta orfana di madre, ancora molto giovane si unisce in un matrimonio tutt'altro che liscio con un certo Sisto, figlio di un casellante ed egli stesso assuntore delle ferrovie, un marito un po' scombinato che va e viene finché sparisce del tutto e più avanti si saprà che è morto, non senza averle dato fin dall'inizio un figlio, che resterà quasi sempre in custodia delle spigolose zie materne e finirà per vergognarsi, da grande, di una madre così poco rispettabile. Il fallimento della vita "normale" porta a poco a poco Teresa verso una normalità "altra", una contro normalità che è l'avventurosa e picara carriera di taccheggiatrice, tutta inframmezzata di piccoli successi, colpi di sfortuna, soggiorni in carcere e a volte in ospedale, amicizie occasionali, fregature date e subite: c'è poi un nuovo compagno, Ercoletto anche lui un pendolare della prigione, egoista e fedifrago, ma servito tuttavia da Teresa con dedizione e fedeltà; e c'è anche un bambino, figlio di un fratello di Te. resa, al quale lei si affeziona e che tiene con sé.
Così si pua riassumere la trama, se trama si può dire: per la verità ci troviamo di fronte alla giusta posizione indifferenziata di molti piccoli episodi, appena scanditi dal passare degli anni, amalgamati nell'unica dimensione deI puro raccontare e rievocare, in un tono più orale che scritto, sicché il vero argomento dl questo racconto è il raccontare stesso dell' "io" protagonista, il suo tranquillo e ottimisticamente rassegnato navigare nell’oceano dei fatti, senza alcuna pretesa di lamento ne di giudizio morale, senza alcuna presunzione di particolare sofferenza o sventura.
Teresa fa il suo lavoro di ladra (alternandolo nei periodi meno floridi con quello di venditrice d'olio sofisticato o di trafficante di sigarette) con la stessa "onestà professionale" con cui potrebbe fare qualsiasi altro lavoro: osserva scrupolosamente ( a differenza di altre "colleghe" ) le regole della "gente d’omertà" non fa la spia né in carcere né fuori, come moglie o compagna non bada a sacrifici per il suo uomo, anche se non ne è ricambiata; ed è una donna casta, dal "sesso freddo" come dice lei, tanto da passare indenne, senza fatica, attraverso il mondo delle prostituite e di lenoni ( inevitabilmente confinante con quello ladresco) e da rifiutare con sdegnosa pudicizia il compromesso degli amori lesbici nelle carceri femminili. La sua sessualità è nel cibo, nello sfamarsi. E' simpatica insomma, e anche in questo caso senza strafare, perché il suo discorrere e muoversi non escono mai dai limiti della naturalezza: ma proprio per questo riesce a conquistarsi l'animo del lettore. Confesso che più di una volta mi sono trovato a sperare che un certo portafoglio a cui Teresa mirava fosse abbastanza ben fornito da giustificare il rischio.
Ma a questo punto una cosa è da dire: un fatto sono i ricordi narrati a voce della donna reale che qui diventa il personaggio Teresa Numa; un altro fatto è l'averli assunti come materiale di un'opera letteraria, mantenendone inalterata la carica di interesse e di persuasività Mi sembra che sia proprio in questo la riuscita della Maraini, che non solo ha saputo non intervenire col proprio "io" d'autore sull' "io" narrante del personaggio, ma anzi (con una notevole operazione di umiltà mentale) ha addirittura rovesciato questa probabilità consegnandosi interamente e spontaneamente al personaggio, al suo punto di vista, al suo universo antropologico "altro", sottomettendosi a Teresa Numa così come questa si sottomette alla forza perentoria dei fatti.
Non so se in altri campi o se sempre, ma certo è che in letteratura molto spesso l'umiltà ripaga chi ne è sinceramente capace: così mi sembra sia accaduto nel caso di "Memorie di una ladra" e della sua autrice. Certamente quando la pseudo Teresa nella sua casa (credo) dell'Acqua Bullicante, avrà raccontato la sua storia ad una signora venuta apposta da "dentro Roma" armata di magnetofono, non avrà creduto di raccontarle alcunché di straordinario: la stessa violenza del mondo ladresco non è più violenza quando sia attutita ed esorcizzata dalla sua quotidianità anche i soggiorni in prigione ( a parte l'allucinante quadro del manicomio criminale di Pozzuoli ) sono per la ladra incerti già scontati, al massimo malattie professionali come la silicosi o il crampo dello scrittore. Dacia Maraini ha mostrato di ben assimilare la lezione in questo senso della sua ispira-trice non ha preteso di interpretare un mondo e un linguaggio già di per sé abbastanza eloquenti. Ciò nonostante (anzi: proprio per questo ) il libro è un bel libro che riesce ad avvincere anche il lettore più pigro e disincantato; è pieno di fatti e di cose; è di alto interesse documentario, perché scopre tutto un ambiente che i suoi destina tari difficilmente potrebbero avvicinare e penetrare; non aspira ad alcuna esplicita concezione o interpretazione del mondo, epperò ci fa intuire come una esistenza apparentemente disumana (ma non più di altre) possa essere vissuta senza nevrotici sbracciamenti da tragedia; riesce ad essere editorialmente un buon prodotto perché evidentemente "confezionato" al principale ed onesto scopo di far conoscere al lettore alcune cose ritenute dall'autrice degne di esser fatte conoscere; e non è infine privo di una sua discreta passione femminista, non tanto concessione all'attualità, quanto piuttosto segno sincero di una consapevolezza ampiamente verificabile anche nella storia della ladra Teresa: che la capacità e il destino di sopportare continuino ad essere ad ogni livello di questa società i fatali e preminenti attributi della donna. Teresa Numa non esprime in questo senso alcuna intenzione di denuncia. Dacia Maraini, probabilmente, sì.

Giovanni Giudici
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Donna in guerra

Torino, Einaudi 1975[/align]


Diario di una giovane donna nell’anno 1970. Ci racconta la sua vacanza in un’isola della Campania e degli incontri che fa e che la porteranno a capire le sue esigenze e a prendere in mano la sua vita. È un a ragazza (simbolicamente, significativamente) paralitica che le insegnerá che si può camminare con le proprie gambe


leggi brano.....[...]

Un giorno Dina mi fa: sai che ti dico, mi sono stufata di fare sempre io; devi imparare pure tu a sfilare portafogli; oggi andiamo e il lavoro lo fai tu, io ti aspetto fuori. Dico: va bene, ci provo, ma ho paura. Dice: non ti preoccupare; tu abbracciatelo bene, baciagli l'orecchio che gli uomini perdono la testa quando gli baci l'orecchio e intanto gli infili la mano in tasca; hai capito? Dico: sì ho capito.
Il pomeriggio usciamo sul tardi che era già buio. Faceva freddo, ma non c'era vento. Si stava abbastanza bene. Io andavo ancora in giro con quel cappotto leggero di Roma perché non avevo trovato i soldi per comprarmene uno nuovo.
Camminiamo per il centro, verso piazza del Duomo. Io mi guardavo quelle guglie di pietra, tutte merlettate, biancastre. Dico: hai visto che roba? Dice: invece di guardare in alto, guarda per terra, le chiese non hanno portafogli. E io subito mi sono messa a scrutare i passanti che mi sembravano tutti gente ricca: cappotti col bavero di pelliccia, borse di coccodrillo, cappelli di castoro.
Dico: qui facciamo affari! Dice: non ti credere, è più apparenza che altro. Dina faceva la saputa, ma sbagliava pure lei. Da ultimo ne aveva sbagliati parecchi.
Gliel'ho detto. Si è arrabbiata. Dice: non è colpa mia se gli uomini si sono imparati ad andare in giro col porta foglio vuoto. La faccia da ricco io la riconosco, ma non posso indovinare se i soldi li porta appresso oppure no.
Mentre discutiamo passa uno che ci guarda con due occhi accesi e Dina mi dà un pizzicotto. Eccolo! mi fa, datti sotto!
Io non sono brava a fare il teatro come lei. Mi faccio coraggio, mi volto, sorrido un po' invitante. Anche lui si volta. Si ferma. Torna indietro. Dico: e ora che faccio? E Dina: fai la graziosa, fai la timida; vedrai che tutto va bene.
Faccio la graziosa, ma io non sono brava, si capisce che sono finta. Mi viene da ridere; mi viene da prenderlo a pugni perché mi è antipatico, ha la faccia storta, è giallo, porta un cappelletto in testa che gli copre appena la punta e basta.
Dina mi dava dei calci, degli spintoni. Finalmente quel lo apre bocca. Dice: siete sole? Dico: sì, non siamo di Milano, la città non la conosciamo. Dice: ve la faccio conoscere io; siete libere? Dico: sì sì.
E quello comincia a portarci in giro per Milano. Dina mi dava le gomitate. Dovevo proporgli di andare al cinema, ma non mi veniva. Continuavamo a camminare come tre scemi; lui che diceva: questo è il Duomo, lassù c'è la ma donnina, bello eh? E io: bello, bello. Dina era furiosa.
Per fortuna ad un certo punto capitiamo proprio davanti a un cinema dove davano un film d'amore molto conosciuto. Dico: perché non andiamo a vedere questo film? mi piacerebbe. Dice: andiamo. Dico: però viene anche la mia amica, non la posso lasciare sola. Dice: come vuoi. Ci paga il biglietto a tutte e due, e anche caro perché era un cinema di prima visione.
Io mi volevo vedere il film. Pensavo: dopo, verso la fine gLielo prendo il portafoglio. Invece non era possibile. Dina mi torceva la pelle del braccio. E quello poi voleva pomiciare. Dico: guarda, non ti agitare troppo perché la mia amica poi si scandalizza.
Non gli permettevo di toccarmi. Lo toccavo io. Gli carezzavo il collo, le spalle, un po' fra le gambe. Poi chiudo gli occhi e mi dico: ora gli bacio l'orecchio come m'ha detto Dina, è il momento buono.
Dina fremeva perché ero lenta, impacciata. Ma io avevo paura che quello si accorgeva che stavo rovistando nella sua tasca. Gli uomini poi non si sa perché portano tante tasche. Questo qui ne aveva due sulla giacca, fuori; due dentro, due nei pantaloni, era un pasticcio.
Dina lo capiva subito dove stava il portafoglio. Io no. Poi me l'ha detto che lei lo spiava mentre pagava il biglietto alla cassa. Io non ci avevo mai pensato.
Insomma stavo con le dita a tastare in queste tasche. E per la preoccupazione, sudavo, ero una fontana. Finalmente ho sentito qualcosa di duro sotto le dita. Era il porta foglio. Ho stretto i denti e per poco non gli porto via un orecchio. Per fortuna lui l'ha preso come un segno di passione. Sempre con questo orecchio fra i denti, gli sfilo il portafoglio e lo passo a Dina, sopra il bracciolo. Ero così contenta di esserci riuscita che me lo baciavo veramente, quel fesso, per la gioia.
Gli ho dato due schiocconi sulle guance e due sulla bocca e lui era tutto esaltato. Era bruttino, con le orecchie a sventola. Dico: mamma mia come sei scemo!
Dina si alza, va al gabinetto. Io rimango ancora un po' con lui, gli dico quattro cretinate, gli metto una mano fra le cosce. Poi, quando sono passati tre minuti, dico: vado a vedere che fa la mia amica, non vorrei che stesse male. Mi alzo e vado. Come esco, comincio a correre che neanche Dina mi teneva dietro.
Ci fermiamo in una strada solitaria. Tiriamo fuori il portafoglio. C'erano duecentotrentamila lire. Abbiamo subito diviso; centoquindici a lei e centoquindici a me. Dico: hai visto che ce l'ho fatta pure io? Ero orgogliosa, mi pareva di avere fatto chissà che. Ma prima di impararmi ce n'era voluto.
Dina mi rimbeccava, mi diceva: ah stupida, rincoglionita, non sei buona a fare niente! E io, a forza di sentire queste umiliazioni, queste strillate, mi sono imparata la scaltrezza come lei.
Quella sera abbiamo festeggiato con una cena grandiosa. Abbiamo mangiato: trippa, stracotto, baccalà alla crema, aragosta, dolce di ricotta, caffè, vino e birra. Non riuscivamo ad alzarci dalle sedie tanto eravamo gonfie di cibo. Torniamo al Commercio mezze ubriache; il padrone ci viene incontro, tutto sorridente, dice: siete allegre eh! vuol dire che la vita vi va bene! posso offrirvi qualche cosa? una grappa? un vermuth? ve lo porto su in camera; ci facciamo una bevutina alla vostra salute.
Io gli faccio un rutto in faccia. Dina che non perde mai la calma dice: come sei carino! grazie! però noi adesso dobbiamo dormire perché domattina ci alziamo presto. A domani! ciao! E lo pianta lì come un ciocco. È bravissima lei con gli uomini. Finge che ha paura di loro. Promette promette e poi non mantiene mai.
Un innamorato vero ce l'aveva; si chiamava Domenico. Lo chiamavano Mimi. Ma lo vedeva poco perché pure lui faceva il ladro ed era sempre in giro per affari. Avevano due giri diversi.
Il giorno dopo dormiamo tutta la mattina. Poi andiamo nei negozi a rifornirci. Dina si compera una borsa di pelle rossa, un paio di scarpe rosa col tacco. Io mi compro un cappotto foderato di pelliccia, bello caldo, color blu del cielo. La pelliccia interna era di nailon, ma teneva caldo lo stesso. Anche questa pelliccia era blu, ma più chiara. Noi compriamo guanti, biancheria, calze. Ci facciamo mettere a posto i capelli da un parrucchiere di lusso.
Il giorno dopo viviamo di rendita e il giorno appresso pure. Passiamo il tempo a letto a dormire, a leggere giornaletti, a rifarci le unghie, a chiacchierare, mangiucchiando dolci di mandorla.

[...]

Quello stesso giorno, tornando a piazza Vittorio incontro un'amica mia, una certa Nicolina. Mi dice: senti Teresa, mi devi fare un favore. Dico: che favore? Dice: io ho avuto un uomo che m'ha succhiato il sangue; ti devo confessare tutto, io ho fatto pure le case per quest'uomo; sono stata a Milano, a Torino, ho girato diverse case di tolleranza. Sono arrivata a fare centomila lire al giorno, ma di queste cento, novanta le dovevo dare a lui; a me mi lasciava giusto per campare e pure malamente. Io allora l'ho preso di petto e gli ho detto: caro Natalino, così non può andare; io lavoro e poi i soldi te li pappi tu. E lui per consolazione mi ha portata dentro la sua Jaguar rossa a pranzare in un ristorante di lusso con gli amici. Mi presentava come la sua fidanzata. E io ero contenta. Ma poi ha ricominciato come prima. Mi trattava come un pedalino e mi portava via il novanta per cento di quello che guadagnavo.
Dico: ma quello ti proteggeva, Nicolina! Dice: mi proteggeva ma mi costava troppo assai; certe volte non avevo neanche i soldi per comprarmi le calze; andavo in giro con le calze bucate.
Insomma che favore vuoi? dico io. Aspetta, dice, che ti racconto. Dice: io a questo gli volevo bene, lo sopportavo pure che era cattivo. Però poi un giorno l'ho visto con un'altra, una ragazza nuova e per la gelosia l'ho denunciato. L'ho denunciato per sfruttamento.
Dico: ma sei una boia! che avrà detto la gente d'omertà? non lo sai che le denunce non si fanno? tu passi da infame! Dice: infatti mi è dispiaciuto dopo che l'ho fatto; ma soprattutto mi dispiace per il padre di Natalino che è un vecchio e sempre viene da me a piangere per questo figlio; dice che adesso arriva Natale, che la madre vuole rivedere il figlio, che il ragazzo in galera sta male, piange; dice che specie per chi non c'è mai stato è una cosa terribile il carcere, da non sopportare; insomma mi prega di ritirare la denuncia.
Dico: e tu fallo! se non lo fai guarda che l'ambiente dopo ti chiama infame, ti sputa in faccia, sei discacciata da tutti; poi questo è un mondo vendicativo, non puoi più camminare tranquilla. Dice: io ritratto, sono convinta a farlo, però voglio che mi ridanno i soldi che ho uscito per la causa, per l'avvocato Ammazzavacca.
Dico: ma io che c'entro? Dice: tu lo sai che devi fare? devi andare a chiamare questo vecchio, il padre di lui che sta al mercato al banco numero dodici. E gli dici: ti vuole Nicolina, ti vuole parlare.
Dico: va bene, se si tratta solo di questo il favore te lo faccio. Però dopo te la sbrogli con lui perché io non ci voglio entrare in questa faccenda.
Insomma faccio da mediatora. Vado da questo vecchio, gli dico di Nicolina. Dico: vedete un po' di rimbonire la cosa perché sembra che lei è disposta a ritirare la denuncia, però vuole che le ridate i soldi che ha cacciato per l'avvocato Ammazzavacca, per la causa, vuole questo mezzo milione e poi ritratta.
Il vecchio mi dice: basta che ritratta l'accusa di sfrutta mento contro mio figlio, io il mezzo milione glielo do. Tu fai la testimonianza, firmi questa carta con lei e siamo a posto.
Così ci diamo appuntamento al bar con questo padre il giorno appresso, era un giovedì. Io vado a prendere Nicolina e insieme andiamo al bar designato per ricevere i soldi e firmare la carta di ritrattazione, sotto la mia testimonianza.
Lui viene, questo Balocca, al bar. Era un bel vecchio, grave. Dice: prendete qualcosa? un caffè? Dico: no, no, mettetevi d'accordo che combiniamo subito. Dice: il mezzo milione ce l'ho qui pronto; però prima Nicolina mi deve firmare questa carta.
Tira fuori una carta bollata in cui c'è scritto: io sotto scritta Nicolina Gasperoni dichiaro di avere denunciato Balocca Natalino soltanto per un atto di gelosia, ma dichiaro che non è vero che mi sfruttava, bensì l'ho fatto per la gelosia mia.
Poi dice: ecco qua, Teresa, tu firmi qui sotto per testimoniare che io ho dato il mezzo milione. Ma dov'è questo mezzo milione? ancora non l'ho visto, fa Nicolina. Il vecchio tira fuori un pacco di soldi. Dice: il mezzo milione ec colo qua; prima firma che poi te lo do. Allora lei firma e poi, sotto, firmo io.
Tutto d'un botto, appena abbiamo firmato, si apre la porta, bam bam ed entra la polizia. Balocca se ne va con la carta firmata e i soldi. E noi veniamo arrestate.
Ci portano in questura. Dico: io non ho fatto niente, io ho solo testimoniato. E racconto la storia com'è andata. Ma non mi davano retta i questurini. Non mi stavano neanche a sentire.
Però io in questura stavo tranquilla, perché pensavo: tanto mi rilasciano, io non c'entro, una testimonianza non è reato.
Invece ci mettono dentro tutte e due per estorsione. E quella è una cosa l'estorsione che non si scherza; si prendono come niente cinque sei anni. Ma io non avevo fatto nessuna estorsione. Avevo solo testimoniato. Questo fatto non mi andava giù. Per fare una firma di testimonio innocente dovevo prendere sei anni!
Ercoletto stava per uscire. Dico: ora quello sente che sono di nuovo dentro e mi abbandona; si metterà con un'al tra. Dico: ora la casa mi va tutta distrutta. Come vado dentro la casa mi va distrutta e devo ricominciare da capo. Dico: a me queste case mi portano jella, è meglio che non me ne faccio più. Come mi facevo una casa, venivano le amiche invidiose, gelose, ah che bello questo! che bello quest'altro! dove l'hai comprato? che bella camera, dove l'hai comprata? e mi mettevano la iattura, l'invidia, mi di struggevano.
Poi appena andavo in galera, si buttavano dentro questa casa e mi portavano via tutto, si ripulivano tutto che quando uscivo non ritrovavo neanche una spilla.
Lì dentro alla galera mi sentivo un'anima persa. Dico: ma perché sto qui rinchiusa? Erano sei mesi che stavo li e non si decidevano a farmi il processo. Per la prima volta non riuscivo proprio a darmi pace. La reclusione non la digerivo proprio. Litigavo tutto il tempo con quella, con questa, mi azzuffavo.
Me la prendevo con quella disgraziata di Nicolina. Dicevo: guarda questa scema che m'ha combinato! ma rimbambita che non sei altro, almeno chiama il giudice, digli che io non c'entro!
Dice: neanche io c'entro, non ho colpa. Dico: t'ho fatto un favore, non ti ho chiesto niente. Ti ho chiesto qualcosa per questo favore? Dice: no. Dico: lo vedi! non m'hai dato niente, non volevo niente, t'ho solo aiutata. E ora sto chiusa qui dentro per te.
Veniva suor Carmina dalle mani dure. Stai zitta Teresa, mi faceva, con quella vociona grassa. Dico: dovrebbe stare lei al posto mio! io mi rassegno, dico, quando mi prendono per una cosa che ho fatto, ma per una cosa che non ho fatto, no. Dice: zitta tu delinquente! Non ci credeva che non avevo fatto niente.
Sono stati sei mesi di dolori. Non mangiavo, non parla vo. Me ne stavo buttata sul letto a pensare. E più pensavo e più diventavo rabbiosa. Pensavo a Ercoletto che a quest'ora stava uscito e chissà che faceva.
Pacchi non me ne mandava e neanche lettere. Mi aveva abbandonata. Orlando stava sempre chiuso e non sapevo neanche dove. Ero avvilita. Le suore venivano, spalanca vano la finestra. Teresa, alzati, dice, non fare la finta malata perché nessuno ti crede! Ma io non ero malata, ero disgustata. M'ero seccata della vita.
Le compagne capivano. Salivano qualche volta a portarmi una sigaretta. Saliva pure Nicolina e io la cacciavo via, non la volevo vedere, anche se sapevo che lei era stata ingannata come me.
Stavo lì con gli occhi chiusi, ma non dormivo. Neanche la notte mi riusciva di dormire. Stavo abbacchiata, mezza rinscemita e non mi andava di fare niente. Mi alzavo per mangiare, mandavo giù un mezzo cucchiaio di minestra e tornavo a letto. La suora mi faceva: prenderai sei anni e ti starà bene perché sei malandrina e chissà cosa avete combinato tu e quella prostituta di Nicolina!
Io dico: sei anni qua dentro per non avere fatto niente non li faccio. Piuttosto mi ammazzo. Infatti una mattina prendo un lenzuolo lo tiro tutto come una fune, lo torco, preparo la cappiola, l'attacco alle sbarre della finestra e m'impicco.
In quel momento passa Anna Bordoni, una che era tenuta in palma di mano dalle suore. Io avevo calcolato che a quell'ora non veniva nessuno, erano tutte all'aria. Invece questa Anna passa per andare al gabinetto, le era venuta una voglia improvvisa, dà una guardata dentro la mia cella, le salgono gli occhi e mi vede che sto lì impiccata con la lingua di fuori.
S'è messa a strillare, ha chiamato gente. È venuta la monaca, m'hanno presa, m'hanno sciolta, m'hanno fatto le iniezioni.
Non capivo niente. Ero morta. E invece mi hanno riportata in vita. Mi hanno voluta salvare. Ero diventata tutta nera al collo. La gola mi faceva male, non potevo neanche inghiottire la saliva. Ero tappezzata di chiazze sulla faccia. Non so come m'hanno salvata. Si vede che sono proprio dura a morire.
Dopo di allora mi stavano sempre addosso. Non mi lascia vano mai sola. Stavo chiusa in infermeria con Lella degli Angeli che non mi spiccicava mai gli occhi di dosso. Là ho fatto amicizia con una ragazza che era dentro per tentato aborto. Si era bucata l'intestino coi ferri da calza per ammazzare quel figlio che era il figlio di suo zio. L'hanno portata dentro che perdeva sangue come una pecora scannata. L'hanno ricucita, rimessa a posto. Si era per forata l'intestino, ma il figlio non era stata capace di man darlo via. E se l'è dovuto tenere.
Lo zio poi ha negato di essere stato lui. La madre e il padre hanno creduto allo zio e non venivano neanche a trovarla perché dicevano che era una disonorata assassina che aveva tolto l'onore alla famiglia.
Con questa Pinuccia giocavamo a scopone. Vinceva sempre lei. Era simpatica. Timida. Poi ho saputo che ha fatto un figlio storpio. Ma l'ha tenuto e ora non so dove sta. Credo che è impiegata a servizio; l'ho sentito dire. Dopo otto mesi che sono dentro, una mattina viene suor Innocenza e mi dice: Teresa, sei scarcerata! ti riconoscono che sei innocente. Dopo otto mesi!

[...]


di Giovanni Mameli

Sono passati quattordici aliti da quando Dacia Maraini pubblicò il suo primo, contrastatissimo libro —un romanzetto pornografico, a detta di certi critici — intitolato La vacanza, edito in una collana della Lerici. che annoverava nomi di primo piano della narrativa. da Antonio Pizzuto a Giorgio Saviane. Fu Moravia a scoprirla e lanciarla, a intuire che in quella ragazzina dalla prosa gracile e sgrammaticata, animata da «una volontà barbara e quasi cinica» di riuscire, si annidava una vera scrittrice. Non si sbagliò. Di anno in anno, un libro dopo l'altro, la Maraini ha dimostrato una sorprendente vitalità e maturità, non solo nel campo della narrativa ma anche in quello teatrale e cinematografico.
L'ultimo romanzo, Donna in guerra. uscito in questi giorni presso Einaudi, è senza dubbio la sua prova più riuscita. L’autrice 'l'ha definito, in varie interviste, spesso polemiche e dure, un 'libro «compiutamente femminista». Dunque un romanzo a tesi. Ma cosa ha voluto dimostrare? Attraverso una lunga serie di lucidi articoli apparsi in questi ultimi anni sulle colonne del Corriere della Sera Dacia Maraini ha illustrato il proprio punto di vista in merito ai complessi e spesso contraddittori problemi sollevati dai vari gruppi femministi formatisi recentemente in Italia e aventi come scopo la piena emancipa della donna e l’acquisizione di diritti fondamentali che una società fallocratica come la nostra le ha sempre negato.
Questo libro, esaminato controluce, rivela una sottile, complessa filigrana, non solo d'idee, ma anche di umori — che vanno dalla rabbia al rancore — e che sono alla base di quegli articoli. È probabile che Donna in guerra possa essere, se non il primo, il più importante, almeno per ora, dei romanzi femministi pubblicati in Italia.
Non ce la sentiamo di valutare un'opera letteraria dalla giustezza o meno delle tesi che contiene. In un romanzo d'idee conta soprattutto - ce l'ha insegnato un maestro come Lukàcs - il modo in cui le ideologie diventano carne e sangue, sono rivissute nel crogiuolo della mente dei personaggi. E in quest'operazione la Maraini è riuscita benissimo. Com'è costruito il libro? Ha la forma di diario, della durata di cinque mesi, scritto da una giovane maestra, sposata a un meccanico, che trascorre una 'lunga e burrascosa villeggiatura in un'isola denominata Addis, situata lungo le coste della Campania. Il diario potremmo suddividerlo in due parti, che si corrispondono specularmente, e che vengono suggellate da un epilogo drammatico.
Nella prima parte Vannina — così si chiama la protagonista — descrive in modo sciatto e abulico la sua routine, talvolta noiosa talaltra movimentata, nella località di villeggiatura in cui trascorre le vacanze. Si dilunga a parlare delle sue faccende domestiche nell'appartamentino dove alloggiano lei e il marito, racconta le battute di pesca subacquea compiute da quest'ultimo, tratteggia le fisionomie e le abitudini degli altri turisti. Inoltre narra con un senso quasi di schifo gli amplessi frettolosi e avvilenti che ha con un marito egoista e sessualmente ottuso. Ecco un frammento in cui elenca le sue fatiche di casalinga frustrata. «Ho preparato la tavola. Ho messo a bollire l'acqua per la pasta. Ho fatto il soffritto. Ho spezzato i pomodori. Ho pulito l'insalata. Ho grattato il parmigiano». Ecco un altro passo dove accenna ai suoi amori deludenti. «Ma neanche questa volta (il marito) è stato capace di ricordarsi che siamo in due. Si è sfrenato in una corsa solitaria e ansante, che è finita con un urlo straziante, trionfante».
Nella seconda parte del diario — migliore e più movimentata della precedente — Vannina si lega a un gruppo di giovani extraparlamentari di sinistra, e in particolare a una ragazza paralitica, Suna, che la convincerà a piantare in asso momentaneamente il marito, e ad andare con lei a Napoli a fare un lavoro di base. L'attività politica alla quale viene adibita da questo movimento —denominato Vittoria proletaria — consiste nell'intervistare le lavoranti a domicilio che sgobbano anche dodici ore al giorno per una paga irrisoria e spingerle alla ribellione e alla lotta. Comunque, l'impresa più spettacolare compiuta da questo gruppo è rappresentata dal sequestro del direttore di un carcere e dal processo che gli viene intentato da parte dei componenti di un improvvisato tribunale rivoluzionario, che in seguito saranno arrestati e dispersi.
Tornata dal marito, Vannina viene messa incinta mentre dorme, abortisce e scappa di casa per sempre. Questa succinta traccia dà un'idea molto vaga della complessità e della ricchezza delle situazioni descritte e della vasta galleria di personaggi che Dacia Maraini mette in scena dalla prima all'ultima pagina. Il libro, a mio avviso, non è valido solo per le problematiche che contiene, ma soprattutto per gli scorci di vita italiana che fotografa. Dacia Maraini, oltre che scrittrice, è una giornalista acuta. Quando si propone di illustrare un fatto, lo articola e lo sviluppa in modo esauriente, con una pignoleria quasi gesuitica.
Basti pensare alla rappresentazione che ci dà — rapida ma completa — dello ambiente di lavoro di Vannina: la scuola; e di quello di suo marito Giacinto: l'officina. Sui gruppi extraparlamentari sa tutto; sulla routine e le rivolte nelle carceri idem; così sulla vita e le miserie sessuali delle località di villeggiatura, dove la prostituzione travolge tutti, donne e uomini, ragazzi e bambine. Il filo che collega tutti questi «quadri» è rappresentato dalle peripezie di Vannina, che la spingeranno, alla fine del diario, a spezzare le catene del matrimonio, istituzione — per la Maraini — superatissima. Ma chi è Vannina? Venticinque anni, maestra elementare, di origine meridionale, trapiantata a Roma, è un personaggio che ricorda da vicino i protagonisti dei romanzi moraviani. È una donna abulica, passiva, inetta, vigliacca, sfiduciata, viziosa, tutta casa e scuola, con una forte dose di masochismo e una notevole propensione per le pratiche erotiche solitarie. Odia il suo lavoro e qualsiasi impegno civile. Il quadro clinico sarebbe completo se fosse anche cattolica. Invece è comunista. Comunista è anche il marito, che viene presentato come un operaio dalla mentalità piccolo borghese, preso da ambizioni imprenditoriali, dalla sua passione per la pesca, da un'attrazione animalesca per la moglie.
In una delle varie interviste rilasciate l'autrice ha sostenuto che si può avere la tessera di un partito progressista ed essere dei retrogradi nella vita di tutti i giorni. In alcune parti del libro è sottesa una polemica velenosa e un po' troppo semplicistica nei confronti del partito comunista e, ovviamente, anche nei confronti di tutti gli altri partiti dell'arco costituzionale.
I giovani extraparlamentari apriranno gli occhi a Vannina, ma non faranno breccia nel più quadrato Giacinto, il quale li considera degli sbandati e dei visionari. Il libro — ripeto — è bello: ben congegnato, istruttivo, polemico. Però presenta, secondo me, le stesse smagliature ideologiche che avevamo rilevato nel romanzo di Ferdinando Camon. I membri di Vittoria proletaria sono raffigurati come martiri, le loro gesta — politiche ed erotiche — mitizzate, il loro coraggio esaltato eccessivamente. Pare che siano loro gli unici ad avere una nitida coscienza storica della nostra epoca e che quindi debbano essere considerati alla stregua di apostoli di una nuova religione che redimerà su questa terra i diseredati. Salvo poi ad essere — come succede talvolta nel libro — irrisi da coloro che vogliono spingere alla ribellione e alla lotta. Di qui la loro dimensione di cavalieri dell'ideale, il loro contegno da piccoli don Chisciotte che sbattono il naso contro i mulini a vento. Ma non per questo sono ridicoli. giacché pagano: spesso di persona, qualcuno addirittura con la vita. Anche se talvolta hanno dei dubbi di questo calibro: «Se in questo momento anche i fascisti fanno opera di scardinamento come facciamo a distinguerci da loro?».

Giovanni Mameli
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Lettere a Marina
Milano, Bompiani 1981[/align]


Nelle lettere quotidiane di una donna ad una altra donna c’è il racconto del loro e di altri amori, riflessioni e citazioni, memorie. Come in un diario di poeta la vita raccontata viene continuamente attraversata dalla poesia e dalla letteratura.

leggi brano......[…]

Cara Marina

sono passati cinque giorni da quando sono in questa brutta casa. Tu non mi hai ancora trovata. Ieri verso le dieci hanno suonato il campanello. Sono andata alla porta in punta di piedi. Ero sicura che fossi tu e già pensavo a un abbraccio tenerissimo. Quante volte mi hai rifiutata per poi cercarmi e rifiutarmi di nuovo e tornare a cercarmi in un gioco crudele e morboso.
L 'hai fatto talmente tante volte che alla fine non credevo più ai tuoi rifiuti. E invece ogni volta erano veri. Bene basta non vediamoci più dicevi tu. Per tre cinque giorni non ci sentivamo. E io mi acconciavo a vivere senza di te mi sforzavo di non pensarti mettevo a posto i bagagli nella testa chiudevo gli armadi mettevo un telo nero sugli specchi. Al sesto giorno trovavo una tua risata -solo una risata lunghissima e carica di sarcasmo — nella segreteria telefonica. Subito dopo un telegramma: La fontana è asciutta seguito da un pacchetto con dei biscotti allo zenzero e dei pistacchi freschi.
Andavamo al cinema insieme al ristorante insieme. Due vecchie amiche felici di ritrovarsi. Le lunghe camminate in campagna i picnic sul fiume verso arte le dormite sotto la quercia del giardino di Fiammetta le bevute di vino. Ero contenta di riaverti con me. Non voglio più possederti dicevi sono felice così.
Andavamo in certi buchi di teatro scendendo trecento scalini sedendoci per terra nell'umido per vedere un qualche spettacolo di puri equilibrismi intellettuali. Dopo di corsa a mangiare un gelato grosso coperto di panna. E poi del vino bianco per togliere quel sapore di lampone troppo dolce. Quando bevi arricci un poco le labbra e socchiudi gli occhi come per un piacere vagamente fastidioso incomprensibile.
Posso venire su da te? Abbiamo deciso di non fare più l'amore Marina. Vengo a bere un bicchiere. Va bene vieni. Non ti fidi? Ma sì solo non vorrei ricominciare. Non ricominceremo.
In cucina a bere del vino rosso questa volta accompagnandolo con pezzi di formaggio fresco. Ti stendi sul tappeto. Ti togli le scarpe. Vieni qui stenditi devo parlarti. Gli occhi che brillano le braccia che si fanno serpenti e due lune scure negli occhi.
Mi sdraio accanto a te. I bicchieri ancora pieni. Beviamo. Ti sei portata dietro il piattino col formaggio e le prugne secche. Mangi avidamente guardandomi di sottecchi. Cosa mi devi dire? Non vuoi toglier ti gli stivali fa caldo.
Mi sfili gli stivali. Prendi in mano un mio piede. Lo carezzi. Guarda che non voglio ricominciare. Ma non ricomincio. Mi rimetto gli stivali. No non faccio niente sei malfidata. Lo sai che mi fa stare male questo gioco a tira e molla. Non ti preoccupare sono diventata saggia come un vecchio barbagianni. Le tue mani mi carezzano le caviglie. Mi formicolano le gambe. Il calore fermenta in gola.
Improvvisamente mi denudi un seno e lo prendi in bocca con grazia infelice. E io non oso fiatare. So che un rifiuto in quel momento sarebbe veleno. Marina per favore smettiamo. Ma tu non parli più ingolli il mio latte e ti ubriachi ingordamente. Ora basta Marina dove l 'hai messo il saggio barbagianni?
Come sottrarmi a quella stretta? Finiamo sdraiate testa contro testa a baciarci goffamente. Mi tiri via i vestiti ti impossessi di me con una violenza da mozzare il fiato.
Sei repellente nella tua tiepidezza mi urli nell'orecchio non ti voglio più mi fai orrore non sai regalare niente ti rintani lontana da me mi respingi anche se sei qui mi respingi volgarmente tu gridi.
Sapevo che sarebbe finita così te l'avevo detto. Il barbagianni ha arruffato le piume gli occhi allagati di odio. Mi fissi come fossi il tuo peggior nemico. E te ne vai sbattendo la porta. Per una settimana non ci vedremo. Poi ricomincerai con una risata enigmatica sul registratore oppure una poesia urlata nell'orecchio un pacchetto di canditi un mazzetto di narcisi.
Pensavo a tutto questo andando ad aprire. Volevo abbracciarti sarei stata felice di abbracciarti ma nello stesso tempo avevo paura di ricominciare il gioco del rifiuto e della seduzione.
Non eri tu. Era la vicina di casa che mi chiedeva di abbassare la radio perché i suoi bambini devono dormire. Non aveva niente di astioso. Anzi mi guardava con curiosità e simpatia. Non accennava ad andare via come se la radio fosse un pretesto per venire a conoscermi. L 'ho fatta entrare. È piccola sottile magrissima tutta ossa con gli occhi rossi pungenti e la voce di una farfalla. Mi sono chiesta come avessero fatto due bambini grandi e grossi (li ho visti sulle scale diverse volte) a uscire da quel corpo minuscolo tormentato. Si è seduta un momento ha bevuto un caffè che le ho scaldato mi ha parlato del marito che fa il massaggiatore al cronicario.
Non era la radio gliel'ho fatto vedere era il registratore. Stavo ascoltando il Macbeth. Lei è entrata al momento del valzer. Questa musica mi piace ha detto mi ricorda mio padre. Dopo un po' è arrivato il figlio maggiore Mauro si è buttato addosso alla madre con tale impeto da farle perdere l'equilibrio. Avrà due anni. Si regge a stento sulle gambe. E si sta mangiando la madre pezzo a pezzo. C'è qualcosa di osceno e di smodato in quel suo divorare di figlio. Il ventre grosso è già pieno di pezzi di carne materna. E lui ci batte sopra con le due mani tronfio e soddisfatto.
Nel mio sogno di stanotte qualcuno gettava piombo fuso dentro la bocca di un vecchio. Avevo l'oscura sensazione che si trattasse di mio padre quando avrà l'età di mio nonno. Un segno della sua afasia. Mio nonno e mio zio che non si sono parlati per venti anni pur vivendo nella stessa casa. Piuttosto che comunicare col figlio si sarebbe fatto tagliare la lingua.
E io bambina a tavola con loro li guardavo ma senza orrore con una certa stupida reverenza. Già imparando già presagendo che quel silenzio avrebbe messo casa anche nella mia bocca fra i miei denti infantili. Impossibile cacciarlo. E non è un silenzio benevolo fatto di cose impalpabili concrete non è un silenzio che ha superato le parole. È un silenzio appiccicoso che non prende corpo fatto di cose taciute per troppa rabbia e infelicità. Un silenzio che è un'impotenza malvagia e tetra una impotenza d'amore.
Io avevo la certezza di amare il figlio che galleggiava nella mia pancia e se con mio padre non riuscivo a parlare con lui avrei fatto dei lunghi discorsi da innamorata. Aveva gli occhi celesti ilari e torvi ma capricciosi lo sapevo anche se non lo avevo ancora visto. Si aggrappava al cordone ombelicale con due mani robuste piene di slancio. E io che con un anello appeso a un capello cercavo di indovinare se sarebbe stato maschio o femmina. Maschio ha detto il capello girando in tondo e così infatti era.
Forse qualche altro giorno e ce l'avrebbe fatta. Tu non sai come si muoveva questo figlio dentro le cupole fresche del mio ventre. Aveva i muscoli di un nuotatore era un atleta. Si voltava e rivoltava su se stesso faceva dei capitomboli dei salti mortali da lasciare col fiato sospeso. E ogni volta ricadendo sul morbido liquido nutrimento di sua madre che ero io a letto immobile coi miei pezzi di sangue eternamente sfuggenti dalla vagina faceva un sorriso di trionfo.
Forse sarebbe bastato un giorno altre ventiquattro ore di faticoso attaccamento al cordone un altro poco di ossigeno e ce l'avrebbe fatta. E invece era già troppo grosso e pesava sulla placenta che invece di stare sopra stava sotto casi che lui stesso si uccideva col darsi la vita. Crescendo schiacciava il suo cuscino di alimentazione. Più si avvicinava alla vita e più moriva.
E infatti negli ultimi giorni non distinguevo più i suoi salti. Sentivo che si muoveva si torceva ma senza gioia come in un parossismo di rabbia. Sapevo che qualcosa non andava. Ma non potevo sapere che stava per morire. Mi tenevo immobile quasi mi impedivo di respirare. Mangiavo come un maiale. Mi ingozzavo di tutte quelle cose puzzolenti che passava l'ospedale per non indebolirmi. Dormivo distesa senza una scossa senza girarmi mai di fianco per dargli spazio quiete. Ma lui si agitava sempre più debolmente senza trovare pace.
Poi una mattina ho smesso di sentirlo. Ho chiamato l'infermiera. Mi ha detto: dormirà. Più tardi ha dovuto chiamare il medico. E tutti e due con l'orecchio incollato alla mia pancia si guardavano con una complicità leggera e fredda che mi escludeva. Poi sono usciti. E solo quando sono venuti a prendermi i portantini per trasportarmi nella sala parto mi hanno detto che era morto e che bisognava tirarlo fuori.
Avevo le gambe coperte da due maniche mazze di cotone ruvido. Pigiavo coi piedi contro due sostegni di ferro. Ma il figlio non veniva fuori. Provi più forte più forte! Ma non avevo contrazioni niente. Non riuscivo a spingerlo via. E occupavo troppo a lungo la sala parto. Il medico ha cercato di allargare con le mani l'apertura dell'utero. Il dolore mi ha trapassata brutale e lancinante. Sono svenuta. Il figlio
atleta il figlio nuotatore stava aggrappato al ventre di sua madre e non voleva venire fuori. Voleva marcire piano piano dentro di me voleva intossicarmi con i suoi veleni di eterno bambino. Voleva prendermi dall'interno bermi e poi uccidermi.
Ma neanch'io volevo lasciarlo uscire. I muscoli erano contratti e tesi nello sforzo di trattenerlo duri come tenaglie amorose che si chiudevano attorno al suo corpo troppo atteso e amato. Il mio ventre lo abbracciava e lo voleva per sé.
Rifiutavo di arrendermi alle mani guantate del gin eco lago non volevo tornare sola. Quelle facce sane in cui trapelava buonsenso garbo intelligenza pratica mi facevano orrore. lo e mio figlio saremmo scesi insieme abbracciati nel buio del futuro. Non potevo che sentire casi dopo mesi di attesa chiusa dentro un letto nella morbosità di un rapporto a due silenzioso e liquido pieno e terribile.
Il mio corpo non si apriva. Il bambino diventava sempre più pesante e gelato dentro di me. E io mi acconciavo a morire anche se stupidamente in quel lettino di ospedale sotto una lampada che mi feriva gli occhi con quelle mezze maniche sulle gambe l'odore di alcol e di etere nelle narici. Mi preparavo a passare di là dove avremmo camminato insieme io gonfia e goffa con quel figlio dolcissimo e amatissimo che aveva scelto di restare eternamente chiuso dentro di me rinunciando ai giochi al mondo. Mi acconciavo ad andarmene senza un sospiro non me ne importava più niente delle cose buone e belle che mi aspettavano fuori non me ne importava niente di niente. Ero appagata di me di lui.

[…]

Cara Marina

è insensato questo mio scriverti di me chiusa in questo brutto appartamento anonimo mentre mi sforzo di costruire un romanzo che si rifiuta a ogni costruzione. Mi sfugge da ogni parte. Metto su dei mattoni o quello che io credo siano dei mattoni e me li trovo sgretolati mangiati da una malattia che divora la pietra. Metto su gli infissi delle finestre e mi trovo con dei buchi nel vuoto.
C'è un quadro di Magritte in cui si vede una finestra e al posto del paesaggio un quadro con un cielo dipinto. Ecco nel mio romanzo sconclusionato al posto della casa c'è una tela con su dipinta una casa al posto dei personaggi c'è una carta con su descritti dei personaggi. Un gioco di rimandi che finisce nel vuoto.
[…]
Non ti ho mai parlato del gufo il mio amato marito che mi ha fatto da padre -ma padre volante in fuga seducente e sedotto da sempre nuove facce angeliche di donne -per tanti anni con impazienza e leggerezza. So che ti è simpatico. Di lui non sei mai stata gelosa. Forse perché sapevi che da anni non facciamo più l'amore insieme. La tua non è mai stata una gelosia degli affetti ma della carne.
Hai odiato Angelo anche se sapevi che non lo amavo perché andavo a letto con lui per non pensare a Marco. Occuparmi molto di una persona è il solo sistema che conosco per distrarmi da un amore infelice. E occuparmi di Angelo è stato un modo di allontanarmi da Marco quando ho fatto il patto di alleanza con Bruna prima che tu spuntassi sul mio orizzonte come una tempesta di mare.
Il gufo ha sostituito mio padre pari pari con le sue fughe le sue avventure i suoi tradimenti le sue seduzioni la sua tenerezza la sua incostanza. I primi anni credevo di morire ogni volta che lui civettava con una ragazza. Le stesse lacerazioni di quando avevo il cuore acerbo gli stessi struggimenti.
Siamo a una tavola sotto una pergola delle vespe ci gironzolano intorno abbiamo davanti un piatto di prosciutto e melone. La ragazza è un'amica di un amico si è seduta alzando come fanno le contadine la lunga gonna colorata con due mani impacciate. La faccia graziosa limpida appoggiata sulle palme aperte come un fiore si offriva a lui.
Lo guardo trasformarsi accanto a me: gli occhi gli diventano mobili provocanti le labbra distese pronte al sorriso. Tutta la persona proiettata in avanti percossa da folate di allegria contagiosa. Rapace sensuale si lancia impudico alla conquista di quella corolla fresca e sconosciuta.
Mi sfugge come faceva mio padre amabile delicato pronto a spezzare con due dita incuranti gli ostacoli che incontra per arrivare al suo piacere. Comincia il gioco dell'incantamento. Che si compirà nel modo previsto: la ragazza l'indomani gli telefonerà dicendo che ha voglia di vederlo e lui correrà all'appuntamento con una camicia rosa appena stirata una giacchetta di lino bianco. Il mio elegantissimo padre-marito dalle voglie mai sazie.
Ho rinunciato prestissimo alle pretese di fedeltà. Dopo i primi cicloni di gelosia che mi sradicavano dalla terra per trascinarmi in vortici mortali ho capito che o mi toglievo di dosso quella volontà di possesso o ne sarei morta. E così ho cominciato a pensarmi divisa da lui coltivandomi amicizie e amori per conto mio.
Il gufo è invecchiato dormendo nel letto accanto a me. Ha messo le piume bianche. Ma pure non riesce ancora a sottrarsi all'incanto di una bella faccia femminile. Quante notti tornava tardissimo con odori pesanti ed estranei addosso. E io che lo aspettavo con la trepidazione di una madre innamorata e la malinconia di una figlia tradita.
Così poco padre nel senso della protezione della sicurezza proprio come l'altro quello carnale privo di autorità solo desideroso di fuggire da me pur amandomi. Né il primo né il secondo mi hanno mai dato quiete e fiducia pur sapendo che il loro affetto era solido. Non mi hanno mai voluto insegnare niente pur insegnandomi molto non mi hanno mai voluto possedere pur possedendomi anima e corpo non hanno mai voluto legarmi e mutilarmi pur legandomi e mutilandomi di fatto. Non hanno mai voluto proibirmi niente pur proibendomi involontariamente tutto.
A quattordici anni già facevo l'amore uscivo con chi volevo quando volevo tornavo a notte fonda portavo gli amici in casa viaggiavo da sola facevo quello che volevo. Mio padre non mi ha mai detto una parola di rimprovero mai un sospetto una proibizione niente. Apparentemente ero una girovaga sempre innamorata di un bel ragazzo. Ma in realtà amavo lui. Mi bastava sentire l'odore di una sua camicia usata perché fossi presa dal batticuore. La sua voce al telefono mi chiudeva la gola.
I miei due padri avventurieri hanno camminato nelle mie viscere lasciando l'impronta leggera dei loro passi lupeschi. Ho peccato di idolatria. Ma Dio qualche volta muore per avere ingurgitato uno stupido veleno da topi. Nella sua onnipotenza non può niente contro una cosa di poco conto come l'amore materno. Da quando ho messo al mondo il figlio morto un'altra sensualità ha colpito i miei sensi. Il figlio morto ha messo la bocca lì dove prima succhiava latte il padre.
Per concludere questa trasformazione ci sono voluti trent'anni. Il corpo ora ha preso altre strade il mio corpo di bambina è lievitato ha messo su tende lucerne culle. E ci sono altre bambine dai piedi delicati che camminano di qua e di là facendosi amare.

[…]


Paese Sera, 5 maggio 1981

Questa è una donna così com’è
di Michele Rago

Il personaggio femminile che Dacia Maraini ritrae in Lettere a Marina è facilmente collocabile nel contesto sociale e culturale. È una donna d'oggi, carica di esperienze e attenta a valutarIe. Di estrazione mista — ascendenti di vecchia nobiltà agraria da una parte, piccola borghesia dall' altra — ha avuto infanzia e adolescenza povere e agitate. Finalmente è giunta alla condizione intellettuale che le consente libertà di movimento e di incontri.
Questa Bianca sensibilissima, socievole e intelligente si pone al centro di una serie di rapporti femminili e maschili, fra i quali interviene, si può dire, con partecipazione piena, a distanza ravvicinata, bruciando e risorgendo di continuo, araba fenice dalle molte incarnazioni.
Più difficile penetrare il segreto del personaggio. Del resto, proprio su questa ricerca si sviluppa il libro. La scrittrice lo ha tecnicamente concepito come «romanzo per lettere». E cioè non nei modi del tradizionale romanzo epistolare, finzione di interventi fra vari soggetti. Potrebbe dirsi un interminabile monologo, se, in esso, come diremo, non intervenissero, frequenti e numerose, altre voci.
Bianca è una scrittrice. Arrivata l'estate, sente l'urgenza di concludere un suo romanzo. Va via da Roma e si rintana in un luogo sulla costa dell'Italia meridionale. Ma, sotto alcuni aspetti, la sua è una fuga da Marina, una giovane amica con la quale ha intrecciato un legame affettivo divenuto a poco a poco troppo "divorante".
Oltre che lavorare al romanzo, Bianca scrive quasi ogni giorno a Marina (ma forse le due operazioni coincidono). Scrive lettere che non aspettano risposta. Non le inoltrerà neppure. Ma la scelta della destinataria, per poi scrivere a se stessa come in un diario, ha pure un significato. La ragazza è un punto d'arrivo dopo l'amore sfortunato con Marco. Fra le due donne c'è stata una rivelazione improvvisa: scambio affettivo femminile fra una madre che protegge e una figlia che la divora. Da quale fondo dell'essere è sorto questo impulso inaspettato?
Ha così inizio una peregrinazione nella memoria minuziosamente ricostruita, cui si aggiunge la descrizione di eventi dell'immediato presente nella città balneare. Bianca registra i fatti di giorni deserti e, a volte, fin troppo movimentati. Trascrive sogni, né questi potevano mancare in sede di auto-analisi. In breve, questa donna si narra e si esamina. Nonostante la presenza costante dell'io (o voce narrante), nonostante che il testo sia tessuto più di "discorso" che di "racconto" (per usare i termini introdotti da Benveniste e da Genette), è pressoché incredibile quanto la Maraini sappia rendere obiettivo, percorso da vasto dibattito, il suo quadro.
Bianca è disegnata come personaggio sensuale, raffinato con forte inclinazione agli estetismi. Ama la compagnia. Ama al tempo stesso la solitudine, che lei rende attiva nell'esercizio della scrittura (sin dall'infanzia non ha mai smesso di scrivere), Le piace parlare. Le piace ugualmente ascoltare, e si perde dietro ai racconti degli altri. Le piace capire le gente, goderla. In lei è presente un riflesso generoso e sollecito nell'aiutare gli altri affettivamente.
Inutile chiedersi quale sia lo spessore autobiografico di questa analisi. L'estensione, la prospettiva della vicenda superano i limiti del soggetto narrante.
La scrittrice ha compiuto un tentativo originale: presentare una donna per ciò che è. Raggiungerla di là da ogni sovrapposizione di vecchia retorica o di nuova ideologia. Nei sentimenti, nelle attrazioni, nelle debolezze. Sul filo di una storia fatta risalire alle origini.
Al padre, che a Bianca ispira amore e gelosia per i suoi troppi amori, fino a identificarsi con qualcuna delle due donne. Alla madre, con la quale il rapporto è ancora più complesso e intrinseco, quasi c e l'atto della nascita e la stessa maternità fossero un segno incestuoso. Tanto che, poi, sempre restando nella dimensione materna, un aborto al settimo mese le scava nel corpo ricordi inguaribili di dolore. Come se una volta per tutte avesse toccato le frontiere dell'essere femminile.
Necessariamente tutti i legami successivi, nella popolosa galleria di amori che si susseguono sulla scena della memoria o degli incontri quotidiani, o anche le più semplici amicizie, Marina, Marco, Giorgia, Gigliola, Basilia, Damiano, la Matrigna, la Nonna venuta dal Guatemala, e altri sono in lei condizionati dall'intima dialettica del ricordo fisico.
Quella voce narrante sembra che dialoghi con tutti. Ne risulta una prolungata riflessione che ritrova le motivazioni di intese, smarrimenti, sconfitte. Persino quando, nei momenti di abbandono, si richiama alla Dickinson o alla tragica fine della Gilda del Rigoletto, si produce in lei qualche dolorosa illuminazione. Scopre in quei richiami un'affinità dI situazioni. Scopre la particolare difficoltà che ostacola l'essere femminile nella libera espressione, nella certezza, nell'investimento dei propri affetti.
Dacia Maraini arriva qui al momento maturo, controllato, della propria arte: Nitida, precisa, a volte esuberante per rapidi accensioni d'enfasi. Indovinati accoppiamenti di aggettivi integrati e modificati a vicenda («un grosso cocomero verde squillante...»; «I colori giocosi stridenti...»; il sorriso inquieto increspato...»), danno al suo narrare una vivace fluidità. infine la notevole dote nel mimare i linguaggi altrui le consente di evitare ogni caduta in immagini patetiche e tracciare efficaci ritratti di personaggi.

Michele Rago
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Il treno per Helsinki

Torino, Einaudi 1984
Milano, Rizzoli 2000
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leggi brano........[...]

Il treno comincia una lunga giornata. La prima intera del viaggio. Nel viavai di ragazzi che si annoiano e organizzano partite di pallavolo fra un vagone e l'altro con un pallone fatto di stracci. Molti cantano. Si sono portati le chitarre e hanno sempre un nugolo di curiosi pronti ad improvvisare un coro.
Altri giocano a scopa sulla finta pelle di un sedile momentaneamente libero. Altri ancora discutono ferocemente di politica. A me piace leggere perciò non mi annoio.
Me ne sto seduta accanto al finestrino con il libro sulle ginocchia. Ogni tanto alzo gli occhi e li lascio scorrere su questi nuovi paesaggi boscosi.
A mezzogiorno siamo al confine con la Cecoslovacchia. Il treno si ferma gemendo. Fili spinati fucili imbracciati elmetti di ferro marciapiedi deserti.
Una voce soffice di donna continua a ripetere «Znojmo Znojmo»... trascinando quelle Zeta con sensualità. Immagino un corpo minuto consumato dalle passioni. Un momento dopo la vedo: a gambe divaricate il megafono davanti alla bocca una donna gigantesca dai tratti grossi sbilanciati porta una gonna grigia e rigida una bustina grigia in testa con alamari d'oro.
«Znojmo... Znojmo» ripete dentro il megafono e sembra sul punto di venire meno.
— Non andiamo a Praga?
— No amore niente Praga.
— Ma c'è scritto sul programma.
— Niente Praga. Tagliamo dritto verso Leningrado.
Neanche Mosca vedremo.
— Neanche Mosca?
— No amore neanche Mosca.
Brandelli di conversazione che mi raggiungono mentre leggo. Volto la pagina. Torno indietro. Ricomincio da capo.
— Hai visto Federico che fa la corte alla cicciona? Una voce maligna di ragazzo nervoso filtra dalla tendina che divide lo scompartimento dal corridoio. Aguzzo le orecchie.
— Quale cicciona? ce ne sono tante — risponde un'altra voce melensa di donna.
— Quella bella coi capelli biondi e l'aria sexi.
— Come fai a trovarla bella non lo so. Sembra una balena.
— È bella proprio bella ha la più bella faccia che abbia mai visto. Peccato quella ciccia.
— A me piace così com'è — si intromette una voce rauca strascicata.
— Me la farei subito.
— Che gusti della madonna!
Risate assorbite dal fruscio del treno. Un sibilo. Il treno rallenta. Dal finestrino entrano folate di aria pesante grassa. Stiamo attraversando una zona industriale. Ciminiere lugubri rompono il biancore del cielo di mezzogiorno. Lunghi fabbricati grigi dalle pareti senza finestre. Fili spinati. File di camion sporchi di fango.
— Brno Prostejon Ostrava... che cazzo di nomi! non si sa neanche come pronunciarli.
— Loro lo sanno.
— Grazie.
— Fesso.
— Fesso sarai tu.
— Se non fossi pigro ti spaccherei la faccia.
— Provaci!
I due continuano a litigare per tutta la giornata senza mai muoversi dai rispettivi posti le gambe piegate sotto il mento.
— Hai visto che differenza con l'Austria?
— Non ho visto niente.
— Non hai sentito idiota che stavamo passando da un paese capitalista ad un paese socialista?
Le due voci si fanno più acute. Alzo gli occhi dal libro. Do uno sguardo distratto al paesaggio irto di alti comignoli.
— Non ho sentito niente.
— Non hai sentito che aria pomposa aveva l'Austria?
Non senti che qui tira un'aria diversa più austera più nobile? Qui ci si occupa dei destini dell'uomo. Là si pensa solo a vendere.
— E tu hai visto tutto questo dal treno in corsa?
— Ce li hai gli occhi no bestia! E guarda!
— Bestia sarai tu.
— Hai visto qualcosa di grazioso di superfluo di volgare da quando sei in Cecoslovacchia?
— Non so cosa intendi per volgare.
— Intendo la mercificazione dell'uomo.
— Non ho visto niente di niente.
— Perché non vuoi vedere.
— Tu invece vedi quello che non c'è... non so cosa è meglio.
— Mi dai del visionario?
— Odio i fanatici.
— Hai visto le fabbriche e quelle file di operai disciplinati e seri che aspettano di entrare?
— Si tanto seri che sono diventati grigi come il grigio del cemento.
— — È il grigio della rivoluzione caro mio. Il grigio della giustizia. Il grigio della felicità. Tu sei abbagliato dai colori scintillanti deI— capitalismo che attira l'uomo per poi metterlo al basto. Sei un somaro senza cervello. Solo cazzo e bocca. Pronto a scopare e mangiare. Niente di più.
— Perché tu non mangi e non scopi?
— Mangio e scopo ma senza farne una ragione di vita.
— Io voglio cambiare il mondo e chi non ci sta peggio per lui... al muro.
— Estremismo malattia infantile del comunismo. — Non dire Cazzate!
— Veramente lo dice Lenin.
— Quando l'ha detto... dove?
— È il titolo di un libro.
Silenzio. Si sente una tosse stizzosa. E poi dei passi nel corridoio. I due tacciono. Tomo a guardare fuori. Ora un lago passa alla mia destra mandando bagliori fosforescenti. Una lunga barca dalla vela nera scivola sulle acque calme. Sento la voce quieta di mia madre che recita:
«Passa la nave mia con vele nere con vele nere sopra il tempestoso mare. In cuore tengo una ferita e tu ti diverti a farla sanguinare...»
Quando la barca è più vicina vedo una donna seduta a prua che si volta a guardare stupita il treno carico di teste e di braccia giovanili che si sporgono ad acchiappare il mondo in un delirio di onnipotenza.

Sono le cinque e mezza. Scivolo giù dalla cuccetta saltando a pie' pari sul pavimento per non svegliare Miele. Mi infilo la vestaglia giapponese a grandi dalie verdi e mi dirigo verso il bagno. C'è sempre qualcuno che si sveglia prima. Ma la fila è ancora corta fatta di due o tre persone. Ciascuno col suo asciugamano appeso al braccio la scatola del sapone lo spazzolino fra le dita.
Ci si saluta appena. Il sonno rallenta i gesti. Non si ha voglia di parlare. Gli altri dormono. Alcuni russano ancora. Qualcuno si prepara a prendere il posto nel vagone ristorante dove il caffelatte finisce dopo i primi quattro turni.
Quando si apre la porta del cesso vedo che c'è Dida dentro.
— Entra pure Armida.
— Non c'è posto per due.
— Ho quasi finito. Un attimo solo... — mi dice passando la spazzola fra i riccioli chiari.
— Sei bellissima Dida. Ma come fai a essere sempre così fresca e profumata? io mi sento un cartoccio quando mi sveglio le occhiaie fin qui guarda... la bocca amara la schiena indolenzita...
Sorride appuntandosi con quattro forcine il malloppo dei capelli sulla nuca.
— Sei contenta? — mi soffia in un orecchio.
— Sì molto.
— Anch'io sai credo che Cesare sia incuriosito da me... mi ascolta quando parlo. Prima non lo faceva mai. Credi che finirà per amarmi?
— C'è Ada che ti ama. E anche Nico ti ama.
— Ada... le voglio molto bene. Ma non potrei mai amarla.
— E perché?
— Perché mi ama troppo. Se ricambiassi il suo amore credo che scomparirei.
— Anche tu sei per l'amore solitario non ricambiato.
— No. lo voglio assolutamente che Cesare mi ami. E ci riuscirò. Un giorno ci riuscirò.
— Ma intanto non ti ama.
— Mi amerà.
— E con lui non hai paura di scomparire?
— No perché lui non mi amerà mai quanto mi ama Ada. Non ne è capace.
Una risata triste. Le si formano due fossette sulle guance.
— Dida se non amassi Miele amerei te. Sei la donna più affascinante che io conosca.
Mi dà un bacio leggero sulla punta del naso. Ride contenta. I capelli le cascano a catenelle sulle guance piene.
In quel momento entra Miele. Ha sentito le nostre voci. Ci guarda sospettoso. Mi afferra per la vita. Mi cerca la lingua con la lingua. Con un impeto inconsueto. Fatto di gelosia e di volontà di possesso.
Dida silenziosa se ne va chiudendosi la porta alle spalle. Miele mi spinge contro la parete. Ma francamente è troppo scomodo fare l'amore così. E di fuori bussano indispettiti. Torniamo ai nostri posti tenendoci per mano.
Ora il treno procede più lento. I vagoni sono più larghi più ampi e avanzano con un ritmo diverso. Le cuccette sono più massicce foderate di lana e pelle. Quando sono chiuse all'altezza della testa pende un centrino ricamato a mano bianco neve.
Il vagone ristorante è più spazioso dispone di panche foderate di pelle rossiccia. Su ogni tavolo c'è una lampada con un paralume di pergamena.
Anche il cibo è cambiato. La mattina danno tè nero e pane imburrato. A mezzogiorno brodo vegetale con dentro delle palline di carne e della verdura cotta nell'aglio.
La sera minestra di fagioli pane e formaggio fresco con birra.
Siamo tutti dimagriti. Capita di saltare i pasti per non essere arrivati presto a fare la fila per prendere i tagliandi. Nonostante le corse capita spesso.
Il paesaggio è cambiato ancora. Si è fatto disteso di un verde acquoso. Attraversiamo boschi di betulle dai tronchi lattiginosi. Siamo in mezzo alla Polonia e ci dirigiamo verso l'Unione Sovietica.
Alle stazioni una accoglienza fragorosa. Centinaia di bandiere. Cartelli con su scritto «Benvenuti giovani di tutto il mondo nella Polonia socialista». Il treno si ferma quasi ad ogni stazione.
Scendiamo in massa. Prendiamo al volo delle frittelle di mais col miele che ci porgono mani contadine. Beviamo del sidro aspro e frizzante che ci portano dentro gavette di metallo.
Dovunque abbracci e baci. Canti politici. I ragazzi hanno tirato fuori le macchine fotografiche e si fanno fotografare accanto ai cartelli delle stazioni.
Nei posti più grandi come a Krakov o a Lodz ci portano nelle sale interne dove hanno preparato un rinfresco. Con festoni di carta colorata.. Centinaia di bicchieri di vetro scintillante pieni di acqua o di sidro centinaia di porzioni di torta gialla fatta in casa.
I nostri si buttano come cavallette e divorano tutto in pochi minuti sotto gli occhi indulgenti degli organizzatori. Biondi coi capelli tagliati male le nuche arrossate gli occhi liquidi curiosi ci fissano con sguardi avidi noi siamo l'Europa in viaggio l'esotica Italia che conoscono solo dai libri di scuola.
— Italy... Italy... Venezia?
— No Roma.
— Oh Roma! — e quasi fanno un salto indietro. La città dove hanno vissuto Nerone e Virgilio dove il papa solleva le magre braccia vestite di bianco per benedire le folle di tutto il mondo.
— Oh Roma! — sospirano non sa. pendo come esprimere la loro ammirazione.
Sono timidi impacciati gentilissimi moralisti ingenui spauriti esaltati curiosi vorrebbero mettere il naso dentro le nostre borse le nostre valigie sciorinare davanti agli occhi esterefatti degli amici i blue jeans americani la biancheria di nailon bianca e azzurra trasparente come le ali delle libellule le scarpe da ginnastica di tela bianca con i bordi di pelle blu mare. Tutto di noi li affascina e li conquista.
Qualcuno furbo ha impiantato un commercio a base di gesti e di sorrisi: un paio di pantaloni contro una balalaika quattro paia di mutande coi merletti per un disco una sottoveste di finta seta color carne per tre stecche di sigarette una scatola di cioccolatini Perugina per due tem. perini un sacco a pelo per una lente di ingrandimento e COSì via.
Il treno riparte con tutte le teste fuori dai finestrini le braccia tese ad un saluto a pugni chiusi le bandiere ciondolanti appena gonfiate dal vento di un agosto umido e afoso.
In fila ritti sul marciapiede della stazione coloro che ci hanno accolti con entusiasmo voltano verso di noi le facce sinceramente rattristate. E continuano a salutarci anche quando il treno non è più in vista.
In certi posti non c'è nemmeno la stazione. Ci fermiamo in mezzo alla campagna assolata. I ragazzi saltano giù di corsa ansiosi di vedere cosa c'è da barattare pagando ormai in conterie: bottoni di madreperla penne biro collanine di vetro di Murano cinture dorate fazzoletti con su stampato il Colosseo.
Loro ci riforniscono di frittelle pane caldo liquore di prugne pomodori freschi pere minuscole dal sapore asprigno mazzetti di margherite fazzolettoni di cotone dalla tinta che scolorisce.
— Ma non ti vergogni a vendere quella robaccia?
— Peggio per loro che se li cuccano — dice cinicamente un romano dalla pancia a cupola. Si è fatto promotore di un centro vendite e fa da mediatore fra contadini e viaggiatori.
— Allora mi vuoi dare quei libri? — dice pacifico convinto del fatto suo.
— No.
Fa un gesto osceno e mi manda al diavolo. Lo studente polacco che aspetta i libri da me e un paio di scarpe di tela da Cesare sorride mesto mettendo in evidenza due incisivi d'oro.
In cinque giorni di treno fra la «nuova gioventù europea» si sono formate ferree gerarchie sodalizi partiti correnti che dividono il treno in privilegiati ed emarginati.
Prima di tutto i mafiosi che fanno in lungo e in largo i vagoni conoscono tutti sanno dove mettere le mani fanno commercio di ogni cosa ricattano seducono minacciano per tenere il treno nelle loro mani. Sono quelli che hanno sempre il posto assicurato a tavola.
I padroni del treno sono loro. Poi ci sono i clienti i vassalli che non hanno la faccia tosta e la spregiudicatezza degli altri ma volentieri approfittano delle loro mediazioni per svendere un paio di vecchie scarpe da tennis trecento volte il loro valore o un sillabario francese o delle mutande usate in cambio di cibo e artigianato del luogo. Sono quelli che comprano sottobanco dei tagliandi in più per il vagone ristorante e li rivendono a prezzi maggiorati.
Se ne stanno tutto il giorno nei loro scompartimenti a mangiare bere e giocare a carte. Intrigando per conquistarsi le più belle ragazze del treno di cui sanno morte e miracoli.
Poi ci sono gli ingenui entusiasti come quello stalinista che dorme nello scompartimento alla mia destra che non «vede» né i commerci né la mafia ma continua un soliloquio trionfalistico sulle «grandi sorti del socialismo».
Ci sono anche gli incoscienti che vivono alla giornata si lasciano derubare sorridendo abbracciano gli ospiti che ci ricevono alle stazioni come fossero tanti fratelli. Ogni volta che il treno parte scoppiano in saluti rumorosi Passano ore e ore affacciati a guardare scorrere il paesaggio sbracciandosi a salutare ogni pastore ogni tagliatore di pietre ogni raccoglitrice di riso che vedono di lontano. Come se non riuscissero a darsi ragione di questo viaggio strabiliante che li ha strappati alle loro famiglie dalle cucine maleodoranti alle loro strade di paese dove la domenica ci si ritrova in piazza per il pallone o per la messa. Infine ci sono gli aristocratici Troppo anarchici e snob per sottostare agli scambi Tendono a chiudersi in un cerchio chiuso parlando un proprio gergo fatto di citazioni di libri mantenendosi volutamente al di sopra della mischia rinunciando magari ad un pasto per non degradarsi nella solita corsa al posto a tavola.
Il nostro gruppo è fra questi Passiamo le giornate a leggere libri di storia con qualcosa di eccessivamente serio e grave che infastidisce gli altri Non urliamo non ci buttiamo giù dal treno litigando non arraffiamo il cibo nei festini di benvenuto non ci chiamiamo da un vagone all'altro non giochiamo a carte non cantiamo canzoni di montagna in coro non ci riempiamo le valigie di cartoline fazzoletti balalaike e matriosche. Ci teniamo le nostre cose e non ci sogniamo di barattare un paio di pantaloni usati per una icona dal disegno infantile.
Solo Dida esce da ogni stereotipo Lei fa amicizia con tutti. Rifiuta i commerci ma un giorno l'abbiamo scoperta che barattava un pettinino di plastica color tartaruga con un cestino di mele
— Anche tu Dida — dice Nico a mezza voce deluso Dida solleva il paniere di vimini: ci mostra le prime mele intatte e sotto un mucchio di mele marce Scoppiamo a ridere
— Anche loro si sono fatti furbi hai visto?
— Se l'avessero rifilato al romano con la pancia avrebbe fatto fermare il treno per tirargliele in testa.
Ci dividiamo le poche mele buone Gettiamo le altre dal finestrino Dida sbuccia una mela per Ada. Nico la guarda ingelosito Cesare legge sepolto in un grosso volume di poesie Miele scrive qualcosa in un quaderno dalla copertina marmorizzata.

[…]

Mi sveglio con un senso di angoscia. Guardo l'orologio. Sono le tre. Sento un rumore nella cuccetta di sotto. Mi sporgo per vedere se Miele dorme. Ma il letto è vuoto. Alzo gli occhi. Vedo la porta che si chiude dall'esterno. Faccio in tempo a scorgere i piedi nudi di Miele dietro la fessura socchiusa.
Aspetto che torni dal bagno. Ma dopo mezz'ora non è ancora rientrato. Ormai sono del tutto sveglia. Mi alzo. Scendo a tentoni. Mi infilo i sandali. Mi avvio per il corridoio. Incontro due ragazzi che fumano al buio.
Al gabinetto non c'è nessuno. Una volta tanto è buio e vuoto. Ne approfitto per fare un po' d'acqua. Vado avanti cascando addosso alle pareti di legno sbattuta dalle scosse del treno che sembra andare più veloce del solito.
Cammino tenendomi ai bordi dei finestrini. Investita ogni tanto da una folata di aria tiepida. Mai mi è sembrato così mobile e vischioso questo pavimento. Ogni volta che passo da un vagone all'altro mi sembra di buttarmi nel vuoto. Le pareti di tela cerata a soffietto si allargano a fisarmonica mostrando vecchie crepe e voragini nere.
Le due piastre di ferro sotto le scarpe si incastrano e si dividono scivolando su se stesse con un movimento rotatorio che tende a scaraventarti via. Appoggio con cautela i piedi chiusa fra le due porte pesanti presa dal panico. Poi a forza di braccia spingo il legno davanti a me e mi inoltro nel corridoio deserto.
Dopo avere attraversato una decina di vagoni mi trovo davanti ad una porta. Forzo la maniglia per aprirla. Ma non cede. Appoggio la fronte sul vetro. Vedo i binari luccicanti sotto la luna che scorrono in senso inverso. Sono arrivata alla fine del treno. Miele non c'è.
L'impresa del ritorno mi sembra impossibile. Come ripassare quei varchi neri che sembrano inghiottirti per espellerti a precipizio nella notte?
Prendo una boccata d'aria al finestrino. Gli occhi mi cascano su un quadrato di luce che corre rasente il treno.
Dentro il quadrato due ombre ben stagliate. Due teste che si baciano.
Miele eccolo lì. Lo riconosco dalla forma della testa dal ciuffo castano dal naso che si scontra col naso piccolo della donna. Mi precipito verso la prima cabina. Apro la porta. Mi trovo in uno sgabuzzino colmo di lenzuoli sporchi e di secchi di metallo. La luce è spenta.
Torno al finestrino. Mi sporgo. Il quadrato è scomparso. Come non ci fosse mai stato. Mi appoggio alla parete che sussulta. Mi lascio scuotere dal ritmo concitato del treno in corsa.
Non so quanto tempo passa. Mi sembra di dovere rimanere li appiccicata a quella parete per l'eternità. Solo quando albeggia trovo la forza di riprendere la strada del ritorno.
Nel vagone trovo Miele addormentato abbracciato al cuscino. Non si sveglia quando salgo al piano di sopra appoggiando i piedi sul bordo del suo letto.
La mattina mi sveglio con la sua faccia a due centimetri dalla mia. Mi sta sorridendo. Apro bene gli occhi. Devo avere una espressione buffa perché scoppia a ridere.
— Che c'è? — gli chiedo preoccupata.
— Niente. Ti guardavo dormire. Non posso?
— E perché mi guardavi?
— Perché ti amo.
— Non hai paura che ti sentano.
— No anzi voglio che tutti sentano: io amo Armida! va bene così? ti amerò sempre.
— Sempre? non è troppo? A me basta che mi ami ora.
Allungo timidamente le mani per toccargli la faccia. Ha la pelle morbida e profumata. Chiudo le due palme aperte sulle guance. Lo attiro. lo bacio. E lui mi morde con delicatezza le labbra.
Siamo interrotti da una voce acuta che grida: — HeIsinki! Helsinki!

[…]


La Repubblica, 1 settembre 1984

Arminda va a Helsinki
di Stefano Giovanardi

È proprio vero: il '68 lo abbiamo dimenticato un po' tutti. Grande illusione o grande paura, a seconda dei punti di vista, sono confortevolmente transitate nel limbo delle categorie buone ad ogni uso, adatte alla nostalgia e alla recriminazione, al «come eravamo» e all'«io l'avevo detto», al melodramma esistenziale e alla battuta da salotto. Ad una indiscutibile enfatizzazione si è affiancata una potente rimozione, mirata soprattutto su ciò che realmente fu «vissuto», sull'avvicendarsi di fatti e volontà spesso contrastanti e comunque mai fino in fondo chiari, che scandì allora l'evento, è oggettivamente favorì la sua quasi immediata neutralizzazione.
L'ultimo romanzo di Dacia Maraini (Il treno per Helsinki) tenta, reimmergendosi in quell'atmosfera dolcemente ingiallita, di raccordare l'odierna categoria «polivalente» a consistenti spaccati privati, evidentemente ritenuti depositari della "verità" dell'epoca. Elegge così a voce narrante un personaggio di nome Armida la quale, abbandonandosi ai ricordi, evoca un gruppo di giovani tenuto insieme, appunto nei paraggi del '68, da strettissimi vincoli di amicizia e di ideologia, nonché da innamoramenti interni contraddistinti però da una caratteristica comune: nessuno degli innamorati viene corrisposto dal proprio oggetto d'amore, che invariabilmente ama, a sua volta non riamato, un altro componente del gruppo.
Questa strana cordata di amori infelici si muove tra gli avvenimenti-standard del periodo, da una manifestazione per il Vietnam a un'assemblea, dalle notti spese ad incollar manifesti a quelle spese in discussioni, spaghettate o soddisfacimenti erotici; e si muove, nonostante tutto, anche nei suoi equilibri interni: Armida, sposata con Paolo, si innamora di Miele e si separa da Paolo; Nico e Ada, che amano ambedue perdutamente Dida, decidono di sposarsi fra loro e passano le notti coniugali a parlare di lei; Dida invece è innamorata di Cesare, ma costui è invaghito di Ada, e quindi non se ne fa niente; l'unico a non avere di questi problemi è il fratello spastico di Paolo, che ne ha ovviamente ben altri e si sottrae perciò per sua natura alla cordata. La quale celebra il suo ultimo rito comune in un viaggio a Helsinki dove si tiene un festival internazionale della gioventù, che è al tempo stesso apoteosi e funerale dell'associazionismo tra mistico e naïf di quegli anni. Gli amici di Armida vi vedranno confermate per intero le loro insoddisfazioni politiche e sentimentali, e torneranno in Italia inevitabilmente uguali a prima.
Sembrerebbe insomma che il volo cieco di una generazione, approdato alla sostanziale catatonia che si intuisce nelle parole dell'Armida di oggi («Sono lì come una balorda le mani paralizzate lo sguardo fisso sulla radio»), sia cominciato da un disagio molto «privato», da una sorta di misteriosa inabilità a misurarsi col reale e dalla parallela, invincibile tendenza a sostituirlo con imperfetti feticci: feticci erotici per un amore ridotto a sterile gioco di negazioni, e feticci politici per un'ideologia molto approssimativa, pronta a rifugiarsi in una protettiva identificazione del Male assoluto e condannata a un cicaleccio centrifugo, o ad azioni vaghe e insignificanti. Non so se sia andata proprio così, e del resto non è importante qui stabilirlo, visto che a un romanzo non si richiedono certo attestazioni o garanzie di attendibilità storica. Gli si richiede, al massimo, che le situazioni narrate dispongano di uno spessore «rappresentativo», che i personaggi non siano schiacciati su prospettive unidimensionali, che le scelte linguistiche non prevarichino le esigenze della coerenza strutturale.
Ecco: il rischio che corre Il treno per Helsinki è forse quello di non rispondere sempre pienamente a questo tipo di richieste; affiora qua e là una specie di indecisione tra ritratto individuale e affresco «corale» che fa un po' barcollare l'impianto architettonico, pur abbastanza ben radicato nella misura dell'intreccio e nello scatto dei nessi narrativi. D'altra parte il tentativo sicuramente ambizioso e generoso di compendiare una storia d'amore, tante altre storie individuali e la restituzione complessiva dell' immagine storica di una generazione, difficilmente avrebbe potuto realizzarsi senza qualche scompenso. È un po' quel che accade con le foto di un album di famiglia. Vi si possono ritrovare sensazioni, umori, situazioni; ma il filo d'Arianna capace di ricostruire un tessuto unitario, un «senso» finale, non è mai fornito dalle foto in sé, bensì dalla permanenza del contenitore, dal suo progressivo deterioramento ma anche dalle sue fondamentali capacità di tenuta. Probabilmente le foto del '68 restano ancora, più o meno per tutti, sparse nei cassetti. Per l'album, c'è da attendere ancora.
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Isolina
Mondatori 1985[/align]


leggi brano.......Verona. 16 gennaio 1900. Due lavandaie sono chine a insaponare delle lenzuola sul greto dell' Adige poco sotto il ponte Garibaldi.
Da alcune fotografie dell'epoca possiamo ricostruire come si presentava il fiume allora: torbido, irruento, da poco costretto dentro gli argini nuovi (l'Adige era straripato nel 1882 distruggendo mezza città); movimentato da un continuo passaggio di barche che trasportavano sabbia, di chi atte dalle vele larghe marrone, di traghetti che facevano la spola fra una sponda e l'altra. Dove l'acqua era più fonda e turbinosa si alzavano i mulini galleggianti che agitavano le pale sporche e gocciolanti con un rumore di legni in movimento.
Lungo gli argini, su dei lembi di spiaggia pietrosa, file di donne imbacuccate stavano chine a lavare i panni, che il tempo fosse bello o brutto, chiacchierando allegramente fra di loro. Oggi il ponte Garibaldi pianta i suoi archi di granito nell'acqua smorta. Un muro si alza a reggere il marciapiede del lungo fiume su cui corrono le automobili. Lungo la parete mattonata si possono ancora vedere le tracce delle scalette da cui scendevano le lavandaie al fiume.
In questo punto, dove oggi l'acqua ammucchia pezzi di plastica, barattoli di latta e stracci, la lavandaia Maria Menapace, in quella mattina del 16 gennaio del 1900, vide un sacco impigliato fra gli sterpi. Lo indicò all'amica.
Luigia Marconcini dicendo, come risultò poi dalla testimonianza, "sarà carne inferior, per frodar el dazio".
Poco lontano c'era un ragazzo che pescava. Infagottato in un giubbotto nero, con un berretto logoro in testa, un paio di stivaletti di tela rattoppata. Si chiamava Paride Baggio. Aveva 15 anni. La Menapace gli chiese di aiutarla a tirare a riva quel sacco.
Era un "involto legato con lo spago, voluminoso" lo descrisse poi la polizia fluviale. "Questo l'è certamente contrabbando" si sentì dire da qualcuno che sbirciava dalla riva. Le due donne lasciarono da parte il bucato per aprirlo. Il ragazzo tirò fuori un coltellino dal manico di legno. Tagliò la cordicella. Quattro mani curiose scartarono la tela. E si trovarono davanti: "sei pezzi di carne umana per il peso di kg 13,400" come scrisse il giorno dopo "L'Adige".
I pezzi furono identificati come "la parte destra del torace con l'intera mammella avvolta in un pezzo di tela scarlatta. La parte sinistra del torace con la mammella avvolta nello stesso tipo di stoffa. La parte inferiore del ventre avvolta in una stoffa verde con filettatura uguale. Parte delle ossa del bacino scarnificate e avvolte nella stessa stoffa verde. Una parte della gamba sinistra avvolta in un tovagliolo. Il femore scarnificato avvolto in una mutanda da donna con merletto in fondo".
Un particolare: al tovagliolo era stato tagliato un angolO come per fare sparire una cifra di riconoscimento.
Alle 12 il Procuratore del Re fece le "constatazioni di legge". Il giorno dopo i pontieri del 4° Genio cominciarono a scandagliare il letto del fiume. In poche ore vennero ritrovati altri pezzi di un cadavere di donna: "due fagotti con l'intestino e un altro con l'esofago, una placenta con il cordone ombelicale ancora incastonato".
Messi insieme i pezzi, i periti stabilirono che si trattava di una donna giovane (dai 16 ai 22 anni) che aveva una visibile deviazione alla spina dorsale, che era incinta all'incirca di tre mesi. Sulla data della gravidanza ci saranno poi perizie contraddittorie e discussioni a non finire. La città è in allarme. Tutta Verona si appassiona a questo delitto. Comincia la caccia all'assassino. Molti si danno a scandagliare il fiume per ritrovare la testa della donna che fino ad allora non era stata ancora pescata.
Il 17 gennaio un mugnaio trova un altro pezzo: un'anca avvolta in un pezzo di gonna. Fra le pieghe della gonna, nascosto in una tasca, un biglietto della spesa. I caratteri sono incerti, denotano una mano rozza e infantile; coprono un foglietto di carta di quaderno a quadretti: "Calzoni per il papà: lire 15. Calze: lire 0,30. Mussolina e flanella: lire 8,35. Lana rossa: lire 1,50. Totale: lire 25,15". Il Questore, cavalier Cacciatori, che conduce le prime indagini, fa una ricerca fra le ragazze scomparse. Nei registri risulta che il 5 gennaio un certo Felice Canuti ha denunciato la scomparsa della figlia, Isolina. Lo manda a chiamare, gli mostra il biglietto. L'uomo riconosce la calligrafia della figlia.
Felice Canuti che il "Corriere della Sera" descrive come "un vecchio curvo, barcollante, con barba e capelli bianchi incolti, il naso lungo e arcuato, grandi occhiaie infossate, zigomi sporgenti, sparuto, in vesti sdrucite" ha 61 anni e parla di sua figlia Isolina con molto amore: "era il mio idolo" dice, "vedevo per gli occhi di lei"; "non posso capacitarmi che è morta... è andata via la mattina del5 e non è più tornata...".
«E dove andava?»
«Non lo so... CIeli a mia figlia l'ha vista incamminarsi verso il Circolo e il Gazometro.»
«Riconosce questi abiti?»
«Mi sembra di sì. Ma chiedete a Maria Policante. Erano amiche intime. Lo sa meglio di me.» Il Questore manda a chIamare Maria Policante, la interroga a lungo. Ma purtroppo di questi interrogatori non è rimasto niente, né all'Archivio di Stato, né al Tribunale, né alla Biblioteca di Verona. Tutto è stato distrutto, non si sa se per caso o deliberatamente.
Ciò che rimane e si può consultare sono gli articoli dei giornali di allora: "Il Gazzettino di Venezia", il "Corriere della Sera", "l'Arena", "L'Adige", il "Verona del Popolo", il "Verona Fedele", "L'Italia militare", il "Resto del Carlino", la "Stampa". Quotidiani che col procedere dell'inchiesta diverranno mortali nemici dividendosi in due fazioni avverse: gli innocentisti e i colpevolisti.
Il fatto è che fra i primi sospettati saltò subito fuori il nome di Carlo Trivulzio, un tenente degli Alpini che aveva preso in affitto una stanza in casa Canuti e aveva avuto una relazione con Isolina. Trivulzio apparteneva ad una famiglia nobile di Udine, era ricco, e godeva di stima e simpatia fra i commilitoni e i superiori. "Un giovane leale, coraggioso, sincero, incapace di una simile orrenda azione" questo è il commento che si sente fra i militari.
In pochi giorni si arriva alla identificazione definitiva della ragazza tagliata a pezzi. Ne parlano tutti i giornali italiani. Si tratta di Isolina Canuti, di diciannove anni, figlia di Felice Canuti, impiegato da 25 anni nell' Amministrazione di una grossa azienda, la Tressa di Verona, e di Nerina Spinelli.
Isolina aveva tre fratelli: Viscardo di 12 anni, Alfredo di 13 e Clelia di 16. La madre era morta più di dieci anni prima. I ragazzi vivevano soli col padre.
Si fa l'ipotesi di un aborto mal riuscito e dello squartamento eseguito per eliminare il corpo. I periti sono tutti d'accordo nel riferire che i tagli sono stati fatti da "mano esperta", sia di un "chirurgo che di un macellaio".
"A Verona si è sviluppato un interesse morboso per il fatto. La città non parla d'altro e la folla si assiepa lungo l'Adige con la speranza di vedere emergere qualche fagotto sanguinante." Un moralista si chiede, sulla "Gazzetta di Treviso" se "tutto ciò è legittimo sentimento di curiosità e se il raccapriccio che si cerca non sia indizio invece poco confortante di eccitabilità nervosa e quindi decadenza mentale e fisica".

"Al pianterreno della trattoria che trovasi nella casa di vicolo del Chiodo al numero civico 9 vi sono fra le altre stanze due sale di discreta grandezza. Una arredata alla rustica, è ornata all'ingiro da alcune decine di ritratti.
Sono le immagini dei componenti la Società del Chiodo.
"Più all'interno c'è un'altra stanza, la saletta dove si riuniscono diversi ufficiali del Regio Esercito. Anch'essi crediamo fanno parte della Società.
"Il conduttore della trattoria, Annibale Isotta, tiene in affitto anche il secondo piano della vicina casa segnata col numero 7. Stando nell'esercizio si può accedere alle stanze di questo secondo piano, una delle quali munita di vasca e di rubinetto dell'acquedotto serve per camerino da bagno. Nella parte posteriore dei locali terreni adibiti alla trattoria havvi un cortile. Aprendo una porta ordinaria in fondo ad esso e discendendo da cinque gradini si pone piede in una stanza che ha il pavimento battuto e che serve come magazzino e di ripostiglio. In un angolo di questo si trova un ceppo (soco) che serve al trattore per dividere a pezzi la carne che deve passare alla cucina per i clienti.
"Finalmente questo magazzino ha una porta che mette al vicolo Pomo d'Oro. Sarebbe questo il luogo del delitto?
Vediamo...
"La sera del 14 gennaio corrente anno, di domenica, non c'era in trattoria del Chiodo il solito cameriere. Stando ad una prima asserzione del proprietario detto cameriere doveva essere occupato a servire una cena. Sennonché dopo alcun tempo lo stesso conduttore della trattoria diceva che il suo cameriere era assente perché malato.
"Quella sera uscirono dal ristorante fra le nove e le dieci prima due ufficiali e poi tre. Ad un certo momento in cui non occorreva per i clienti la sua presenza, il trattore usci nel mezzo del vicoletto. Con le gambe larghe stette là alcun po' e di tratto in tratto guardava su alle finestre illuminate del secondo piano della casa, numero 7.
"Da persona che passò improvvisamente di là fu sorpreso nella posizione di cui sopra e fu udito uscire in mormorii che avevano tono di imprecazione. Poi rientrò.
"Quando dopo la mattina del 16 gennaio in cui furono rinvenuti i miseri resti di Isolina si indicò alla trattoria del Chiodo come il luogo probabile dove si sarebbe consumato il delitto la persona da noi sopra accennata ricordò; e dal contegno tenuto e dalle imprecazioni uscite dalla bocca del trattore credette poter dar spiegazioni col fatto che s’era scoperto.
"Ma il trattore del Chiodo non poteva condividere alcuna responsabilità coi colpevoli. Ed in quei giorni che pure. per. lui dovettero essere terribili per la paura del giudizio in cui a suo carico avrebbe potuto convenire al pubblico, egli si confidò con qualche persona entrata nel suo esercizio. "A questa persona, curiosa di vedere i locali della trattoria, accondiscese volentieri, dapprima mostrandole la stanza dei. ritratti, indicando anche qualche nome degli indIVIduI In eSSI rappresentati e poi facendole vedere quella che di consueto è occupata dagli ufficiali.
"Fu allora che quel visitatore ebbe a chiedere qualche spIegazIone a proposito di ciò che si diceva e di Isolina e del Chiodo e di qualche ufficiale. Al che il trattore disse 'Cosa vole, questa l'è la stanza dove l'è successo quel che l'è successo. I g'ha ficado su le man, i g'ha me so su un piron (forchetta) e così è successo quel che è successo. E dopo i l'ha portada fora in un'altra casa."
Intanto al giornale "Verona del Popolo" arriva una lettera anonima. Todeschini non ne tiene conto proprio perché anonima. Ma col passare del tempo le cose dette nella lettera appaiono sempre più verosimili perché confermate da varie altre testimonianze.
Lalettera, poi pres.entata al processo Todeschini, spiegava In questo modo Il delitto: "alcuni ufficiali convennero ad una cena allestita alla trattoria del Chiodo e vi invitarono (o vi fu chi invitò) la Isolina Canuti e l'altra giovane poi morta all'ospedale.
"Quando tutti erano alticci uno ebbe a dire: 'Isolina, qua, già che vuoi abortire, stenditi sul tavolo'. L'Isolina avrebbe ubbidito perché nell'ubriachezza non aveva la coscienza del pericolo come forse non l'aveva nemmeno colui che la invitava a mettersi sul tavolo. Le sarebbe stata poi introdotta nell'utero una forchetta e ciò procurandole un forte dolore l'Isolina sarebbe uscita in acute grida.
"Bisognava soffocare quelle grida che avrebbero potuto richiamare l'attenzione di qualche passante forse e certo di coloro che potevano essere negli altri locali della trattoria.
"Allora la mano dell'operatore o di altro dei presenti sarebbe corsa ad un tovagliolo e la Isolina fu imbavagliata. Quel corpo si sarebbe agitato in preda a convulsioni. La misera avrebbe cercato di sfogare il suo dolore con urli. Ma questi avrebbero compromesso coloro che la circondavano e che ricordavano soltanto il proprio pericolo (quello cioè di essere scoperti con una donna dal ventre sanguinante) e ciò li faceva indugiare a levarle il tovagliolo. Né la liberarono quando essa tacque e dovettero trovarsi d'innanzi ad una morta. E allora avrebbero pensato a far scomparire le tracce del reato commesso.
"L'autore della lettera anonima afferma di avere udito il racconto esposto da un ex ufficiale che si diceva in grado di sapere tutto e asse riva che altri ufficiali erano a conoscenza di quello che per loro era stato tutt'altro che un mistero.
"Le parole della lettera" continua Todeschini "sono confermate dalla testimonianza dell'oste Gobbi che disse proprio così 'i g'ha ficado su le man, i g'ha me so su un piron'..."
Il 24 dicembre il "Corriere della Sera" esce con una notizia nuova sul caso Isolina. "È stato pescato presso Rondo d'Adige un teschio nella località Bosco."
Portato in Municipio il teschio viene analizzato dal medico giudiziario il quale dichiara che si tratta della testa di una giovane donna molto sfigurata. Avrebbe passato 12 mesi in acqua. Conserva un dente e pochi capelli.
Tutto fa supporre che si tratti della testa di Isolina. "Questo confermerebbe la notizia riportata da un giornale cittadino che alcuni ragazzetti giocando sul fiume ne avevano tirato fuori una testa di donna con due trecce castane attaccate alla cute e l'avrebbero ributtata nell'acqua inorriditi." Il "Corriere" dimentica di aggiungere che i ragazzetti andarono alla polizia ma non furono creduti. Ovvero gli si disse di non parlare con nessuno della loro macabra scoperta. Lo racconta uno dei ragazzi e il suo racconto viene riportato sia dal "Gazzettino" che dal "Verona del Popolo". Ma ormai la misura è colma. Le provocazioni di Todeschini da una parte, le nuove scoperte dall'altra, rendono la situazione di Trivulzio molto difficile. Se non dà querela ammette tacitamente la sua colpevolezza, se la dà dovràsottostare ad un processo pubblico.
Eppure passeranno ancora molti mesi, quasi dodici, prima che Trivulzio dia querela a Todeschini.

[…]

Sono nel cuore di Verona. Scendo a esplorare la strada. Chiedo del ristorante Il Chiodo. Ma non ne è rimasta traccia. Un calzolaio mi dice:
«Io lavoro qui da trent'anni non ho mai visto ristoranti... ho sentito che c'era sì una trattoria molti anni fa ma l'hanno buttata giù. Ora c'è una casa nuova.»
In vicolo Pomo d'Oro dove dava l'altra uscita del ristorante Il Chiodo non ci sono case nuove. I portoni, solo quelli nuovi, in vetro e ottone, sono chiusi e corrispondono ad altrettanti uffici. Nessuna traccia di un ristorante.
[…]
Uno di questi, l'avvocato Guarienti, […] Gli chiedo di aiutarmi a ritrovare le carte dell'Istruttoria sul caso Canuti. E lui, gentilissimo, fa chiamare gli uscieri, fa frugare nei magazzini. Ma dell'Istruttoria non si troverà traccia. "Pare che sia stato tutto distrutto dall'incendio" mi dice. "Provi all' Archivio di Stato."
Vado all' Archivio. La direttrice, la signora Laura Castellazzo, mi riceve con cortesia. Mi ascolta parlare. Va a consultare gli schedari. Ma neanche lei riesce a trovare niente che riguardi il caso Canuti. "Provi alla Biblioteca Comunale" mi suggerisce alla fine.
Vado alla Biblioteca in via Cappello, scartabello tutti gli schedari ma neanche lì trovo niente. Intanto l'avvocato Guarienti mi dice che è riuscito a rintracciare un usciere che faceva servizio in Tribunale fino a qualche anno fa prima di andare in pensione. Lui probabilmente ne sa più degli altri: per tutta la vita ha avuto a che fare coi fascicoli dei processi veronesi.
L'usciere dice che sì ha passato venti anni nell' Archivio del Tribunale, conosceva a memoria l'ubicazione di ogni fascicolo. «E sa niente di un fascicolo che riguardava l'Istruttoria Canuti?» «Non ricordo. Ma non c'è più niente perché tutti i fascicoli sono stati regalati alla Croce Rossa come carta straccia qualche anno fa.»
[…]
«Ma insomma cosa rimane del caso Isolina Canuti?»
chiedo, «quali documenti posso consultare, quali carte? e dove sono finiti gli atti del processo Todeschini? capisco che della prima Istruttoria non sia rimasto niente, ma il processo...»
«C'è la sentenza del processo Todeschini. Se vuole fotocopiarla, può farlo. Ci sono le arringhe degli avvocati.»
«Gli avvocati di Isolina?»
«No, gli avvocati di Trivulzio.»
«E che altro posso consultare?»
«Be', la sola cosa rimasta sono i quotidiani dell'epoca con i rendiconti giornalieri del processo.»
[…]
Andiamo al cimitero. Chiediamo di vedere i registri dei primi del secolo. I registri sono alloro posto ed è facile consultarli. Quasi novant'anni di morti chiusi in due scaffali pulitissimi. Ma sul grosso libro che raccoglie i morti dell'anno 1900 non risulta il nome di Isolina Canuti.
Ci incamminiamo fra le tombe. Troviamo una lapide della famiglia Spinelli (la madre di Isolina) ma nemmeno una pietra che porti il nome dei Canuti.
[…]
A pochi passi dal vicolo del Chiodo e da via Cavour c'è Villa Canossa. Un palazzo austero molto elegante: un cortiletto interno che mette in comunicazione la strada col fiume.
Entro dal cancello di ferro, quello che suscitò tante polemiche al tempo del processo Todeschini. C'era chi diceva di averlo visto aperto anche la notte, mentre il guardiano sosteneva che lo chiudeva sempre alle otto di sera. Fatto sta che qualcuno (teste Coronato e teste Cameri) vide due uomini entrare nel cortile di Villa Canossa portando dei sacchi.
Dal cortile, scendendo due gradini, si arriva ad una specie di lunga balconata coperta di edera. Mi appoggio alla spalletta di granito bianco. Mi sporgo sul fiume. La parete cade a picco sull'acqua che dalla parte della villa è profonda e scorre veloce.
Da questa spalletta, secondo un racconto fatto dallo stesso Sitara (attendente di Trivulzio) ad un amico che lo riferì ad altri (testimonianza Corbellari, Della Chiara, Graziani, Lizzari) egli gettò in Adige un sacco per ordine del suo tenente.
In una quieta notte del 14 gennaio del 1900. Dopo essersi guardate le mani che erano appiccicose e avere visto alla luce di un lampione che si trattava di sangue, il Sitara si sarebbe affrettato a scaraventare giù dalla spaletta il sacco compromettente.
Trattenendo il fiato si può ancora sentire il tonfo che fece il sacco cadendo in acqua nel silenzio della notte. Un attimo. E il fagotto viene inghiottito dai gorghi e trascinato via dalla corrente.

[…]

PRESIDENTE: Quando andò ad abitare in casa Canuti?
TRIVULZIO: Il 15 settembre del '99.
PRES.: Quale concetto si fece della famiglia Canuti?
TRlVULZIO: Dapprincipio non ebbi relazioni di sorta. Più tardi scambiai qualche parola colla signorina. Poi essa cominciò a venire in camera mia a parlarmi delle sue cose intime, dei suoi amanti... Mi sono detto: questa qui è leggera, è da poco. La signorina m'è venuta attorno e io l'ho avuta. È stata l'unica bestialità che ho fatto.
PRES.: Quando successe ciò?
TRlVULZIO: Il 27 ottobre.
PRES.: Quanto durarono gli arresti domiciliari? (Trivulzio era stato messo agli arresti perché aveva preso a schiaffi dei ragazzi che lo deridevano.) E quanto durarono le relazioni con l'Isolina?
TRIVULZIO: Quegli otto giorni che fui agli arresti. Naturalmente non avevo niente da fare. Stavo steso sul letto a leggere D'Annunzio. Quando finirono gli arresti andai fuori. Non ho più avuto bisogno di lei.
CAPERLE: Fu ancora agli arresti?
TRIVULZIO: Sissignore e che perciò? (Mormorii in sala.)
CAPERLE: Le sue intimità colla lsolina continuarono anche fuori casa? Andò mai in trattoria con lei?
TRIVULZIO: No, mai. Una volta sola l'ho incontrata in piazza Bra.

[…]

"In seguito a tutte queste osservazioni il Collegio dichiara colpevole l'onorevole Mario Filippo Todeschini del delitto di diffamazione continuata per mezzo della stampa in danno di Trivulzio Carlo coll'aggravante della recidiva generica e col beneficio delle attenuanti generiche, lo condanna alla reclusione per la durata di 23 mesi e 10 giorni e alla multa di L. 1458. Lo condanna inoltre al pagamento delle spese processuali, della pubblicazione della sentenza, al risarcimento danni."
Così si conclude il processo Todeschini con una sentenza che sembra finta tanto è teatralmente di parte. Isolina Canuti, si legge fra le righe, se l'è voluto. La sua leggerezza l'ha perduta, peggio per lei. D'altronde un giornale l'ha pure scritto: il tenente Trivulzio ha lungamente sofferto ed espiato per una "leggerezza" che i socialisti non dovrebbero certo condannare, essi che praticano "l'amore libero". Quasi che l'assassinio facesse parte dell'amore libero.
Nella sentenza comunque si fa capire che Trivulzio sì, è stato leggero, forse un poco incosciente, ma cosa conta la vita di una ragazzina di famiglia oscura, povera e di scarsa moralità di fronte all'onore dell'esercito? Ed è quello che alla fine trionfa, contro tutte le evidenze con la forza di una ideologia che doveva esprimere l'ideale del paese.

[…]


Corriere della Sera, 1 aprile

Povera Isolina, finita in fondo all'Adige
di Antonio Debenedetti

«Per ricostruire il caso giudiziario, che faccio rivivere in queste pagine, ho frugato negli archivi del tribunale di Verona» spiega Dacia Maraini, parlando del suo nuovo libro. Non è un romanzo, afferma la stessa autrice, ma «un racconto che si ispira al vero».
Siamo a Verona, nel gennaio 1900. Due lavandaie, chine a insaponare le lenzuola nelle acque dell'Adige, scorgono un sacco tra sterpi e siepi. Nasconde, come scoprono qualche istante più tardi, i resti straziati di una giovane donna. La vittima, una popolana di diciannove anni, si chiama Isolina Canuti. Al momento della morte era incinta di quattro mesi. Perché, dunque, è stata assassinata? Le indagini appassioneranno tutta Verona prima e tutta Italia poi. I sospetti cadono su Carlo Trivulzio, ufficiale di famiglia aristocratica, che è stato amante dell'uccisa Questi si protesta innocente Dopo Ulteriori indagini, che portano alla scarcerazione di Trivulzio, c'e chi vorrebbe mettere tutto a tacere Perché? La risposta, data dalla Maraini, è in un libro spesso, duro, tenacemente realistico.
Che cosa ha spinto tuttavia l'autrice a far rivivere una storia italiana di cui veri protagonisti sono anzitutto ferocia e conformismo?
«Il caso. Corrado Stajano m'aveva chiesto di raccontare, per una collana da lui curata, un processo. Cercando, mi sono imbattuta nella vicenda di Isolina. Ne sono stata subito colpita, proprio per quella ferocia e quel conformismo che ritornano spesso fuori nella nostra storia nazionale.
Può riassumere brevemente la vicenda, quale emerge dalle sue pagine?
«Isolina viene fatta abortire con violenza, durante una cena, in una trattoria di Verona. Nel corso dell'operazione muore e qualcuno la fa a pezzi. Tutti gli indizi portano a un gruppo di ufficiali, amici di Trivulzio. Lo stesso questore della città è convinto della colpevolezza dei militari. Tuttavia, visto che il Capo di Stato. Pelloux tiene molto all'immagine dell'esercito, si preferisce mettere la faccenda a tacere. Il libro racconta sostanzialmente questo scandalo». Isolina era una prostituta? Fu fatta passare per tale?
«Per assolvere Trivulzio e i suoi amici hanno dovuto far apparire Isolina come una Prostituta. Era, in realtà, una ragazza povera, non bella ma con una grande voglia di vivere. Incinta, tentò di tenere il bambino: questa fu la vera causa della sua uccisione»,
Lei è molto legata, anche come scrittrice, al movimento femminista. Questo l'ha influenzata nel raccontare di Isolina?
«Sì, certo. Non posso prescindere dall'ottica femminista, che ormai fa parte di me. Questo significa metterai sempre, prima di tutto, nel panni delle donne che si incontrano. Ho cercato però, stavolta, di mettermi anche nei panni di Trivulzio dopo il processo. M'è sembrato di cogliere così un'esperienza del pentimento dolorosa e nevrotica. Tale da rendere Trivulzio più umano del suoi amici e complici».
Nel riproporre questo caso, lei fa un sapiente uso del montaggio. In altre parole, cita fra virgolette molti brani tolti dalle cronache giornalistiche dell'epoca. Perché?
«Non ho potuto lavorare, come racconto nel libro, sugli atti processuali: tutto è stato infatti distrutto. I giornali sono diventati così un materiale indispensabile. I cronisti, per fortuna, erano molto accurati e riportavano ogni cosa fedelmente. Negli articoli, scritti sui caso di Isolina, ho ritrovato, oltre alle indispensabili testimonianze, il gusto dell'epoca». […] La sua prosa, in libro, è volutamente scarna, tratti spoglia. Perché?
«Per raccontare una storia vera bisogna farsi testimoni acquisire un linguaggio il più possibile diretto».
L'esempio di Sciascia, le sue pagine scritte «alla ricerca della verità» l'hanno in qualche modo influenzata?
«Sciascia è siciliano come me. Abbiamo tutti e due una curiosità isolana, che ci spinge a frugare nella realtà».

Antonio Debenedetti
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La lunga vita di Marianna Ucrìa
Milano, Rizzoli 1990[/align]


Costruito con l’attenzione per la musicalitá di ogni frase, per la sonoritá di ogni parola come richiede un poema, questo testo non perde mai la consistenza del romanzo nella sua forma classica. L’attenzione per i particolari della vita di tutti i giorni, per le sensazioni, i sapori, gli odori man mano intesse un grande arazzo non solo della vita di una nobildonna sordomuta ma anche della Sicilia nella prima metá del Settecento.
Questo romanzo è ritenuto da molti, e da tutta la critica, il più bello di Dacia Maraini.


leggi brano.....[…]

Un'ora dopo, Marianna si sveglia nella camera da letto dei genitori con una pezzuola fradicia che le pesa sulla fronte. L'aceto le cola fra le ciglia bruciandole gli occhi. La signora madre è china su di lei: l'ha riconosciuta prima ancora di aprire le palpebre dall'odore forte di trinciato al miele.
La figlia guarda alla madre da sotto in su: le labbra tonde e appena velate da una peluria bionda, le narici annerite dalle tante prese di tabacco, gli occhi grandi gentili e bui; non saprebbe dire se sia bella oppure no, certo c'è qualcosa in lei che la indispone, ma cosa? forse quel suo cedere a ogni spinta, quella quiete inamovibile, quel suo sprofondare nei fumi dolciastri del tabacco, indifferente a tutto.
Ha sempre sospettato che la signora madre, in un lontano passato in cui era giovanissima e immaginosa, ha scelto di farsi morta per non dovere morire. Da lì deve venire quella sua speciale capacità di accettare ogni noia col massimo della accondiscendenza e il minimo dello sforzo.
La nonna Giuseppa prima di morire le scriveva qualche volta della madre sul quaderno dai gigli di Francia: "Era così bella che tutti la volevano a tua madre, ma lei non voleva nessuno. "Cabeza de cabra" come quella testarda di sua madre, Giulia che veniva dalle parti di Granada. Non voleva sposare il cugino, non lo voleva a tuo padre Signoretto. E tutti ci dicevano: ma è un beddu pupu, e veramente beddu è,non perché è figlio mio ma ci si sciacqua gli occhi a guardarlo. Si sposò con la "funcia" tua madre che pareva andasse al funerale e poi dopo un mese di matrimonio si innamorò del marito e tanto lo amava che cominciò a fumare... la notte non dormiva più e perciò prendeva il laudano...".
Quando la duchessa Maria vede che la figlia si riprendeva verso lo scrittoio, afferra un foglio di carta e vi scrive sopraqualcosa. Asciuga l'inchiostro con la cenere e porge il foglio alla ragazzina.
"Come stai figghiuzza?"
Marianna tossisce sputando l'aceto che le è colato fra i denti nel tirarsi su. La signora madre le toglie ridendo lo straccio bagnato dalla faccia. Poi si dirige alla scrivania, scarabocchia ancora qualcosa e torna col foglio verso il letto.
"Ora hai tredici anni approfitto per dirtelo che ti devi maritari che ti avimu trovato uno zito per te perché non ti fazzu monachella come è destino di tua sorela Fiametta." La ragazzina rilegge le parole frettolose della madre che scrive ignorando le doppie, mescolando il dialetto con l'italiano, usando una grafia zoppicante e piena di ondeggiamenti. Un marito? ma perché? pensava che mutilata com'è, le fosse interdetto il matrimonio. E poi ha appena tredici anni. La signora madre ora aspetta una risposta. Le sorride affettuosa ma di una affettuosità un poco recitata. A lei questa figlia sordomuta mette addosso un senso di pena insostenibile, un imbarazzo che la gela. Non sa come prenderla, come farsi intendere da lei. Già lo scrivere le piace poco: leggere poi la grafia degli altri è una vera tortura. Ma con abnegazione materna si dirige docile verso la scrivania, afferra un altro foglio, prende la penna d'oca e la boccetta dell'inchiostro e porta ogni cosa alla figlia distesa sul letto.
"Alla mutola un marito?" scrive Marianna appoggiandosi su un gomito e macchiando nella confusione, il lenzuolo di inchiostro .
"Il signor padre tutto fici per farti parlari portandoti cu iddu perfino alla Vicaria ché ti giovava lo scantu ma non parlasti perché sei una testa di balata, non hai volontà... tua sorella Fiammetta si sposa con Cristo, Agata è promessa col figghiu del principe di Torre Mosca, tu hai il dovere di accettare lu zitu che ti indichiamo perché ti vogliamo bene e perciò non ti lasciamo niescere dalla familia per questo ti diamo allo zio Pietro Ucrìa di Campo Spagnolo, barone della Scannatura, di Bosco Grande e di Fiume Mendola, conte della Sala di Paruta, marchese di Sollazzi e di Taya. Che poi oltre a essere mio fratello è pure cugino di tuo padre e ti vuole bene e in lui solo ci puoi trovare un ricetto all'anima."
Marianna legge accigliata non facendo più caso agli errori di ortografia della madre né alle parole in dialetto gettate lì a manciate. Rilegge soprattutto le ultime righe: quindi il fidanzato, lo "zitu", sarebbe lo zio Pietro? quell'uomo triste, ingrugnato, sempre vestito di rosso che in famiglia chiamano"il gambero"?
"Non mi marito", scrive rabbiosa dietro il foglio ancora umido delle parole della madre.
La duchessa Maria torna paziente allo scrittoio, la fronte cosparsa di goccioline di sudore: che fatica le fa fare questa figlia mutola: non vuole capire che è un impiccio e basta.
"Nessuno ti prende attia Mariannina mia. E per il convento ci vuole la dote, lo sai. Già stiamo preparando i soldi per Fiammetta, costa caro. Lo zio Pietro ti prende senza niente perché ti vuole bene e tutte le sue terre seriano le tue, intendisti?"
Ora la signora madre ha posato la penna e le parla fitto fitto come se lei potesse sentirla, accarezzandole con un gesto distratto i capelli bagnati di aceto.
Infine strappa la penna dalle mani della figlia che sta per scrivere qualcosa e traccia rapida, con orgoglio, queste parole:
"In contanti e subito quindicimila scudi."

[…]

Fuori è buio. Il silenzio avvolge Marianna sterile e assoluto. Fra le sue mani un libro d'amore. Le parole, dice lo scrittore, vengono raccolte dagli occhi come grappoli di una vigna sospesa, vengono spremuti dal pensiero che gira come una ruota di mulino e poi, in forma liquida si spargono e scorrono felici per le vene. E questa la divina vendemmia della letteratura?
Trepidare con i personaggi che corrono fra le pagine, bere il succo del pensiero altrui, provare l'ebbrezza rimandata di un piacere che appartiene ad altri. Esaltare i propri sensi attraverso lo spettacolo sempre ripetuto dell'amore in rappresentazione, non è amore anche questo? Che importanza ha che questo amore non sia mai stato vissuto faccia a faccia direttamente? assistere agli abbracci di corpi estranei, ma quanto vicini e noti per via di lettura, non è come viverlo quell'abbraccio, con un privilegio in più, di rimanere padroni di sé?
Un sospetto le attraversa la mente: che il suo sia solo uno spiare i respiri degli altri. Così come cerca di interpretare sulle labbra di chi le sta accanto il ritmo delle frasi, rincorre su queste pagine il farsi e il disfarsi degli amori altrui. Non è una caricatura un po' penosa?
Quante ore ha trascorso in quella biblioteca, imparando a cavare l'oro dalle pietre, setacciando e pulendo per giorni e giorni, gli occhi a mollo nelle acque torbide della letteratura.Che ne ha ricavato? qualche granello di ruvido bitorzoluto sapere. Da un libro all'altro, da una pagina all'altra. Centinaia di storie d'amore, di allegria, di disperazione, di morte,di godimenti, di assassinii, di incontri, di addii. E lei sempre lì seduta su quella poltrona dal centrino ricamato e consunto dietro la testa.
La parte bassa degli scaffali, quelli raggiungibili da mani infantili contengono soprattutto vite di santi: La sequenza di santa Eulalia, La vita di san Leodegario, qualche libro in francese Le jeu de saint Nicolas, il Cymbalum mundi, qualche libro in spagnolo come il Rimado de palacio o il Lazarillo de Tormes. Una montagna di almanacchi: della Luna nuova, degli Amori sotto Marte, del Raccolto, dei Venti; nonché storie di paladini di Francia e alcuni romanzi per signorine che parlano d'amore con ipocrita licenza.
Più sopra, negli scaffali ad altezza d'uomo si possono trovare i classici: dalla Vita nuova all'Orlando furioso, dal De rerum natura ai Dialoghi di Platone nonché qualche romanzo alla moda come il Colloandro fedele e La leggenda delle vergini. Questi erano i libri della biblioteca di villa Ucrìa quando l'ha ereditata Marianna. Ma da quando la frequenta assiduamente i libri sono raddoppiati. Da principio la scusa era lo studio dell'inglese e del francese. E quindi vocabolari, grammatiche, compendii. Poi, qualche libro di viaggi con disegni di mondi lontani e infine, con sempre più ardimento,romanzi moderni, libri di storia, di filosofia.
Da quando i figli sono andati via ha molto più tempo a disposizione. E i libri non le bastano mai. Li ordina a dozzine ma spesso ci mettono dei mesi per arrivare. Come il pacchetto che conteneva il Paradise Lost che è rimasto cinque mesi al porto di Palermo senza che nessuno sapesse dove fosse andato a finire. Oppure la Histoire comique de Francion che è andato perso nel tragitto fra Napoli e la Sicilia in un battello che è affondato al largo di Capri.
Altri li ha prestati e non ricorda più a chi; come i Lais di Maria di Francia che non sono più tornati indietro. O il Romance de Brut che deve essere nelle mani di suo fratello Carloal convento di San Martino delle Scale.
Queste letture che si protraggono fino a notte fonda sono prostranti ma anche dense di piaceri. Marianna non riesce mai a decidersi ad andare a letto. E se non fosse per la sete che quasi sempre la strappa alla lettura continuerebbe fino a giorno.
Uscire da un libro è come uscire dal meglio di sé. Passare dagli archi soffici e ariosi della mente alle goffaggini di un corpo accattone sempre in cerca di qualcosa è comunque una resa. Lasciare persone note e care per ritrovare una se stessa che non ama, chiusa in una contabilità ridicola di giornate che si sommano a giornate come fossero indistinguibili. La sete ha messo il suo zampino in quella quiete sensuale togliendo profumo ai fiori, ispessendo le ombre. Il silenzio di questa notte è soffocante. Tornata alla biblioteca, alle candele consumate, Marianna si chiede perché queste notti le stanno diventando strette. E perché ogni cosa tenda a precipitare verso l'interno della sua testa come dentro un pozzo dalle acque scure in cui ogni tanto echeggia un tonfo, una caduta,ma di che?
I piedi scivolano delicati e silenziosi sui tappeti che coprono il corridoio; raggiungono la sala da pranzo, attraversano il salone giallo, quello rosa; si fermano sulla soglia della cucina. La tenda nera che nasconde il grande orcio dove si conserva l'acqua da bere è scostata. Qualcuno è sceso a bere prima di lei. Per un momento è presa dal panico di un incontro notturno col signor marito zio. Da quella notte del rifiuto non l'ha più cercata. Le sembra di avere intuito che amoreggi con la moglie di Cuffa. Non la vecchia Severina che è morta ormai da un po', ma la nuova moglie, una certa Rosalia dalla folta treccia nera che le ciondola sulla schiena.
Ha una trentina d'anni, è di temperamento energico, ma col padrone sa essere dolce e lui ha bisogno di qualcuno che accolga i suoi assalti senza raggelarsi.
Marianna ripensa ai loro frettolosi accoppiamenti al buio, lui armato e implacabile e lei lontana, impietrita. Dovevano essere buffi a vedersi, stupidi come possono esserlo coloro che ripetono senza un barlume di discernimento un dovere che non capiscono e per cui non sono tagliati. Eppure hanno fatto cinque figli vivi e tre morti prima di nascere che fanno otto; otto volte si sono incontrati sotto le lenzuola senza baciarsi né carezzarsi. Un assalto, una forzatura, un premere di ginocchia fredde contro le gambe, una esplosione rapida e rabbiosa.
Qualche volta chiudendo gli occhi al suo dovere si è di era distratta pensando agli accoppiamenti di Zeus e di Io, di Zeus e di Leda come sono descritti da Pausania o da Plutarco. Il corpo divino sceglie un simulacro terreno: una volpe, un cigno un’aquila, un toro. E poi, dopo lunghi appostamenti fra i sugheri e le querce, l'improvvisa apparizione. Non c'è il tempo di dire una parola. L'animale curva i suoi artigli, in chioda col becco la nuca della donna, e la ruba a se stessa e al suo piacere. Un battere di ali, un fiato ansante sul collo, il taglio dei denti su una spalla ed è finito. L'amante se ne va lasciandoti dolorante e umiliata.

[…]

Marianna si scuote dai suoi pensieri quando Saro le stringe una mano con una forza nuova. Sta guarendo, sembra proprio che stia guarendo.
Saro apre gli occhi. Uno sguardo fresco, nudo, uscito allora dal chiuso di un baccello, come un fagiolo ancora morbido di sonno. Marianna gli si avvicina, appoggia due dita sulle labbra screpolate di lui. Il fiato leggero, umido e regolare si insinua nel palmo cavo di lei. Una sensazione di allegria tiene Marianna ferma in quel gesto di tenerezza respirando il fiato amaro del ragazzo.
Ora la bocca di Saro si spinge contro le dita di quella mano e la baciano all'interno, con trepidazione. Marianna perla prima volta non lo respinge. Anzi, chiude gli occhi come per assaporare meglio quel tocco. Sono baci che vengono da lontano, da quella prima sera che si sono visti alla luce fluttuante della candela, dentro lo specchio macchiato nella camera di Fila.
Ma il gesto sembra averlo stancato. Saro continua a tenere le dita di Marianna contro la bocca ma non le bacia più. Il suo fiato è tornato irregolare, appena un poco affrettato e convulso.
Marianna ritira la mano, ma senza fretta. Da seduta che era sulla poltrona, si inginocchia per terra accanto al letto,allunga il busto sulle coperte e con un gesto che ha spesso immaginato ma mai compiuto, appoggia la fronte sul petto del ragazzo. Sotto l'orecchio sente lo spessore delle fasciature impregnate di canfora e sotto di esse le mezzelune delle costole? sotto, ancora il fragore del sangue in tempesta.
Saro giace immoto, preoccupato che un suo gesto possa interrompere i timidi movimenti di Marianna verso di lui,spaventato che possa scappare via da un momento all'altro come ha sempre fatto. Perciò aspetta che sia lei a decidere:trattiene il fiato e tiene gli occhi chiusi sperando, disperatamente sperando che lei lo stringa a sé.
Le dita di Marianna scorrono lungo la fronte, le orecchie,il collo di Saro come se ormai non si fidasse neanche della sua vista. Scivolando sui capelli incollati dal sudore, si soffermano sul rigonfio di cotone che nasconde l'orecchio sinistro, riprendono il contorno delle labbra, scendono verso il mento ispido di una barba da convalescente, tornano al naso come se la conoscenza di quel corpo potesse passare solo attraverso la punta dei polpastrelli, tanto curiosi e mobili quanto lo sguardo è pusillanime e riottoso.
L'indice, dopo avere percorso la lunga strada che da una tempia conduce all'altra tempia, scendendo lungo le pinne del naso, risalendo sulle colline delle gote, sfiorando i cespugli delle sopracciglia, si trova quasi per caso a premere nel punto in cui le labbra si congiungono, si apre un varco fra i denti, raggiunge la punta della lingua. Solo allora Saro azzarda un movimento impercettibile:chiude i denti, ma con una pressione lievissima, attorno al dito che rimane prigioniero fra palato e lingua e viene avvolto nel calore febbrile della saliva. Marianna sorride. E con l'indice e il pollice dell'altra mano stringe le narici del ragazzo. Finché lui non lascia la presa e apre la bocca per respirare. Allora lei ritira il dito fradicio e ricomincia l'esplorazione. Lui la guarda beato come a dirle che il sangue gli si sta sciogliendo. Le mani della signora ora si afferrano alla trapunta e la fanno scivolare giù dal letto. Poi è la volta del lenzuolo che a pieghe disordinate viene buttato da un lato per terra. Ed ecco davanti agli occhi sorpresi dal proprio ardimento il corpo nudo del ragazzo che conserva solo le fasciature lungo i fianchi,sul petto e sulla testa.
Le costole sono lì, sporgenti quarti di luna che raccontano come su un atlante le fasi delle rotazioni dell'astro viste in progressione, una accanto all'altra, una sopra l'altra.
Le mani di Marianna si posano senza peso sulle ferite appena rimarginate, ancora rosse e dolenti. La ferita sulla coscia pare quella di Ulisse assalito dal cinghiale, così come deve essere apparsa alla nutrice stupefatta che per prima riconosce il suo padrone tornato dopo tanti anni di guerra, quando ancora tutti lo credevano un mendicante straniero.
Marianna vi fa scorrere le dita, leggere, mentre il respiro di Sarino si fa frettoloso e dalle sue labbra chiuse sbucano delle minuscole stille che fanno pensare al dolore ma anche a una gioia sconosciuta e selvaggia, a una resa felice.
Come abbia fatto a trovarsi spogliata accanto al corpo spogliato di Saro, Marianna non saprebbe dirlo. Sa che è stato semplicissimo e che non ha provato vergogna. Sa che si sono abbracciati come due corpi amici e accoglierlo dentro di sé è stato come ritrovare una parte del proprio corpo che credeva perduta per sempre.
Sa che non aveva mai pensato di racchiudere nel proprio ventre una carne maschile che non fosse un figlio o un invasore nemico.
I figli si trovano nel ventre della donna senza che lei li abbia chiamati, così come la carne del signor marito zio stava al caldo dentro di lei senza che lo avesse mai desiderato né voluto.
Questo corpo invece lei lo ha chiamato e voluto come si chiama e si vuole il proprio bene e non le avrebbe portato dolore e lacerazione come avevano fatto i figli uscendo da lei,ma sarebbe scivolato via, una volta condiviso "lu spasimu",con la promessa gioiosa di un ritorno.
Aveva pensato in tanti anni di matrimonio che il corpo dell'uomo fosse fatto per dare tormento. E a quel tormento si era arresa come al "maliceddu di Diu", un dovere che ogni donna "di sentimento" non può non accettare pur inghiottendo fiele. Non aveva inghiottito fiele anche nostro Signore nell'orto di Getsemani? non era morto sulla croce senza una parola di recriminazione? cos'era la piccolezza di un dolore da letto rispetto alle sofferenze di Cristo?
E invece ecco qui ora un grembo che non le è estraneo,non la assale, non la deruba, non chiede sacrifici e rinunce ma le va incontro con piglio sicuro e dolce. Un grembo che sa aspettare, che prende e sa farsi prendere senza nessuna forzatura. Come potrà più farne a meno?


Il Gazzettino, 5 settembre 1990

Messaggi dal silenzio
di Dacia Maraini

Perché hai scritto questo romanzo e non un altro? perché hai scelto questo personaggio e non un altro? perché hai ambientato la storia nel passato, non è una fuga? perché il Settecento? perché la Sicilia? eccetera.
Sono domande che mi vengono fatte in continuazione. E hanno un sapore di affettuosa curiosità, ma anche a volte di una pizzuta maliziosa volontà indagatoria. Un romanzo è un romanzo, mi verrebbe di rispondere, alla maniera di Gertrude Stein. Ma anche lei, col suo ampio corpo materno, l'occhio di falco e la scrittura da acrobata; anche lei, poi, con pazienza, si accingeva a spiegare. Magari mettendo In bocca le sue risposte alla cara amica Alice Toklas.
Si è mai sentito di un autore che scrive l'autobiografia di un altro? che poi questo altro non è che lei stessa vista in terza persona, attraverso un gioco di specchi scaltro e Incantatore. Gertrude Stein insiste sul suono delle parole. Non a caso la sto citando. Avendo lavorato in questo mio romanzo con particolare puntiglio sul «cantabile e il ballabile» dello stile. Ad aiutarmi è stato il fatto che Marianna fosse sorda. Può sembrare un paradosso: "lucus et non lucendo", come si diceva del bosco che ha nome "lucus" ma, non dà luce, al contrario è un Intrico di bui.

Non ci sono dialoghi parlati nel mio libro ma sono comunicazioni scritte a penna; frasi ricostruite, vergate su un foglio, oltre a citazioni, ricostruzioni mnemoniche, pensieri imprigionati. E spesso il dialetto vi regna come un piccolo mistero linguistico.
Una convenzione, si dirà; Perché In un romanzo, comunque, i dialoghi sono sempre scritti. Tutto è scritto anche ciò che vuole darsi come parlato. Ma chi incastona nella prosa dei dialoghi che vogliono appari_ re «colti ai volo», si mette in piedi su una lama di rasoio che sta fra la scivolosa mimesi del lessico quotidiano e l'artificioso impegno costruttivo e ritmico che la parola scritta richiede.
Nel caso in cui la parola scritta però diventi uno dei personaggi stessi del romanzo, essa deve in qualche modo farsi balla di se stessa e rendersi consapevole delle sue capacità di darsi latte. I silenzi di Marianna non possono che essere contagiati da un certo gusto leggero e metodico di comporre le geometrie linguistiche. Geometrie che non nascono da esigenze artistiche ma di sopravvivenza. E In questo sta la contraddizione sotterranea e la scommessa del libro. Marianna ha avuto in regalo dal padre una completa attrezzatura per scrivere: un calamaio d'argento, una penna d'oca col collarino d'oro, un astuccio per la cenere, una retina di maglia per reggere ogni cosa, da appendere alla cintura.
I genitori, i fratelli, I figli quando vogliono farsi Intendere da lei, tracciano rapidamente delle frasi sul foglietti di Marianna. E così fa lei per rispondere o porre a sua volta delle domande., La sua gonna è spesso Ingombra di pezzetti di carta scritta che lei getta via o conserva secondo una valutazione di «durata» che è legata agli affetti e alle emozioni del momento. Comunque cercherò di risponder anche alle altre domande.
Perché hai scritto il libro? non lo so veramente, mi sono sentita tirare per la manica da una donna dai capelli grigi e una rosa malinconica appiccicata sopra. Una donna gli occhi duri ma anche gioiosi. Pirandello l'ha detto molto bene: spesso sono loro, i personaggi che vengono 1 a cercarti e insistono, con quella petulanza leggermente ricattatoria che è tipica di chi vuole a tutti i costi camminare nelle fantasie altrui… Perché il Settecento?
Non è una fuga dal presente? Il fatto è che Marianna, la donna del quadro, è nata agli inizi del Settecento e la villa in cui è vissuta è la stessa in cui ho trascorso gli anni della mia adolescenza. In quanto alla fuga, mi sembra un falso problema. Se io parlassi di mia nonna che è nata alla fine dell'ottocento, fuggirei lo stesso? E se parlassi della guerra e degli anni Quaranta? sarebbe sempre una scappatoia? Quando comincia un romanzo storico? A volte sembra che sia questione di «costumi». Ma anche I vestiti di venti anni fa sono dei costumi per chi li guarda con gli occhi di oggi.
A me sembra che tutti i romanzi parlino del passato, più o meno recente. L'argomento più frequente, anche se non sempre esplicito, delle grandi imprese narrative, e quasi sempre lo scorrere dei tempo. Il passaggio dallo ieri all'oggi al domani. Come avviene e perché e cosa significano le trasformazioni di cui tutti siamo oggetto? In quanto all'ultima domanda: perché la Sicilia? devo fare un passo indietro. Sono nata a Firenze da padre mezzo toscano e mezzo inglese.
Ma a un anno sono stata portata in Giappone. Al ritorno, dopo due anni di campo di concentramento, mi sono trasferita con la famiglia a Palermo dove è nata e cresciuta mia madre. Fra Palermo e Bagheria ho trascorso otto anni della mia vita di ragazza. Ma appena ho potuto sono scappata. L'educazione sentimentale di una ragazza nella Sicilia degli anni Cinquanta era a dir poco schizofrenica. Il candore veniva ucciso da una sublime e sensuale ipocrisia. Quella dei personaggi di Brancati per intenderci. Solo che lui vedeva il tutto dal punto di vista di un giovanotto sognante e desideroso.
Per anni, vivendo a Roma, non ho voluto più pensare alla Sicilia. L'ho forzatamente dimenticata. Quasi che ci si possa disfare di una parte di noi. Fatto sta che ho scritto sette romanzi senza mai nominarla. Tornando qualche anno fa a Palermo, ho sentito la voglia di rivedere i luoghi della mia goffa «educazione al mondo».
C'era di che farsi venire il mal di pancia: il mare imbrigliato In colate di cemento, su cui spiccavano orribili villini; i giardini distrutti, i parchi devastati, le vigne divelte, gli ulivi bruciati; alcune meravigliose ville settecentesche rase al suolo per mettere al loro posto palazzi e palazzetti costruiti solo secondo principi di puro abuso.
Me ne sarei tornata dritta a Roma cercando di seppellire, questa volta piú in profondità, le rovine assieme con i ricordi del «prima». Peggio, molto peggio che vedere invecchiare, ammalare e morire una persona amata. Perché a questo non c'è rimedio mentre alla morte della bellezza architettonica e urbanistica il rimedio c'è. Marianna mi ha trattenuta dal voltare le spalle un'altra volta; ed eccomi qui col libro. Devo dire che mi sono i anche molto divertita a scriverlo. Ho provato tanto gusto a sprofondare in quella Sicilia da non poterne più uscire. Come un personaggio di Calvino, di cui adesso non ricordo il nome, che si affaccia sulla minestra che sta In fondo ad un orcio e a furia di guardarla ci casca dentro. Ho fatto lo stesso: ho guardato con tanto piacere la Sicilia di Marianna che ci sono cascata dentro. E adesso mi è difficile uscirne.


Dacia Maraini
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Bagheria
Milano, Rizzoli 1993[/align]


Dacia Maraini torna nella villa dove ha vissuto la sua adolescenza, guidata da una vecchia zia assolutamente estranea ai pensieri, ricordi e emozioni di ciò che mostra. Fra ciò che la scrittrice vede c’è il ritratto di Marianna Ucrìa che le inspirerá il romanzo omonimo. Di questo libro l’autrice ha detto: « Più che un romanzo si tratta di un libro autobiografico, una " memoria", che si è sviluppato da sé mentre scrivevo la storia della genesi di Marianna Ucrìa».


leggi brano.....Bagheria l'ho vista per la prima volta nel ‘4 7. Venivo da Palermo dove ero arrivata con la nave da Napoli e prima ancora da Tokyocon un'altra nave, un transatlantico.
Due anni di campo di concentramento e di guerra. Una traversata sull'oceano minato. […]
A Palermo ci aspettava la famiglia di mia madre. Un nonno morente, una nonna dai grandi occhi neri che viveva nel culto della sua bellezza passata, una villa del Settecento in rovina, dei parenti nobili, chiusi e sospettosi.
Al porto abbiamo preso una carrozza che ci avrebbe portati a Bagheria. L'abbiamo caricata di tutti i nostri averi che erano in verità pochissimi, essendo tornati dal Giappone nudi e crudi, con addosso soltanto i vestiti regalati dai militari americani, senza soldi e senza proprietà.
La carrozza prese per via Francesco Crispi, via dei Barillai, via Cala di porto Carbone, in mezzo a mozziconi di case buttate giù dalla guerra. Poi porta Felice con le sue due belle torri, il Foro italico, quella che una volta si chiamava Marina, vicino alla piazza Marina vera e propria dove si tenevano le più grandi feste palermitane, ma anche dove si eseguivano le impiccagioni, gli squartamenti.
Proseguendo, abbiamo imboccato la strada del mare, piena di curve, ancora non asfaltata, fatta di "balati" nei centri abitati e altrove semplicemente bianca di polvere e di terra.
Lasciavamo alle spalle il monte Pellegrino con la sua forma di torrematta, una Palermo tutta detriti e rovine. Ci inoltravamo nella campagna estiva dalle erbe bruciate, i corsi d'acqua secchi e riarsi.
A ricordare quel viaggio mi si stringe la gola. Perché non ne ho mai scritto prima? Quasi che a metterla su carta, la bella Bagheria, a darle una forma, me la sentissi cascare addosso con un eccessivo fragore di lontananze perdute. Una fata morgana? Una città rovesciata e scintillante in fondo a una strada pietrosa, che ad avvicinarsi troppo sarebbe svanita nel nulla?

[…]

Ora sono contenta di averla visitata l'ultima volta poco prima che morisse, la zia Saretta. Oggi non potrei più entrarci nella vecchia villa di famiglia. E poi quando l 'ho vista io, c'erano ancora tutti i mobili e i quadri che poi sono stati rubati, compreso il ritratto di Marianna importantissimo per il mio futuro letterario.
Avevo telefonato alla zia Saretta chiedendole di poterla vedere. E lei, a malincuore mi aveva detto: «Vieni pure, se ci tieni». Ma sapevo che non mi amava. Lei, cattolica di rigore, monarchica, conservatrice, mi vedeva come un prodotto spurio della famiglia, un ramo degenere, una escrescenza maligna, se non proprio da estirpare, per lo meno da ignorare.

[…]

Il piede di zia Saretta è di nuovo li che batte, impaziente, annoiato. Possibile che mi perda continuamente dietro ai ricordi? Cosa avrà questa nipote balorda, sembra chiedersi, che non ascolta niente, presa com'è da pensieri lontani e inafferrabili?
«Ecco questo è un quadro di zia Felicita», ci dice. Siamo faccia a faccia con una tela scura che contiene delle grandi calle bianche. È un quadro curioso: dipinto con una mano timida senza maestria, eppure animato da una sua intelligente corposità.[…]
La zia Saretta passa oltre. Ma io ho voglia di guardarlo meglio questo quadro. E Bice, che è figlia di una brava pittrice, capisce e commenta con me la freschezza sensuale di quelle calle.
«Di qui abbiamo finito», dice la zia Saretta, «se vuoi andare di là a rivedere la dépendance» e dice «dépendance» arricciando un poco le labbra, «puoi andare, ti aspetto di sopra per prendere un gelato.»

[…]

La zia Felicita è morta da anni. Mentre la zia Saretta è qui viva e ora batte le mani a una ragazzina in tacchi alti e unghie laccate che porta dentro un vassoio con sopra dei bicchieri a calice colmi di tè freddo al limone. Su un piatto prezioso porge dei gelati di Bagheria: minuscoli fiori di crema ghiacciata ricoperti di finissima cioccolata. Si posano con due dita sulla lingua e si lasciano sciogliere fra denti e palato.

[…]

Rientriamo nel salone. I miei occhi cadono sul grande quadro dell'antenata che ricordo vagamente nei miei vagabondaggi infantili per la villa.
È lei, Marianna, a grandezza naturale, chiusa in un vestito rigido, da cerimonia, con la croce di Malta dei grandi Nobili sul petto. I cappelli gonfi, grigi, su cui spicca una rosa stinta, qualcosa di risoluto e disperato nei grandi occhi chiari. Le spalle scoperte, le braccia fasciate dalle maniche trasparenti.
Anche la zia Felicita nel suo libro parla di questo quadro, ammirata: «elegantissima in guardinfante, ha la lunga vita appuntita a cono sull'abito di broccato argenteo a fini disegni in colori tenuissimi; dalla scollatura alla punta spicca una grande croce argentea ricamata sul triangolo di velluto nero che forma il davanti della vita. La caratteristica croce di Malta che solo i nobili di sangue purissimo, con quattro quarti di nobiltà, potevano portare. Grossi brillanti alle orecchie e altri sparsi sulla appena incipriata gonfia e liscia acconciatura dei capelli che lascia scoperta la vasta fronte con una rosa da una parte, in alto. Un grosso solitario all'anulare e nessun altro gioiello. Tiene in mano un foglio, ché lo scrivere era il suo solo modo di esprimersi. Era nominata: la muta».

[…]

Dal ritratto di Pietro Valguarnera Gravina Palagonia, torno a posare gli occhi su Marianna. La zia Saretta continua a parlarmi di altri antenati, ma io non la ascolto. C'è qual cosa in quel ritratto di Marianna che mi infastidisce, li per li, ed è quel suo stare impettita, irrigidita in una posa arte fatta nonostante gli occhi insofferenti e vivacissimi. Ma so che ancora una volta si tratta di teatro. Sono di fronte alla solita affatturazione fra ambigua e divertita di un secolo che amava le metamorfosi profonde accompagnate dalla ironica caricatura di sé.
Marianna si è costruita, basta osservare meglio il ritratto, un involucro di severità inavvicinabile. Eppure il suo sguardo esprime una sapienza indulgente e profonda che non riesce a nascondersi dietro le "buone maniere". Le pupille sono chiare, luminose, appena attraversate da qualche nuvola di paura.
Quelle mani che si indovinano sempre in moto, fattive, prima di tutto nella scrittura, sembrano intente a interrogarsi sul senso delle cose. Una leggera increspatura delle labbra richiama l'idea di un sorriso trattenuto che irride alla propria severità e al proprio inconsolabile dolore. Un misto di curiosità intellettuali e vo glie sopite, di severità militaresca e antichi sussurri voluttuosi.
Intanto, i piccoli gelati di Bagheria si stanno squagliando sul piatto. Trasudano goccioline chiare. «Prendine un altro», mi dice zia Saretta con gentile compunzione. Ma io ho la gola chiusa. Sono li impietrita, a guardare quel quadro come se lo avessi riconosciuto con la parte più profonda dei miei pensieri: come se avessi aspettato per anni di trovarmi faccia a faccia con questa donna morta da secoli, che tiene fra le dita un foglietto in cui è scritta una parte sconosciuta e persa del mio passato bagariota.

[…]


Gazzetta del Sud, 30 gennaio 1993

Leggerezza di favola gravità di ricerca
di Giuseppe Amoroso

«A metterla su carta, la bella Bagheria, a darle una forma», sembra cadere addosso «con un eccessivo fragore di lontananze perdute»: questa sensazione prova Dacia Maraini nell'atto di scrivere di quel suo ritorno alla siciliana casa degli avi compiuto da bambina, nel '47, dopo due anni durissimi di campo di concentramento in Giappone. E nasce Bagheria, lungo racconto autobiografico che con leggerezza di favola e gravità di ricerca d'archivio incastona piccole fonti di memorie e protrae un limpido bisogno di analisi, tra stupori ancora intatti e invito a nuove storie e alle loro scie, al loro presentarsi con una forza vagante e imperiosa, un effetto di aurorale sorpresa portato dalla luce di una parola netta, rivelatrice, fiorente di energia interna e tesa a stordire pure i momenti polari dell'esistenza, i volti cari e lontani. Quei volti che agiscono sovente fuori scena, senza tumulto, in una riposata zona di sospensione e tregua.
Ed ecco, lasciata alle spalle la sagoma di «torrematta» del Monte Pellegrino, il viaggio in carrozza per una Palermo ancora lacerata dalle rovine della guerra, e poi per una campagna affollata di case minute, interrotte dal «gioco d'inganni» di qualche austera facciata di palazzo nobiliare e dalla vista del movimento lento e dolce del mare, «corpo materno e sfuggente, maligno e gentile». È pomeriggio quando la carrozza con la bambina, il padre ricco di seduzione, la madre giovane e bella e le due sorelle, si ferma davanti alla villa Valguarnera: ha così inizio una nuova stagione di scoperte, in cui profumi, colori, sapori, voci, paure si intrecciano secondo un ritmo esuberante e festoso, un getto inesausto di episodi ospitati da solare incantamento dell'età fanciulla.
«Porta di vento»: con la sua aria di giardino d'estate, Bagheria, appoggiata tra le colline, reca oggi i segni dello scempio edilizio. Sparite le preziose testimonianze della sua antica storia, ora sembra quasi fare tutt'uno con il paesaggio «ruvido e secco, avido e mortuario». Più incontaminato è il paesaggio che filtra nei ricordo personali della Maraini con la sua folla di ombre, la processione di giorni ignari, la prima brutale esperienza del sesso, l'immagine del padre solitario e insofferente di ogni legame, scrittore di libri di etnologia e «pellegrino» dai gusti semplici, estraneo e distante, pronto a una partenza senza ritorno.
Ma l'evocazione, tra larghe chiazze di abbandono sentimentale ed esigenza pressante di comprendere fatti indistinti e seducenti od ostili e franosi, si frange in un percorso spaziato dal lirismo al documento, dalla riconquista affabulata di una stagione al controllo critico che, nel consegnare i fatti, li avvicina o li allontana secondo un processo di approfondimento e di rapporto con altri fatti più recenti, con altre ragioni culturali e storiche. La serietà con cui è osservato l'agitarsi anche talora convulso di figure e luoghi si irrobustisce proprio per queste verifiche reiterate talora impietose e crude -, le quali non arrecano gravi fratture allo scorrere del racconto ma ne dilatano i grumi più chiusi, toccano l'ideologia, la sapienza, il gusto ragionativo, il risentimento civile e morale, senza calcare troppo la mano, ma solo riservandosi una sfera di commento discreto con lo spostare i punti focali da una remota zona di buio, eccezionale e mitica, a una chiara presa di coscienza.
Parallelamente, vi sono anche pagine in cui il tono si fa più aspro, colpisce uomini e cose, fa emergere circostanze e responsabilità precise, indica a grandi lettere gli autori di quello sfascio urbanistico che ha privato le splendide ville settecentesche di Bagheria del loro verde,lasciandole «come testimoni intirizziti e malmenati di un passato che si ha fretta di distruggere». E allora, in questo libro a più facce, le tessere del mosaico si aggrovigliano, sembrano voler sbilanciare l'unità dell'insieme, ma poi si arrestano confluendo nel superiore spessore della scrittura che non disdegna un che di allucinato, il pericolo nascosto nella rivelazione dei moti oscuri di dentro, l'occasione di leggere lo stato di una civiltà attraverso un piccolo evento rivelativo o una mareggiata di aloni, di giorni senza confine, di lunghi incontri con la natura sentita come il punto più alto della conoscenza del mondo.
Le appassionate letture (Baudelaire, Quasimodo traduttore dei lirici greci, «quel tanto di marino, di casalingo» del Collodi e i versi di Emily Dickinson con il loro «ritmo di ballo lento»), l'euforico piacere delle misteriose combinazioni delle parole, i sogni di avventura e di viaggi, la presenza consolante di visi umili, come quello della buona Innocenza, seduta sulla soglia al pari di una «parca intenta a cucire il fIlo della vita», l'apparire dello spettro della mafia («forza maligna capace di imporre la sua volontà col coltello e il fucile») sono i paragrafi di un capitolo di immagini ed emozioni profonde, sgranate lungo un tracciato irto di curiosità e domande. E soprattutto mosso dalle idee, da una sagace visione della realtà «Non fare i conti con l'imprevedibile è da citrulli») e da una felice disposizione a cogliere i particolari rilevanti di una persona. Ed ecco la galleria dei ritratti di una «geometria familiare che si apre tutta verso il passato come un ventaglio»: a partire dal nonno Enrico studioso di teosofia, spinto a detestare allegramente i privilegi della sua casta, e dalla nonna che canta e suona il pianoforte a coda, si susseguono i trisavoli «lenti, miti e conservatori» che guardano indifferenti dai quadri appesi alle pareti, e quindi, zia Felicia che inventa la realtà, e Beppuzzo amante dell'arte, i suoi raffinati amici, zia Saretta che, con la sua bellezza «raponata» e «il silenzio di pietra», pare un simbolo dell'isola, e altri ancora in fotografie ove si lascia stampata la felicità.
In mezzo a questo rigoglio di visioni sta lei, la protagonista, sempre in bilico fra «un panico profondo» e una «calma glaciale»: destinata a creare, con «giovane cuore borghese», personaggi «figli e figlie dai piedi robusti, adatti a lunghe camminate», vive un'esistenza piena e fantasiosa, si perde nella contemplazione di un cielo stellato, sente l'intensità «dolorosa» dei gelsomini, si innamora di un amico di famiglia dagli occhi saraceni e si appresta a cancellare i «resti di un'ingenua cosmogonia infantile». Ma il passato («rovinio» di vestiti laccati, ritratti e carte sbiadite, «scandali svaporati», stanze e orizzonti nella controluce) non può cancellarsi: alla scrittrice ormai adulta l'universo antico di famiglia cade addosso «con un rumore di vecchie ossa» e apre una porta rimasta sbarrata. Da lì arriva un nuovo corteo di ricordi, i fuochi pirotecnici di una festa, che fanno a gara con i fulmini di una notte tempestosa, le leggende e i crudeli racconti di violenze, oggetti che portano l'impronta degli anni e, alla fine, il dipinto di Marianna Ucrìa, con «qualcosa di risoluto e disperato nei grandi occhi chiari», che, pur chiusa nel «teatro» di una posa artefatta, esprime una «sapienza indulgente e profonda». Impietrita, la Maraini guarda questa donna morta da secoli e aspettata per anni. Intanto, i gelati di Bagheria, offerti da zia Saretta, si squagliano sul piatto.

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Voci
Milano, Rizzoli 1994[/align]


Perché tanti omicidi di donne? Perché le donne aprono la porta ai loro assassini? Queste sono le domande che stanno alla radice di questo romanzo in cui una giornalista radiofonica indaga sull’omicidio di una sua vicina.


leggi brano.....Un taxi mi deposita davanti al cancello di via Santa Cecilia. Ma perché tanto stupore? sono di nuovo a casa, mi dico, sono tornata; ma è come se non lo riconoscessi questo cancello, questo cortile, questo palazzo dalle tante finestre aperte. Ho una spina infitta nel palato, come il presagio di una sciagura. Cosa mi aspetta in questa dolce mattina che porta con sé gli odori conosciuti del ritorno? cos' è che preme sui miei pensieri come se volesse distorcerli e cancellarli?
Cerco con gli occhi la portiera, Stefana, che a quest'ora di solito sta smistando la posta nella guardiola, ma non vedo né lei né il suo allampanato marito, Giovanni. Attraverso il cortile tirandomi dietro la valigia a rotelle che, sulla ghiaia, non ne vuole sapere di camminare. Mi fermo un momento in mezzo al pietrisco per dare uno sguardo intorno: gli oleandri e i gerani rosa sono sempre lì nelle aiole, anche se coperti da un velo di polvere estiva, la fontanella dalla pietra muschiata gocciola, al suo solito, con un rumore di rubinetto rotto; i due grandi tigli sono carichi di fiori e sembrano i soli a non languire per il caldo, i soli estranei a quell'aria cupa che oggi grava sulla mia casa. Se ne stanno lì, nel leggero vento estivo, a scuotere i loro mazzetti di fiori pelosi e profumati.
Le finestre che danno sul cortile, cosi spesso occhiute, oggi sembrano tutte cieche, anche le scale sono deserte e stranamente silenziose. L'ascensore mi deposita con un soffio stanco all'ultimo piano, il mio.
Mentre cerco nella borsa le chiavi di casa, vengo raggiunta da un penetrante odore di disinfettante da ospedale. Mi volto e vedo la porta della vicina di pianerottolo socchiusa. Faccio due passi, la spingo con le dita e la vedo scivolare su se stessa, docile e leggera, rivelando un corridoio inondato dal sole, la frangia di un tappeto arrotolato e un paio di scarpe da tennis azzurre, bene appaiate proprio accanto alla porta.
Il mio sguardo si sofferma di nuovo, incuriosito, su quelle scarpe celesti che, così pulite, illuminate dal sole, suggeriscono l'idea di passeggiate felici, salti in punta di piedi, corse sui campi da tennis dietro una palla che vola. Ma perché giacciono lì, immobili, integre e slacciate di fronte alla porta aperta? Sono troppo bene appaiate per fare pensare che qualcuno se le sia tolte rientrando a casa, con un gesto di impazienza; c'è qualcosa di composto e definitivo in quel loro stare esposte agli sguardi dei curiosi, con i lacci arrotolati sulle tomaie. Dal fondo dell'appartamento sento arrivare delle voci e, subito dopo, mi vedo davanti la faccia di Stefana dai grandi occhi dolenti.
«Non l'ha saputo?«
«Che cosa?«
«È morta cinque giorni fa, l'hanno uccisa.«
«Uccisa?«
«Venti coltellate, una furia... e non l'hanno ancora preso, poveri noi.«
Una voce da cospiratrice; le pupille che slittano verso l'alto mostrando il bianco della cornea. Mi ricorda un quadro di Delacroix: una espressione di allarme, come di chi ha veduto con gli occhi della mente la catastrofe incombente e non trovi le parole per raccontarla. Un pallore da sottoscala, che "si nutre di vite altrui", come dice Marco; eppure Stefana Mario è una donna intelligente e consapevole. Le guardo le mani che sono grandi e capaci, mi chiedo se sia stata lei, con quelle mani, a rivestire la morta.
«Ma perché l'hanno ammazzata?«
«Non si sa, non sembra che abbiano rubato niente... un finimondo, doveva vedere, è arrivata la polizia, è arrivato il giudice istruttore, sono arrivati quelli della scientifica, i giornalisti, i fotografi, e tutti con le scarpe sporche che andavano su e giù per le scale… Il funerale è stato l'altro ieri... Ora abbiamo pulito tutto, ma ci sono ancora dei poliziotti di là che prendono misure... dice che oggi mettono i sigilli.«
Mi accorgo che sto stringendo la chiave di casa fra le mani con una tale forza che mi dolgono le giunture. «Vuole entrare, Stefana, le faccio un caffè?«
«No, devo tornare giù, non c'è nessuno in portineria.«
La sento scendere i gradini, rapida, con le scarpe di pezza che emettono appena un leggero tonfo smorzato. Apro la porta di casa, trascino dentro la valigia; annuso l'aria che sa di chiuso, spalanco le imposte, mi chino sulle piante che se ne stanno reclinate, pallide e impolverate. Eppure l'acqua non è loro mancata, Stefana le ha innaffiate tutti i giorni come era nei patti; ma quello stare al chiuso, nel silenzio di una casa vuota, le avvilisce; non amano stare sole, le mie piante e me lo dicono con voci chiocce in un sussurro dietro le spalle.
Mi seggo alla scrivania davanti ad un mucchietto di lettere arrivate durante la mia assenza- Ne apro una, ma mi accorgo che leggo senza leggere: torno sulla prima frase due, tre volte, poi smetto. Il mio pensiero, come un asino giallo visto una volta in un quadro di Chagall, tende misteriosamente a volare fuori della cornice. Mi chiedo cosa so della mia vicina ammazzata a coltellate: niente; una donna è stata uccisa dietro la porta accanto e io non so neanche come si chiamasse.
La incontravo qualche volta in ascensore, la guardavo di sottecchi come si guarda una persona che ti sta di fronte in treno o in autobus, con un senso di colpa per la curiosità maleducata che ti anima. Perché, poi, sarà maleducato occuparsi del proprio dirimpettaio?
Era alta ed elegante, la mia vicina, portava i capelli castani chiari tagliati a caschetto. Il naso piccolo, delicato, il labbro superiore particolannente pronunciato, che quando si arricciava in un sorriso rivelava dei denti piccoli e infantili, un poco sporgenti. Un sorriso da coniglio, avevo pensato vedendola la prima volta, timido e timoroso come di chi è abituato a rosicchiare pensieri segreti. Gli occhi grandi, grigi, la fronte spaziosa, la pelle delicata, bianca, cosparsa di efelidi. La voce, quelle rare volte che l'ho sentita, mi è sembrata velata, come di chi tema di esporsi e infastidire, una voce piegata su se stessa, resa opaca dalla ritrosia, con dei guizzi inaspettati di ardimento e di allegria.
Abitava da sola, come me, e su di noi vegliavano la portiera Stefana e il suo evanescente marito Giovanni Mario, che si comportano come due vecchi genitori indulgenti, mentre in realtà sono più o meno nostri coetanei.
Ma perché la vicina tornava così tardi la notte? a volte, nel dormiveglia, sentivo la sua porta che si chiudeva con un tonfo, e la chiave che girava nella toppa con insistenza, trac, trac, trac. Anche le persiane venivano sprangate con energia, le sentivo sbatacchiare bruscamente sia di sera che di giorno.
Perché la mattina usciva silenziosa, stanca e intontita e perché ogni tanto partiva con aria furtiva portandosi dietro solo una borsa gialla tipo zaino?
Eppure tutte e due eravamo "da proteggere" secondo la mentalità del palazzo, perché vivevamo sole, perché facevamo lavori faticosi che ci tenevano spesso fuori casa, io con la mia radio e lei... ma qui mi fermo perché non so altro.
Riprendo in mano la lettera e ricomincio a leggere: è il conto del commercialista. Ne apro un'altra: è la rata del computer da pagare. Poi c'è la bolletta della luce, scaduta, e quella del telefono a cui mancano pochi giorni per la scadenza. Ultima, una lettera "della felicità": "copiate questa missiva e speditela a dieci amici. Se lo farete, avrete conquistato la felicità per l'avvenire, se non lo farete, andrete incontro a sette anni di guai". Proprio come quando si rompe uno specchio. La getto nel cestino.
Lo sguardo mi va al segnalatore della segreteria telefonica: l'occhio rosso lampeggia imperioso. Premo il bottone e faccio scorrere il nastro: "Ciao Michela, sono Tirinnanzi, ancora non sei tornata dal tuo corso di aggiornamento? appena rientri, chiama, ciao".
Uno scatto, un fruscio, la voce metallica che scandisce: "Thursday,June twenty-three, twelve twenty p. m.". E poi una voce femminile che non conosco "Cara Michela Canova, io sono..." ma la comunicazione viene interrotta con un clic misterioso. Mi ricorda la voce della vicina, ma perché avrebbe dovuto telefonarmi?
Un altro scatto, la voce metallica che sillaba "Friday, June twenty-four, eight thirthy": "mi scusi se... vorrei parlare con lei di"... Ma ancora una volta la frase è troncata da una mano impaziente. Sembra proprio la voce della vicina. Ma quando è morta? cinque giorni fa, ha detto Stefana. Ma cinque giorni fa era, per l'appunto, il 24 giugno.
Vado avanti ad ascoltare i messaggi, ma non trovo più quella voce titubante, interrotta bruscamente. Devo chiedere con precisione il giorno e l'ora della sua morte, mi dico. Estraggo il nastro dalla macchina e lo caccio dentro una busta.

[…]


?, 27 marzo 1995

Investigando con Simenon alla ricerca del romanzo perduto
di Carlo Bo

Nel saggio L'uomo che non era Maigret, dedicato al grande scrittore, si scoprono le ragioni della crisi della narrativa

Jean-Marie Domenacq, l'ex direttore della rivista francese Esprit, amico ed erede del fondatore della testata Emmanuel Mounier, conosciuto per i suoi saggi di morale e di politica, si è concesso un lungo periodo di distrazione e di vacanza, leggendo un bel numero di romanzi francesi pubblicati negli ultimi anni. Ha fatto questo per verificare fino a che punto e in che cosa fosse cambiata la nuova narrativa rispetto a quella della sua gioventù, più esattamente rispetto ai libri di François Mauriac, di Louis Aragon, di Henry Montherland e di altri. Il risultato è stato più che negativo, disastroso. Domenacq si è perduto in un mare di noia, di pagine senza senso, insomma di esercitazioni a vuoto, nello quali l'idea tradizionale del romanzo era completamente annullata e abolita. Ora ciò che ha constatato Domenacq non vale soltanto per la produzione francese, che in prossimità dei grandi premi dell'autunno cresce disordinatamente e al di fuori di qualsiasi canone estetico, vale anch'e per le altre letterature europee e, seppure in misura ridotta, per il mercato italiano e spagnolo.
Sono scomparsi i grandi "atleti" del genere e anche In Germania o in Inghilterra sarebbe arduo trovare narratori del livello di Thomas Mann o di Virginia Woolf. Ma che cosa ha impressionato e colpito soprattutto lo spirito chiaro di Domenacq? La mancanza della trama. il senso di una storia. la presenza di personaggi credibili e dotati di qualche consistenza. Colpe e difetti che ritroviamo puntualmente nel novanta per cento dei romanzi che approdano per qualche giorno sui banconi delle librerie e dopo poco vengono sostituiti da altra "merce" che non ha nulla a che fare con l'immagine di letteratura romanzesca quale valeva ancora nella prima metà del Novecento. Per rinnovare il romanzo esiste anche la strada della sperimentazione, ma si tratta di una strada molto dura e piena di trabocchetti. Nel Novecento ci sono riusciti James Joyce, Louis-Ferdinand Céline e Carlo Emilio Gadda, tanto per fare del grandi nomi. C'è poi la strada della tradizione rispettosa delle trame e dei personaggi riconoscibili, valga anche qui il caso di Georges Simenon, il vulcanico belga ha scritto centonovantatré romanzi con il suo vero nome e altrettanti con pseudonimo, sicché è più che lecito, obbligatorio confrontarlo con Honoré de Balzac. Quando Simenon apparve negli anni Trenta, lo salutarono con tutti gli onori scrittori consacrati conte François Mauriac e come André Gide che più o meno sinceramente lo esaltò come il più grande romanziere francese di quel tempo.
Misi obietterà che Simenon è stato un fenomeno e per capire tale fenomeno nella sua vera natura e nella sua evoluzione il lettore italiano può leggere adesso L'uomo che non era Maigret di Patrick Marnham, dove troverà tutte le indicazioni che più si adattano al nostro discorso, Lo ripeto, si può inventare senza buttare all'aria le strutture tradizionali, basta avere immaginazione e senso e conoscenza dalla vita.
Naturalmente non tutti gli scrittori nuovi si allontanano e dimenticano la lezione dei narratori tradizionali o meglio, fedeli alla lezione classica. Se torniamo in Italia, possiamo trovare opere nuove che rientrano a pieno diritto nell'ambito del racconto, dove realtà e fantasia si alternano in modo composto e armonioso. Farò due esempi: il primo, di uno scrittore cresciuto in provincia e già noto per la sua opera poetica, Umberto Piersanti. Il secondo, quello di una scrittrice che ha vinto la sua battaglia soprattutto negli ultimi anni facendo ritorno ai grandi esempi, senza però tradire il suo gusto iniziale della ricerca: Dacia Maraini.
Il romanzo di Piersanti, L'uomo delle Cesan, è un romanzo poetico dove memoria, paesaggio, immagini familiari partecipano a un giuoco in cui l'immaginazione ha il sopravvento e tuttavia la bellezza del paesaggio scatena una giostra di sentimenti eterni dentro l'uomo. Voci si intitola il libro di Dacia Maraini e viene dalle sue prove più felici, come La lunga vita di Marianna Ucrìa, del 1990.
La Maraini, ormai padrona del suo discorso interiore che resta, e qui sta il dato capitale, aperto a quelli che sono i suoi interessi di donna moderna e libera, e portata a rivendicare i diritti dei dimenticati e degli umiliati che purtroppo rappresentano una grossa parte della nostra società. Questa padronanza del testo la salva e protegge del cadere nella trama delle polemiche e nel gioco degli interessi creati. Ecco perché la sua storia risulta naturale, non artificiosa e costruita a freddo: cosa che capita invece ai romanzi che hanno attraverso il sotterfugio e il camuffamento il solo scopo di sostenere un'idea o un partito preso.

Carlo Bo
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Dolce per sé
Milano, Rizzoli 1997[/align]


Romanzo epistolare di una donna matura ad una bambina sulla storia di un amore.


leggi brano.......[…]

21 ottobre 1988

Cara Flavia,

una donna di cinquant'anni e una bambina di sei, che strana combinazione di età! generalmente si considerano estranee e lontanissime come due comete lanciate in due cieli diversi che non si conoscono e sono destinate a non incontrarsi mai.
Eppure tu mi tratti da amica e io ho per te quel sentimento di attesa trepidante che hanno le innamorate quando gli amati partono per terre lontane da cui non si sa se torneranno.
Cara Flavia che non mi sei parente, che non mi sei coetanea, che nonostante questo mi sei vicina, come è possibile che ti scelga come confidente quasi fossi una donna fatta con tanto di passato alle spalle?
Sono qui per parlarti di tuo zio Edoardo, come al solito. Ma non posso parlare di lui senza parlare di te; ti ricordi quella sera al concerto di Castelrotto? eravamo sedute vicine, tu con le tue lunghe calze bianche, la tua gonna scozzese, la tua camicetta rossa, io con la mia lunga gonna nera e la camicia da sera color chiara d'uovo. Tuo padre Arduino e tuo zio Edoardo suonavano insieme con un pianista e un violista il Quartetto in sol minore di Mozart . [...]
Tu, quella sera, Flavia, avevi i capelli legati sulla nuca con un fiocco rosso cardinale e tenevi tanto a quel fiocco che non volevi schiacciarlo appoggiandovi sopra il solito cappelletto color ciliegia che pure consideri parte integrante del tuo corpo. Eri molto incerta fra l'eleganza un poco "cochetta" del tuo fiocco e quella baldanzosa del tuo cappello.
Tu sei una bambina che tiene ai vestiti, lo sanno tutti in famiglia. [...] D'altronde anche tua madre è una donna elegante sebbene sobria. Si veste come una giovane signora, madre di una figlia di sei anni, moglie di un noto violoncellista che la sera spesso deve indossare dei completi blu notte quando non addirittura il frac. Ma nella sua eleganza cittadina tua madre mantiene un poco dei suoi ricordi di un'adolescenza ancora non troppo lontana. Perciò: pantaloni stretti, camiciole aperte sul collo, giubbotti bianchi o rosa.
Tante volte mi hai chiesto, quasi fossi un Paride che deve consegnare la mela d'oro: è più bella la mamma o quella signora laggiù? E io ti rispondevo che la bellezza non è qualcosa per cui si gareggia: ciascuno ha qualcosa di bello da scoprire; l'attenzione è la chiave della scoperta.
Tua madre Marta ha una bellezza fatta di disarmonie attraenti: gli occhi molto vicini, per esempio, le danno una espressione eternamente sorpresa e sognante; la bocca grande, il sorriso che rivela, oltre ai denti, anche le gengive, accentuano il carattere infantile della sua personalità. Quel collo lungo e snodato, quei capelli rossi di cui lei si fa bandiera, le danno un'aria puntigliosa e caparbia, ma nello stesso tempo c'è in lei un atteggiamento ritroso e impaurito come se si. aspettasse da un momento all'altro un colpo sulla schiena.
Tua madre suona bene il pianoforte, avrebbe potuto fare la concertista. Te la immagini seduta al piano, vestita di nero, la vita stretta in una cintura colorata, una collana di perle al collo, davanti ad un pubblico attento e concentrato? Nella sala non si sente un respiro, nessuno che si raschi la gola, che dia un colpo di tosse, niente. Da quando tua madre ha appoggiato le mani sulla tastiera il silenzio si è fatto corposo, compatto.
E ora quelle mani piccole e nervose si muovono sui tasti, volando, e nella loro abilità e leggerezza sono capaci di tira re fuori dal cassone nero qualcosa di stupefacente: degli sciami di farfalle che invadono frusciando la sala. Il pubblico trattiene il fiato, stregato da quelle mani. Ed ecco che la tua mamma, nel pieno del concerto, volta un poco la testa verso la sala perché tu, la sua unica figlia, sei seduta in prima fila e la guardi amorosamente. È un lampo, un brevissimo segno di intesa, ma basta per farti felice. [...] E' un peccato che tua madre abbia rinunciato a fare la concertista. Non lo pensi anche tu quando la senti tamburellare con le dita graziose sopra la tastiera del suo pianoforte mentre aspetta in cucina che si cuocia il riso per te e per tuo padre?
«Nessuno mi ha costretta a rinunciare» mi ha detto una volta «so che non ho abbastanza talento per farmi un nome. E poi c'è troppa concorrenza nel mondo dei pianisti, non basta essere bravi, bisogna essere geniali e avere una determinazione che io decisamente non ho. E poi chi si occuperebbe di Arduino e di Flavia?».
Certo è vero che se anche lei facesse la concertista qualcun altro dovrebbe cucinare per te. Chi ti sveglierebbe la mattina, chi ti preparerebbe la colazione, chi ti porterebbe a scuola, chi ti metterebbe a letto, chi ti racconterebbe le favole per addormentarti?
Le mamme fanno le mamme, tu dici. Quindi niente concerti, niente viaggi all'estero. Il marito, i parenti, la gente intorno avranno davvero riconoscenza per queste rinunce professionali? O non sarà che, dopo averla costretta a scegliere fra professione amata e maternità, la tratteranno con sufficienza dicendo: «In fondo le donne sono poco portate per l'arte»?
A Flavia non piace che sua madre si dedichi a qualcosa che non sia lei, anche questo può sembrare egoista. Vedo da come la guardi, tua madre, che sei abitata dall'ansia del possesso Ma quanto è lecito per una madre acconsentire alla volontà di possesso dei figli? Non è un modo di perpetuare un'idea di irrilevanza delle professioni al femminile?
Ma torniamo a quella sera a Castelrotto quando noi due ci siamo sedute davanti al palco e abbiamo "bevuto" la musica che sgorgava da quei legni cavi come fosse acqua zuccherina. Nell'entusiasmo ti ho preso una mano e mi sono accorta che dormivi, una volta tanto avevi ceduto ai sonni della tua età. Al tocco delle mie dita, hai aperto gli occhi e mi hai sorriso. «Stavo sognando di suonare» mi hai sussurrato all'orecchio. Così il circolo si era chiuso. Tuo padre suonava sognando di essere te che lo guardavi e tu lo guardavi sognando di essere lui che suonava.


Ti mando un bacio
tua Vera

[…]


Il Messaggero, 8 aprile 1997

Quasi un'autobiografia, sulle orme di Leopardi
di Renato Minore

In forma epistolare, l'ultimo romanzo di Dacia Maraini, Dolce per sé è una continua, dolorosa riflessione sul tema della memoria. E del tempo che l'azzanna e le restituisce poi, in un processo anche lancinante, la forza e la trasparenza della "ricordanza" leopardiana. A scrivere lettere è una cinquantenne autrice di teatro legata a un violinista più giovane di lei che, nel corso degli anni, si trasforma in un tenero post-innamorato, nel crepuscolo del sentimento sempre diffuso e intermittente. La destinataria è la nipote di lui, Flavia, che all'inizio è una fantasiosa bambina di sei anni osservata nella sua malinconica vivacità. Con l'ultima missiva, è ormai una tredicenne di cui molto poco si sa: forse «una parte di me che si affaccia timidamente ai bordi della memoria di un corpo che invecchia», confessa Vera, la scrittrice dal visibile calco autobiografico. E l'autobiografia è un gesto saggiamente calcolato, la fiche giocata al tavolo della narrazione.
Le lettere annodano il filo del racconto che procede per rapidi spostamenti, come un diario formato di fluide schegge da combinare. Vi transitano ricordi d'infanzia, sensazioni di vita colte in corsa, vivaci ritratti familiari: una famiglia, quella di Edoardo il violinista, quasi tutta dedita alla musica, e la musica -le sensazioni che suscita, gli oggetti e le occasioni esecutive -è una potente linfa (anche sotterranea) in molti episodi di Dolce per sé. Al centro la storia tra Vera e Edoardo scrutata al microscopio in tutto il suo decorso, con pagine intense e luminose sull'amore-passione e sulla sua inevitabile conclusione, «un brutto giorno la corda di colpo cede, non regge più, neanche quella camiciola amorosa che avevi sempre steso ad asciugare lì sopra ed era leggera leggera». Vera si apre liberamente a Flavia spiegandole con affettuosa precisione moltissime cose che le stanno a cuore, dall'idea del ridere per Bergson e Pirandello alle sensazioni di fronte alle fotografie dove meglio si stampa il senso rovinoso del tempo, al suo ideale di uomo dolce e tenero. Le lettere mostrano un tratto di curiosità e di attenzione che aumenta con il crescere delle storie messe insieme come in una collana, a accanto all'altra. E musicalmente. confondono con il sentimento malinconico, talora quasi struggente di un’esistenza che, mentre accumula nuove esperienze, si confronta con sé stessa e i suoi ricordi, con il destino che poi s'imprime in un'orma più forte, indelebile: il profondissimo dolore di Vera per la morte della sorella. Il senso di quella perdita improvvisa è catturato e fatalmente assorbito dentro pagine di minuta rappresentazione e di misurato "ragionamento": «Tutti quei pensieri tumultuosi e quella fantasie leggere e quei desideri delicati e quei piccoli sentimenti quotidiani che distinguono la vita di una persona, dove sono andati a finire?».
Frantumi d'esistenza passano e ripassano, scivolano e si mescolano: si smaglia la rete degli eventi su cui piove una luce radiante, alla Donghi. La scrittura della Maraini è pausata, molecolare più che in altri libri. La precisione nei dettagli è regolata da una musicale ossessione fusa intorno al fulcro inattaccabile del dover scrivere come Destino. Sfidando la frana del tempo, il «vano desio del passato».

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Colomba
Milano, Rizzoli,2004[/align]
Dove è finita Colomba? Di lei non restano che una bicicletta abbandonata e i misteri di un bosco Abbruzzese



leggi brano.......Quando le chiedono come nasce un suo romanzo, la donna dai capelli corti risponde che tutto comincia con un personaggio che bussa alla sua porta. Lei apre. Il personaggio entra, si siede. Lei prepara un caffè; qualche volta ci saranno pure dei biscotti appena fatti o del pane e burro con un poco di sale spruzzato sopra, per chi preferisce il salato al dolce. Il personaggio berrà il caffè che gli viene offerto. Sgranocchierà un biscotto o due. Alcuni fra di loro timidamente dicono di preferire un tè a quell’ora del pomeriggio e vorrebbero assaggiare quella marmellata di albicocche per cui è conosciuta fra gli amici. L’autrice preparerà un tè che potrà essere alla menta, o al gelsomino, con il limone o col latte, secondo i gusti. Aprirà il barattolo della marmellata di albicocche e ci infilerà dentro un cucchiaio perché il visitatore si serva a suo piacere. Il personaggio sorbirà il tè, guardandosi intorno e poi racconterà la sua storia. Qualcuno pretenderà di accendersi una sigaretta. E la donna dai capelli corti, per non essere sgarbata con l’ospite, si limiterà ad allontanare la sedia o ad aprire un poco la finestra.
Dopo avere bevuto, mangiato e raccontato le sue vicende, il personaggio di solito saluta e se ne va. La donna dai capelli corti lo contempla mentre si dilegua, con una precoce nostalgia per la sua lontananza. Ma qualcosa non ha quagliato in quell’incontro e lei si limiterà a pensare: peccato, avrei potuto conoscerlo meglio! Non ne farà una malattia.


Se invece il personaggio in visita, finito di bere il suo tè, di mangiare il suo pane e burro e la sua marmellata di albicocche, la pregherà di poter restare ancora un poco; se, essendosi sgranchito le gambe camminando per la stanza, le chiederà un divano su cui distendersi; e se, avendo riposato una mezz’ora, pretenderà un bicchiere d’acqua fresca e poi riprenderà a narrarle i dettagli della sua storia; e se verso le nove di sera troverà naturale cenare al suo tavolo, e quindi, dopo avere diviso con lei un piatto di spaghetti all’olio e parmigiano, avere bevuto un bicchiere di vino rosso e avere sbucciato e rosicchiato una mela, le chiederà anche un letto per dormire, be’, vuol dire che quel personaggio si è accampato stabilmente nella casa della sua immaginazione e non intende andare via. La mattina dopo infatti reclamerà una tazza di latte e caffè, del pane spalmato di quella marmellata che piace tanto agli amici, forse perché non è troppo dolce e ha un sapore delicato di albicocche e ginepro. Continuerà a narrarle i particolari di una storia che diventerà man mano più complicata e dettagliata. A questo punto sarà chiaro che è venuto il momento di scrivere un nuovo romanzo.
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RACCONTI

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Mio marito
Milano, Bompiani 1968
Milano, Rizzoli 1999
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Prima raccolta di racconti di Dacia Maraini

leggi racconto......L'altra famiglia
Pietro e Paolo mi svegliano la mattina saltandomi sul petto. Apro gli occhi con un senso di soffocamento. Pietro mi sta seduto sulla pancia, a gambe larghe e va su e giù come se cavalcasse un asino; Paolo mi sta inginocchiato sulle gambe e ride.
«Mamma, e l'ora di alzarsi.»
«Che ore sono?»
«Le sei.»
«Posso dormire ancora un po'?»
«No, devi aiutarci a vestire e poi devi preparare la colazione. Alzati.»
«Ma che ore sono?»
«Le sette.»
«Che bugiardo. Mi dici un'ora per un'altra eh, per farmi alzare, che bugiardo! Lasciatemi dormire ancora un po'.»
«La mamma vuole dormire Pietro, levati di lì.»
Mi rivolto dall'altra parte e cerco di riaddormentarmi. Ma il silenzio dei miei due figli mi insospettisce. Infatti, giro la testa e li trovo intenti ad accendere un fuoco al centro della stanza, con delle carte e dei fiammiferi.
Mi alzo di corsa, li prendo a schiaffi, ritorno a letto. Ma ormai non riesco più a dormire. Rimango ancora qualche minuto distesa, le braccia incrociate dietro la testa, gli occhi socchiusi, cercando di abituarmi alla luce che entra dalla finestra spalancata, quindi mi alzo e comincio la giornata.
Vado in cucina a preparare la colazione per i bambini e per Giorgio. Alle otto siamo tutti seduti attorno alla tavola. Pietro cerca di convincere il fratello maggiore a giocare con lui: si riempie la bocca di latte e glielo spruzza addosso.
«Di' a tuo figlio di smetterla.»
«Smettila Pietro.»
«Anche Paolo lo fa.»
«Smettetela tutti e due.»
«Di' a tuo figlio di smetterla.»
«Gliel'ho detto.»
«Dagli uno schiaffo.»
Pietro scappa prima che faccia in tempo ad acciuffarlo. E quando mi avvicino, correndogli dietro, mi spruzza una boccata di latte caldo sulla faccia.
«Picchialo!»
«Perché non lo picchi tu?»
«Io sono contrario alla violenza, lo sai. Ma tuo figlio è un imbecille.»
«È anche tuo figlio.»
«È anche mio figlio, ma assomiglia a te. Paolo è più simile a me. Infatti, se non fosse per Pietro, sarebbe diverso, buonissimo.»
«Adesso uscite, che è tardi. Dove sono le vostre cartelle?»
«La mia cartella si è rotta.»
«Come, si è rotta! Dove l'hai messa?»
«L'ho buttata. Era tutta rotta.»
«Ma come hai fatto a rompere una cartella di legno?»
«Pietro ci ha giocato a palla.»
«Di' a tuo figlio che è un delinquente oltre che un imbecille», grida mio marito.
«È stato Paolo, te lo giuro.»
«No, sei stato tu.»
«E digli che è anche un bugiardo oltre che un delinquente. Ma dagli uno schiaffo no."
«Gliel'ho già dato.»
«Dagliene un altro.»
«Non posso passare la giornata a dare schiaffi a Pietro.»
«Io sono contro la violenza, ma con quel cretino, ci vuole.»
Io rincorro Pietro per la casa, Paolo e il padre stanno a guardare, le grosse ciotole di latte fra le mani, i capelli ravviati, gli occhi seri e imbambolati.
Infine riesco a mettere i due ragazzi nell'ascensore. Chiudo la porta e me ne torno in casa. Giorgio sta preparandosi per uscire anche lui.
«Quando vai a Milano?» mi chiede.
«Domani.»
«Questo tuo lavorare un po' qui e un po' a Milano mi fa venire i nervi.»
«Perché?»
«Perché non riesco ad abituarmi. Qualche volta penso: ecco oggi siamo soli, perché Elda è partita. Invece torno a casa e ti trovo che giochi coi bambini. Altre volte penso: ecco adesso torno a casa e racconto a Elda la barzelletta che mi ha soffiato nell'orecchio Strapparelli, a scuola. Ma quando apro la porta, sento puzza di bruciato e improvvisamente ricordo che tu sei partita e capisco nello stesso tempo che Pietro sta bruciando qualcosa, come al solito.»
«Il mio lavoro è questo. Cosa ci posso fare se mi costringe a fare la spola fra Milano e Roma?»
«Potresti trovarne un altro.»
«Non credo. Con questo lavoro guadagno bene. I tuoi soldi non bastano, lo sai.»
«Ma per lo meno dovresti fissare dei giorni precisi, in modo che io non mi sbagli continuamente.»
«Non posso. Dipende dal lavoro, non da me.»
«Qualche volta penso che tu abbia qualcuno a Milano che ti aspetta.»
«Chi vuoi che abbia?»
«Un altr'uomo.»
«Che sciocchezza!»
Giorgio sorride soddisfatto. Si china a baciarmi sulla guancia, si mette a posto la cravatta con due dita ed esce.
Io do qualche ordine alla donna di servizio per la colazione, poi mi chiudo nello studio a lavorare. Preparo le mie relazioni, studio i casi nuovi, scrivo. La mia testa è completamente vuota. Lavoro meccanicamente, quasi senza accorgermene.
All'una la porta viene spalancata violentemente. Pietro entra correndo e mi abbraccia e mi bacia incollandomi le labbra appiccicose di gelato sulla faccia.
«Com'è andata a scuola?»
«Bene. Non ci sono andato.»
«Come non ci sei andato. E Paolo?»
«Paolo è venuto con me. Siamo andati a giocare a pallone.»
«Cosa dovrei farti, dimmi?»
«Sono un imbecille, lo so. Ma papà dov'è? Non glielo dire, per favore.»
«Non glielo dico, ma ti do uno schiaffo lo stesso.»
«Quando parti per Milano mamma?»
«Domani.»
«Mi porti con te?»
«No.»
«Perché no?»
«Perché ho da fare, lo sai.»
«Ma io starei buono ad aspettarti in albergo. »
«Ho detto no e basta.»
A tavola, Pietro e Paolo mangiano avidamente, in silenzio, poi scappano a giocare sulla terrazza. Giorgio legge il giornale. Subito dopo ci stendiamo tutti e due sul letto per riposare.
Alle quattro Giorgio esce di nuovo. Pietro e Paolo vanno ai giardini con i loro amici. Verso le sette e mezza tornano per fare i compiti, ma e troppo tardi e poi sono stanchi. Dopo dieci minuti che sono seduti al tavolino, si addormentano sui libri. Passo la serata a fare i compiti per loro.
«Pietro sta corrompendo Paolo. Diventeranno due buoni a niente, due delinquenti. Sarà colpa tua. »
«Perché mia?»
«Perché non li educhi a dovere.»
«E tu?»
«Io ne ho già abbastanza di educare quaranta ragazzi a scuola. Quando torno a casa sono stanco. Sai che ti dico, abbiamo fatto male a fare dei figli; non siamo due persone adatte a una famiglia numerosa.
«Forse hai ragione. Avremmo dovuto stare noi due soli, e basta. Ma allora forse ci saremmo già separati.»
«Perché?»
«Perché la vita in due è molto noiosa. Ad un certo punto, non si sa più cosa dire.»
«Dici sempre delle cose sgradevoli. Perché non andiamo al cinema stasera?»
«Non ce la faccio. Sto morendo di sonno. Vacci tu.»
«No, senza di te, no.»
«Allora andiamo a letto."
La mattina dopo, sono svegliata alla solita ora da Pietro che mi sale a cavalcioni sul petto e mi salta su e giù come se fossi un somaro.
«Che ore sono?»
«Le cinque e mezza.»
«Tirami giù la valigia dall'armadio, Pietrino.»
«Lo fa Paolo. Io sono occupato adesso.»
«Scendi, mi fai male.»
«No. Un cavallo non può dire al cavaliere, scendi. Chiudi gli occhi e galoppa. Voglio andare a Milano. »
«Scendi, se no ti faccio cadere.»
Preparo la valigia, la cartella con la causa da discutere, la borsa, il cappotto ed esco. Pietro mi accompagna giù al taxi, Paolo rimane col padre e tutti e due si affacciano alla finestra per salutarmi.
In aereo dormo. È l'unico momento in cui mi sento del tutto a mio agio. Il rumore mi stordisce e il leggero movimento dell'apparecchio mi culla. Mi sveglio poco prima di atterrare. Apro gli occhi proprio mentre l'aereo sta passando dall'azzurro pulito e luminoso dei quattromila metri nella fascia di nebbie opache sparse di nuvole biancastre e lucide che copre la Lombardia.
All'aeroporto ormai mi conoscono: appena arrivo, entro nel bar, poso a terra la valigia, prendo un caffè, poi compro un gettone e telefono a casa.
«Sei tu Carlo?»
«Quando sei arrivata?»
«Adesso.»
«Fatto buon viaggio?»
«Buono si, ho dormito.»
«Vengo a prenderti.»
«Non c'è bisogno, ho qui un taxi pronto.»
Quando apro la porta di casa, trovo Gaspare e Melchiorre in piedi che mi aspettano. Sono ben vestiti, ben pettinati, ossequiosi e servizievoli.»
«Come state?»
«Gaspare ha avuto dei bei voti a scuola.»
«Anche Melchiorre ha avuto dei bei voti.»
«Il papà?»
«Sta bene. È uscito adesso per andare alla messa.»
«Che famiglia pia e ordinata che ho.»
«Vuoi mangiare qualcosa mamma?»
«No. Devo scappare in ufficio. Ci vediamo all'ora di colazione.»
Il lavoro che trovo accumulato nello studio di Milano è sempre più di quanto mi aspetto e finisco per tornare a casa tardi. Quando entro,trovo la tavola apparecchiata e i miei due figli e mio marito seduti ad aspettarmi.
«Non dovevate aspettarmi. Dovevate cominciare.»
«Volevamo mangiare con te.»
«Hai avuto molto da fare?»
«Molto si. Mi sento stanchissima.»
«L'aereo stanca.»
«Sì, l'aereo stanca.»
«Anche cambiare aria stanca.»
«Sì, anche cambiare aria stanca.»
«Anche alzarsi presto la mattina stanca.»
«Sì, anche alzarsi presto la mattina stanca.»
«Com'è andata a Roma?»
«Bene.»
«È una città* molto noiosa Roma.»
«Sì, è una città molto noiosa.»
«Ci sono tanti semafori inutili.»
«È vero, ci sono tanti semafori inutili.»
«E poi la gente non ha voglia di fare niente.»
«La gente non ha voglia di fare niente.»
«Siamo noi milanesi che manteniamo la penisola.»
«Quale penisola?»
«L'Italia no?»
«Ah, l'Italia.»
«Gaspare, Melchiorre, andate a fare i compiti.»
«Sí, papà. A più tardi mamma.»
«Stanno diventando due ipocriti.»
«Chi?»
«I tuoi due figli.»
«Sono anche tuoi.»
«Sono anche miei, ma assomigliano a te. Silenziosi e ipocriti. Fingono di essere bravi. Ma ne combinano di tutti i colori. Hanno già imparato a recitare la loro parte alla perfezione. Se ne fregano di me.»
«Cosa hanno di tanto terribile?»
«Sono finti, ti dico, finti e bugiardi.»
«Allora, hai finito il tuo libro?»
«No, tesoro. Ma sono a buon punto. Mi mancano solo otto capitoli.»
«Che storia è? Non me l'hai mai raccontata.»
«È a storia di un uomo che ha due vite.»
«Interessante. Ma perché non ti sbrighi a finirlo? È da molti anni che trascini avanti questo libro.
«Perché ci devo pensare sopra. D'altronde, più ci penso e più le cose si complicano. Tu credi che un uomo possa avere contemporaneamente, non dico due donne, ma due famiglie?»
«Credo di si.»
«Credi che sia morale?»
«No.»
«Beh, questo è il problema che mi interessa; come conciliare la morale con ciò che è più vitale e più profondo in noi, il sesso, il bisogno dell'indipendenza, il gusto dell'anormale.»
«Lo finirai entro l'anno?»
«Si, certo. Anche se lavoro poco, lavoro.»
«E chi te lo pubblicherà?»
«Non so. Un editore lo troverò, immagino. Ma è difficile, difficile.»
Nel pomeriggio porto al cinema i miei due figli, mentre mio marito resta a casa a lavorare. Quando torniamo. lo troviamo seduto nell'ingresso che gioca col gatto. Gli chiediamo se ha lavorato. Lui risponde di sì. Gaspare e Melchiorre sorridono increduli.
Alle otto e mezza andiamo a tavola. Io mi sento così stanca che non ho più fame. I ragazzi mi raccontano delle storie noiose. Poi ci sediamo tutti davanti alla televisione e fino alle undici non ci muoviamo. Io non riesco a seguire i programmi perché dormo a occhi aperti, le palpebre mi bruciano, ho le pupille fisse e cieche. Gaspare e Melchiorre mi svegliano ogni tanto con le loro risate stridule.
«Quando parti per Roma, mamma?"
«Giovedì.»
«Allora questa volta resti quattro giorni con noi.»
«Si quattro giorni.»
«Quando mi porti a Roma mamma?»
«Mai.»
«Io ci vorrei andare a Roma, per vedere se e proprio così brutta e sporca come dice il papà.»
Alle undici, i due ragazzi vanno a letto e nella stanza buia, rischiarata dallo schermo azzurrino della televisione, restiamo soli, Carlo ed io.
«Senti, dimmi se ti piace questo inizio.»
«Di che parli?»
«Del mio romanzo, tesoro.»
«Ah, sì. Come comincia?»
«Questo è l'inizio del decimo capitolo: In una ventosa e tiepida serata estiva in cui le foglie del leccio tremavano leggermente riempiendo l'aria di un fremito verde... ti piace?»
«Non è un po' troppo lunga questa frase?»
«Niente affatto. Stai a sentire: In una ventosa e tiepida serata estiva in cui le foglie del leccio che intravedevo dalla mia finestra, che sta in fondo alla mia stanza, tremavano leggermente
riempiendo l'aria di un fremito ardente... Credi che sia meglio ardente o verde?»
«Non lo so.»
«In una ventosa e tiepida serata estiva in cui... senti come suona bene; è un'onda che avanza lenta e potente, e tu la senti arrivare e aspetti che si rompa, aspetti e trattieni il fiato, non è cosí? »
«Come continua poi?»
«In una ventosa e tiepida serata... forse al posto di tiepida metterò calda, che ne dici? Dà più il senso dell'afa. Perché l'afa ci vuole. Intanto l'onda avanza. La senti arrivare. Eccola... in cui le foglie del leccio tremavano leggermente riempiendo l'aria intorno a me... ecco voglio aggiungere intorno a me, è meglio cosi, non ti pare? Dunque intorno a me, di un fremito, come ho detto poi?»
«Andiamo a letto?»
«Tu vai pure, io continuo a lavorare.»
«Cosa devi fare?»
«Devo trovare la frase giusta. t molto importante trovare la frase giusta.»
«Penso che non pubblicherai mai questo libro.»
«Perché?»
«Perché non hai voglia di farlo. Come ti è venuta in mente l'idea delle due vite?»
«Quando ero ragazzo ho amato una volta due donne contemporaneamente. Ma stavo cosi male. Mi sentivo in colpa.»
«E com'è finita?»
«Male. Non ci si può dividere a lungo. Si diventa malati.»
Il giorno dopo riprendo la solita vita milanese. Gaspare e Melchiorre vanno a scuola, io vado in ufficio, Carlo si chiude nello studio a scrivere il suo romanzo. All'una pranziamo insieme. Nel pomeriggio io torno a lavorare, Carlo gioca col gatto e i due ragazzi fanno i compiti. Qualche volta, verso le sette, andiamo al cinema, oppure passiamo la serata davanti alla televisione.
Alcuni giorni dopo io preparo le valige, riempio la cartella di cause da studiare, di lettere, di conti, e me ne torno a Roma. Carlo mi accompagna all'aeroporto.
«Ciao. Cerca di finire il tuo romanzo.»
«Ci lavoro molto, lo sai. Entro l'anno, conto di finirlo. Dopo sarò io a mantenere te. Ti farò fare la signora.»
Appena arrivata a Roma, compro un gettone, mi dirigo verso il telefono più vicino e chiamo casa.
«Sei tu mamma?»
«Sono arrivata adesso.»
«Sai che Pietro ha dato fuoco allo studio di papa.»
«E lui che gli ha fatto?»
«Niente. Aspetta che tu torni per punirlo. Ha detto che vuole che tu lo frusti con la cintura del tuo vestito.»

Dacia Maraini - Da "Mio marito"
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