ROMANZO WICCA:L'Oro delle streghe

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birillino8
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Messaggio da birillino8 »

Teobaldo Spadalunga, tale è il nome del cavaliere, rimane qualche giorno tra i frati di Sant'Elena a curarsi un paio di costole rotte e un'ampia ferita al cuoio capelluto. Io avrei dovuto proseguire per la costa orientale dell'isola, per dimenticare Rézia avevo in mente di tuffarmi nei molli piaceri di Famagosta, città celebre per la prosperità e per i suoi vizi, ma per il momento rimando e resto con lui al monastero.

Il terzo giorno già cammina spedito entro le solide mura del monastero mentre percorre avanti e indietro il giardino. All'ombra delle palme e tra le siepi, Teobaldo da sfogo ai sentimenti mentre l'incenso delle funzioni si mescola al profumo di fiori. Piuttosto che finire a Cipro ad ammazzarsi fra Cristiani, si rammarica sarebbe stato più onorevole finire prigionieri del sultano d'Egitto, insieme a quel santo re di Francia. Mi racconta che un paio di anni fa Luigi IX aveva svernato a Cipro prima di dirigersi in Egitto. Quel re cavaliere, alto e biondo, consumato dalle pratiche ascetiche, era un principe assetato di carità e innamorato della pace. Ma per colpa di Innocenzo IV i compagni di Teobaldo non poterono unirsi alla crociata: il papa aveva proibito a tutti gli uomini dell'Imperatore di parteciparvi attivamente. Così restarono a presidiare l'isola, fedeli ad un impegno preso con Federico II.

Mediante l'espressione sconsolata del volto e dei gesti, Teobaldo cerca di farmi capire quanto fu grande la sua personale frustrazione allorché, appena un anno fa, venne a sapere della disfatta del delta del Nilo e della cattura di Luigi IX. Con atteggiamento di circostanza mostro comprensione per i suoi sentimenti e tuttavia gli faccio presente come non sia il caso di rammaricarsi per la mancata partecipazione alla crociata, visto che i superstiti giunti stremati a S. Giovanni d'Acri furono poche migliaia. Il sultano aveva sì liberato il re grazie ad un ingente riscatto di bisanti, ma aveva riservato ben altra sorte ai cavalieri catturati, li aveva fatti uccidere al ritmo di trecento per sera.

Egli replica:

«I mussulmani sono ormai a ridosso di Bisanzio, la Chiesa deve arginare con tutti i mezzi il vertiginoso avanzare dell'Islam e deve riconquistare la fiducia dei giovani se non vuole la fine di ogni crociata, n'est-ce pas?»

«Ma perché la vedi così tragica, è passato solo un anno dalla crociata di Luigi IX e poi il regno di Gerusalemme è ancora saldo».

«Sì, d'accordo, ma l'ideale delle crociate sta perdendo terreno fra i giovani, non esistono più i novelli cavalieri che partivano pieni di entusiasmo da Ratisbona, come ai tempi del Barbarossa. Chissà cosa è cambiato?»

«I giovani colgono nelle crociate il peso di un bilancio negativo, fatto di risultati mediocri. Quale buon frutto abbiamo raccolto dalle crociate in Terra Santa, a parte le albicocche?».

«C'è poco da scherzare, se l'Occidente non si fosse mobilitato compatto ora io e te parleremmo in arabo. Non capisci? Islam e Cristianesimo sono dei colossi che si fronteggiano in una lotta all'ultimo sangue, ciascuno dei due mira ad un controllo esclusivo sull'intero Mediterraneo. A gran fatica la cristianità è riuscita a riconquistare la Spagna e la Sicilia, e solo con enormi sacrifici ha strappato ai mussulmani il Regno di Gerusalemme, ma ora il nostro momento favorevole sembra dileguarsi».

«La Cristianità ha perso la sua occasione d'oro quando si è affacciato sul Mediterraneo il terzo grande colosso».

«Quale colosso, s'il vous plait?»

«L'Impero mongolo. Purtroppo le tribù dei mongoli idolatri hanno sconfitto quelle convertite al Cristianesimo e la Chiesa ha perso il suo alleato decisivo, il solo che avrebbe potuto indebolire e annientare il potere mussulmano in tutta l'Asia. Cinquant'anni fa a nord del deserto del Gobi, Gengis Khan sgominò le tribù del Prete Gianni e così s'infranse il sogno di un imperatore mongolo che in nome di Cristo avrebbe potuto lanciare la moltitudine delle sue genti contro i mussulmani».

«E tu credi che il capo delle barbare genti di Gog e Magog si sarebbe mosso in nome di Cristo?».

Gli spiego dettagliatamente che il Prete Gianni era un cristiano nestoriano e come re delle tribù della Mongolia centrale aveva iniziato un approccio amichevole con l'Occidente. Aveva spedito a Federico II una lettera e insieme una pietra che valeva, a suo dire, più di tutto il sacro romano impero. Nella lettera, per sondare la saggezza dell'Imperatore cristiano gli aveva chiesto quale fosse la cosa migliore del mondo e Federico II aveva risposto che la cosa migliore era la giusta misura, risposta saggia e bene accetta.

Tuttavia l'Imperatore trascurò di porre domande intorno alla natura e alle virtù della preziosissima pietra, sicché il Prete Gianni ne fu risentito e temendo che la pietra perdesse ogni virtù provvide a farla ritirare. I magici poteri della pietra consentivano di vivere sott'acqua e di rendersi invulnerabili o invisibili, e avrebbero permesso a Federico II di far resuscitare la leggendaria Aquila nera dipinta sulle sue insegne.

Teobaldo si avvia pensoso verso il chiostro e inizia a passeggiare all'ombra degli archi acuti del porticato:

«Sono un reduce della crociata di Federico II» spiega.

«Quando sei partito?»

«Nel 1228».

«Ti confesso che non ho mai ben capito i termini della diatriba tra il papa e Federico II circa la questione della crociata, perché mai l'Imperatore è stato scomunicato se ha portato a termine con successo la sua crociata? Immagino tu ne sappia qualcosa».

«Gregorio IX, papa fin troppo vigoroso nella parola e nell'azione, pretendeva dall'Imperatore una totale sottomissione e cercava ogni possibile pretesto per dimostrare al mondo che Federico II agiva contro gli interessi della Fede.

Ricordo il settembre del 1227, quando con gli animi accesi eravamo tutti ammassati a Brindisi, insieme ai cavalieri tedeschi, ai mercenari e ai pellegrini, tutti pronti a salpare. Esplose un'epidemia di colera e l'Imperatore, sebbene febbricitante, diede ugualmente l'ordine di partenza ai superstiti. Dopo un breve tragitto in mare, la malattia di Federico II purtroppo si aggravò e costrinse la flotta a ripiegare. Gregorio IX prese la palla al balzo, disse che l'Imperatore non era stato ai patti e lo scomunicò, tutto questo nonostante la spedizione non fosse stata annullata ma semplicemente rinviata alla guarigione di Federico II.

L'anno successivo la crociata poté finalmente ripartire con sessanta navi fra galee e vascelli d'appoggio. La flotta costeggiò le isole Ionie, Creta, Rodi, l'Asia Minore e fece tappa a Cipro. A suo tempo, colui che aveva assegnato il regno di Cipro a Guido di Lusignano fu il padre di Federico II, perciò Federico II sbarcò a Limassol a pretendere i suoi diritti di vassallaggio».

«Sì, ne ho sentito parlare».

«Io fui tra quelli che ricevettero l'ordine di entrare ad armi sguainate al banchetto degli Ibelin».

«Nel salone del castello di Kolossi» aggiungo e mi par di vedere la scena.

«Le musiche si interruppero bruscamente e dai tavoli riccamente imbanditi si alzarono di scatto i presenti, quel giorno avevano deposto gli abiti neri per il lutto del re Filippo di Francia e si erano vestiti di scarlatto per festeggiare l'Imperatore. Federico II tuonò il suo duro ammonimento davanti ai ciprioti sbalorditi:

«Sir Giovanni di Ibelin vi chiedo in spirito d'amicizia che mi rimettiate tutti i redditi che avete ricevuto come reggente di Cipro e tutto ciò che i diritti reali hanno dimostrato essere di valore e hanno procurato sin dalla morte di re Ugo, padre di Enrico, e cioè i redditi di dieci anni giacché questo è il mio privilegio secondo l'usanza dell'Impero».

«Che arroganza».

«Da Cipro mi sono imbarcato con l'Imperatore alla volta della Terra Santa. Ero ansioso di combattere duramente, di faticare e di soffrire, volevo dimenticare l’infelicità della mia vita nel sudore della battaglia. Invece...».

«Invece?»

«Dovetti assistere alle manovre tutte diplomatiche di Federico II».

Teobaldo mi spiega che l'Imperatore aveva stretto legami di alleanza con al-Kamil, il sultano egiziano preoccupato dalle mire espansionistiche di suo fratello al-Mu'azzam, l'allora governatore di Damasco e alleato dei Turchi.

Chiedo se la crociata ha puntato dritto su Gerusalemme.

No, risponde che approdò a Tiro. L'Imperatore fu accolto dai cavalieri Templari che si prostrarono in terra ad abbracciargli le gambe. Dovevano comunicargli una importante notizia.

Strizzo l'occhiolino e insinuo che si sa pur com'è, fra eretici se la intendono... I Templari pare siano adoratori del demonio, si dice che in segreto adorino Baphomet, una creatura che ha testa e zampe da caprone, braccia e seni di donna, fianchi coperti di scaglie e ali da pipistrello.

Teobaldo obbietta che sono soltanto dicerie.

Insisto, gli rendo noto che quei sodomiti usano leccarsi l'ano davanti al loro idolo!

Nega risentito, afferma che nessuno ne ha le prove e mi ordina di smetterla con queste calunnie. Fa dietro - front nel corridoio del chiostro quindi riprende a narrare dei Templari, intenti a riferire all'imperatore la notizia dalla morte del governatore di Damasco, nemico e fratello del sultano egiziano al-Kamil. L'inatteso evento modificò gli accordi dell'alleanza, nel senso che al-Kamil avrebbe colto l'occasione al volo per dirigersi alla conquista del nodo commerciale e militare di Damasco, mentre l'Imperatore in cambio della non belligeranza avrebbe ottenuto Gerusalemme, città di per sé in preda al più misero abbandono ma culla del Cristianesimo.

«Con la firma di un trattato, senza un sol colpo di spada, l'Imperatore ottenne l'obiettivo della sua crociata» conclude.

«Però non gli fu tolta la scomunica».

«L'Imperatore non se ne fece scrupolo, benché interdetto dalla scomunica entrò nella basilica del Santo Sepolcro e si mise sul capo la corona del Regno di Gerusalemme».

«Beh, il popolo come l'ha presa?».

«Male. In realtà la volontà di imporre ovunque il suo impero universale aveva scontentato i Franchi d'Oltremare e quando Federico II si imbarcò ad Acri, la folla inferocita lo riconobbe e lo bersagliò con il tiro di budella e frattaglie raccolte da un vicino macello».

«Che bella figura. Fortuna sua che almeno i crociati gli erano rimasti fedeli».

«Non tutti, per la verità alcuni se li era inimicati, soprattutto i crociati Ospitalieri, estromessi a causa dell'opposizione che avevano più volte manifestato nei suoi confronti. Ne beneficiarono i suoi fedelissimi, i cavalieri Teutonici cui assegnò tutte le terre conquistate».

Dal chiostro entriamo in una sala interna stipata di banchi, i monaci vi tengono esposta la loro collezione di minerali. Teobaldo li guarda distrattamente, senza interesse. Io invece ne sono affascinato, mi soffermo attento sui cubetti frastagliati di un campione di rame, vi noto le incrostazioni verdi che ne hanno tolto la lucentezza, poi osservo dei cristalli a forma di piramide, si tratta di zolfo, mi attrae il suo colore giallo limone, come pure il giallo metallico e iridescente della pirite. I monaci hanno scritto il nome vicino a ciascun pezzo: Gesso, il cristallo chiaro e trasparente geminato a coda di rondine; Salgemma, il cubo perfetto e incolore; Terra d'Ombra e tanti altri.

«Che ne è del tuo Ordine?» chiedo a Teobaldo sollevando il capo dalla collezione.

«Non faccio parte di un Ordine cavalleresco formalmente riconosciuto, diciamo che un gruppo di cavalieri stava coagulando le proprie energie in attesa di distinguersi in Terra Santa e venire accettato come Ordine vero e proprio. Però al seguito di una crociata diplomatica come quella di Federico II non ne abbiamo avuto l’opportunità ed in pratica siamo rimasti nel novero delle truppe irregolari... crociati senza nome».

«E la rosa sullo scudo?».

Teobaldo non risponde, da un colpo di tosse e appoggia la mano sul torace dolente. Riprende cambiando discorso:

«Il nostro Gran Maestro riuscì tuttavia a strappare una promessa a Federico II. L'Imperatore avrebbe riconosciuto ufficialmente l'Ordine se avessimo riconquistato Cipro, poiché subito dopo la sua partenza e nonostante la pace da lui imposta, gli Ibelin avevano ripreso le armi contro i rivali. Il Granmaestro dovette perciò unirsi al forte contingente di cavalieri che fece vela per Cipro sotto il comando di Etienne de Botron».

«Così vi siete cacciati nei guai».

«All'inizio avemmo successo e finalmente riuscimmo a distinguerci per valore. La spedizione piegò le resistenze degli Ibelin che questa volta furono costretti a consegnare tutte le fortezze e ad andarsene».

«Per lasciare il posto alla fazione di Amalrico Barlais?».

«Esatto, egli acquistò dall'Imperatore la reggenza dell'isola».

«Per quanti soldi?».

«Diecimila marchi. Sì, ma non durò a lungo. Appena sembravano calmate le acque non tardò a calare funesta la vendetta degli Ibelin che tornarono sull'isola a rinnovare la faida degli orrori e delle uccisioni. Col tempo purtroppo le cose volsero a loro favore e oggi gli Ibelin hanno il pieno controllo dell'isola.

Come vedi sono finito impastoiato fino all'ultimo in questa faida, il tutto per ottemperare al voto di obbedienza prestato al Granmaestro. Costui, cieco di fronte all'imminenza della sconfitta definitiva, fidava ancora nel miraggio della fondazione del suo ordine e ha continuato imperterrito a mandarci al massacro contro le forze soverchianti degli Ospitalieri. E' stato un sacrificio inutile ma non potevo tirarmi indietro, gli amici e i nemici m'avrebbero avuto per un vile.

Ora tutto è perduto, la vendetta degli Ibelin è compiuta. E pensare che avevo lasciato la Francia per liberare la Terra Santa dai mussulmani».

Mentre usciamo dalla stanza un drappello di frati francescani attraversa frettolosamente il chiostro, ma egli non sembra vederli, è assorto, sta viaggiando lontano col pensiero, oltre le mura del convento. La sua chioma ricciuta riceve ora la luce del giorno e la bocca socchiusa è al solito accesa come un rubino.

Gli poso una mano sulla spalla come per distoglierlo dai suoi tristi pensieri:

«Credimi, la guerra è pur sempre un male e non soltanto quando è fra cristiani. Tuttavia rispetto la nobiltà dei tuoi propositi, so che per te il fine ultimo è la liberazione dei luoghi santi e mi spiace ti abbiano allontanato dalla Palestina per sostenere le faide dei signorotti di Cipro».

Con gli occhi lucidi mi rivela cosa gli passava per la mente:

«Gerusalemme, sguarnita e abbandonata è caduta nelle mani dei Turchi. Dopo un mese di assedio i Turchi avevano promesso libera ritirata ai Cristiani e seimila fra uomini donne e bambini fuggirono da Gerusalemme diretti alla costa. Ma quando, di lontano, si volsero per l'ultimo estremo saluto alla città celeste, sorpresi videro sventolare sulle torri le bandiere franche. Precipitosamente fecero marcia indietro, convinti che fossero giunti rinforzi all'ultimo momento. Fu un fatale errore. Sotto le mura li attendeva un agguato mortale, furono massacrati a migliaia ed i rimanenti fatti schiavi.

Non c'era nessun crociato a difendere quegli innocenti, sarebbe stato mio dovere proteggere quelle donne e quei bambini e invece... ancor'oggi quell'eccidio pesa sulla mia coscienza».


* * *


Teobaldo afferra una scala di legno appoggiata al muro e sale agilmente sopra il tetto del chiostro. Lo seguo e ci ritroviamo in cima a un terrazzo popolato da un gran numero di gatti, oltre una decina di grossi esemplari che accolgono con sorniona indifferenza la nostra intrusione, soltanto i più vicini a noi prendono con calma le debite distanze allontanandosi a coda dritta verso l'alto.

Fissiamo muti la distesa dell'orizzonte: una stretta striscia di terra arida separa dal mare il lago salato, e poco profondo, che occupa quasi interamente la penisola in cui si trova il monastero. Appena sotto di noi tra le canne, nuotano folti gruppi di anatre selvatiche, i beccaccini saggiano il fango con il lungo becco e l'airone cenerino se ne sta immobile all'aspetto della preda. Sulla riva opposta, presso l'arco di costa rocciosa che si inoltra nel mare, superbi falchi dalle ali lunghe e snelle cacciano controvento schierati in formazioni collettive. Sono noti come i falchi della regina Eleonora.

Allorché ci sediamo sul bordo del terrazzo con le gambe sospese penzoloni dalle mura, prendo la parola in tono sommesso. Mi sforzo di fargli intendere come troppo spesso le aspirazioni dei crociati siano state pervertite e allontanate di proposito dai loro nobili obiettivi. Quante volte sono state esse strumentalizzate a causa di ambizioni di parte, mi chiedo, quanti i compromessi fomentati dai potenti, da uomini attratti unicamente dal possesso di nuovi feudi e ricchezze. Gli porto un chiaro esempio di spedizione travestita da crociata: la quarta crociata del 1202.

Nel corso di questa il governo veneziano riuscì a distogliere i crociati dalla Palestina e dall’Oltremare e lo fece al fine di consolidare la sua affermazione politica ed economica in Romania, per ottenere un incontrastato predominio su tutto il Mediterraneo orientale.

Il doge Enrico Dandolo aveva costruito in cambio di 85000 marchi d'argento la potente flotta che avrebbe dovuto trasportare i crociati in Terra Santa. Dicono che fu uno spettacolo stupefacente la visione di quelle duecento navi nel porto di Venezia, cariche d'armi e di bei cavalli da guerra, con gli scudi vermigli disposti intorno ai parapetti e gli stendardi multicolori spiegati al vento, mentre i cavalieri intonavano estasiati:

«Veni creator spiritus,

mentes tuorum visita,

imple superna gratia,

quae tu creasti pectora».

Però gli animi si raffreddarono subito quando si trattò di fare i conti con i veneziani, perché mancavano ancora 34000 marchi d'argento, nonostante il comandante dei crociati Bonifacio di Monferrato avesse radunato il denaro dai diecimila presenti e nonostante i nobili avessero consegnato perfino il vasellame d'oro e d'argento. In effetti nelle galere e nelle navi da trasporto era stato previsto posto per il triplo degli uomini presenti, mancavano in molti all'appello, rimasti a casa o imbarcati altrove per proprio conto.

I Veneziani erano adusi a leggere il vangelo secondo i propri interessi e sfruttarono quel credito per ricattare i crociati, per sviarli dalla Terra Santa e dirigerli su mete foriere di lucrosi saccheggi, atti a saldare il debito fino all'ultimo marco.

«Il saccheggio di Zara, dal vangelo secondo marco d'argent» commenta Teobaldo.

Vedo che hai capito l'antifona, rispondo. I soldati di Cristo furono trasformati in mercenari di Venezia e nonostante il malcontento generale ci fu quella prima diversione verso la città di Zara, ribelle al dominio di Venezia e aspirante a divenire sua rivale. Caduta la città e ripulita meticolosamente di ogni oggetto di valore, fu concordata una seconda diversione dalla meta originaria, questa volta niente meno che verso lo sfolgorante miraggio di Bisanzio.

Teobaldo si rialza in piedi e lancia un sasso contro il gatto più grasso della compagnia provocando un fuggi fuggi generale dei nostri vicini:

«Bisanzio, la superba Bisanzio. L'incantatrice che avvelena la Cristianità con il lusso e la mollezza. Quella città scismatica era cristiana solamente di nome, il suo imperatore Alessio III era un usurpatore e un ipocrita, sospetto di patti segreti con il Saladino!»

Tutte buone scuse, ribatto. Comunque Bonifacio di Monferrato mosse da terra il primo attacco alla città e fu respinto dai mercenari danesi ed inglesi della guardia varega.

Mercenari contro crociati! esclama lui concitato e sentenzia che quando un impero deve ricorrere ai mercenari vuol dire che è giunto sulla soglia dello sfacelo.

Riprendo con ordine la mia narrazione a partire dai veneziani, rimasti sulle navi e decisi semmai a penetrare dall'estuario che fiancheggiava a nord la città, il Corno d'Oro. Spezzata la grossa catena che ne bloccava l'ingresso essi sbaragliarono presto la flotta bizantina ridotta a poche navi dai legni marci e tarlati, conquistarono diverse torri e incendiarono le case vicine. Il primo uomo a sbarcare fu lo stesso Enrico Dandolo, benché ultra ottantenne e cieco. Il doge stava ritto e armato a prua della sua galera, aveva in mano lo stendardo di San Marco in oro su fondo rosso (quel rosso ocra che traeva colore e origine dalla terra di Sinope) e appena la galera cozzò la banchina, il Doge ordinò a gran voce ai marinai di condurlo subito a terra o altrimenti li avrebbe puniti a dovere.

Teobaldo Spadalunga è attento alla mia descrizione, si sta entusiasmando a sentir parlare di battaglie.

Spiego come dopo un mese si giunse all'assalto decisivo e come i crociati si valsero egregiamente delle macchine da guerra costruite dai veneziani, mangani per il tiro a distanza, trabocchi che lanciavano proiettili al di sopra delle mura, baliste e catapulte, oltre i comuni arieti, le scale e i martinetti. Tra tutti i mezzi d'assedio il più efficace era una piattaforma da combattimento sistemata sugli alberi maestri delle navi, da essa i crociati scendevano mediante scalette di corda e piombavano dall'alto sui nemici appostati nelle mura.

Gli assediati rispondevano agli attacchi con archi e balestre, e lanciavano i proiettili incendiari del cosiddetto fuoco greco, che costringeva i veneziani a coprire in fretta le loro navi con panni inzuppati d'acqua. Una notte poi i greci cercarono di incendiare la flotta nemica sorprendendola nel sonno con dei battelli in fiamme, ma i marinai veneziani furono lesti ad uncinarli e li trascinarono via in zona non pericolosa.

Giorni di duri combattimenti si susseguirono a ritmo serrato finché fu conquistata una torre e vennero avvolte delle funi ai suoi merli, dalle funi altri salirono sulla torre, caddero le torri vicine e infine cadde la città.

«Devo continuare?» chiedo.

«Avanti» mi esorta Teobaldo.

Mi tratteneva il timore di offendere i suoi sentimenti di crociato. Avrei voluto moderare i termini della descrizione, non infierire con particolari raccapriccianti, evitare implicite condanne, usare i toni pacati del sereno distacco che raffredda le passioni legate ad avvenimenti ormai lontani nel tempo ed invece... non riesco a non farmi trascinare dalla cruda violenza delle immagini.

Comincio cautamente col domandargli se ha un'idea di quanto abbagliante fosse lo sfarzo di Bisanzio, la fiera magnificenza dei suoi monumenti, l'aristocratica bellezza dei suoi palazzi, la ricca moltitudine dei negozi e dei magazzini esorbitanti di mercanzie. Non esisteva al mondo città più nobile e raffinata, non un polo di attrazione più fulgido.

Ebbene, i Vandali a confronto dei cristianissimi crociati avrebbero fatto meno danno. Per tre giorni la popolazione fu martoriata da rapine e violenze di ogni genere, migliaia di cittadini vennero uccisi senza motivo e ai più irriducibili vennero ficcati i rospi in gola, una morte orribile. I crociati assalivano i conventi, rincorrevano le monache per i corridoi, stappavano loro le vesti e le violentavano a turno.

La Basilica di Santa Sofia fu spogliata di tutto ciò che si poteva asportare ed il resto fu ridotto a brandelli. I crociati giocavano a dadi sugli altari, bevevano ubriachi dai sacri calici e le prostitute ballavano in chiesa e una di loro cantava canzoni oscene, assisa sul trono del patriarca. Alcuni crociati avevano fatto entrare i muli nella basilica perché volevano caricare l'argento cesellato e l'oro divelto alle decorazioni, ma gli animali erano caduti sul pavimento scivoloso e non riuscivano a rialzarsi, così li avevano trafitti con la spada e avevano insozzato di sangue il luogo sacro.

I sacerdoti venivano sistematicamente minacciati di morte se si rifiutavano di consegnare le reliquie, gli oggetti in assoluto più ricercati e ben valutati. I crociati facevano a gara per impadronirsi del braccio o della mascella di un santo, chi andava fiero del piede di San Cosma, chi ostentava un dente di San Lorenzo, chi la veste della Madonna o una goccia del sangue di Cristo. In compenso, per tre volte fu appiccato il fuoco alla città e furono distrutti irreparabilmente testi unici e preziosissimi, conservati nelle famose biblioteche di Bisanzio.

Certo, a conclusione i veneziani ottennero il saldo del loro debito e intascarono la somma di denaro convenuta e anzi, pretesero in aggiunta la metà dell'ingente bottino accumulato. Detto per inciso, le sculture dei quattro cavalli bronzei che troneggiano sulla facciata della Basilica di S. Marco sono lì a rammentare le prede di guerra di allora.


* * *


Sei giri concentrici di petali, rosa rossa in campo bianco: una mattina riporto a Teobaldo il suo scudo, l'ho recuperato nel luogo dell'impiccagione.

Il cavaliere è da solo nella cella che i frati gli hanno assegnato in foresteria. E' seduto sull'unico mobile presente, un letto sbilenco. I frati gli hanno accordato il lusso del letto poiché col dormire in terra sul pagliericcio i suoi dolori al torace si acuivano. A mo' di barella, quattro piccole ruote sono incastrate sulle gambe del letto, il che lo rende trasportabile ovunque ce ne sia bisogno.

Appoggio lo scudo sul pavimento di marmo e distolgo il cavaliere dai tormentosi pensieri in cui come suo solito è immerso:

«Ecco il tuo scudo, è intatto».

«Oh grazie, mon cher».

«Non lasciartelo più sfuggire».

Mi fissa guardingo:

«C'è stato un terremoto, questa notte?».

«Pare di no, io non mi sono accorto di nulla».

«Un prodigio allora?».

«Perché mai?».

«Nel pieno della notte mi sono svegliato di soprassalto, il letto tremava e le ruote cigolavano e si muovevano avanti e indietro, scivolavano nel marmo come fosse vetro e andavano a sbattere contro la parete, e avanti e indietro sempre più rapide. Rischiavo di cadere sul marmo o di sfracellarmi contro la parete, facevo di tutto per rimanere incollato al letto, ho dovuto fare degli sforzi sovrumani per non venirne sbalzato fuori. Ero tutto coperto di sudori freddi. Ho sentito un rimbombo, un ruggito tremendo, come se la terra si scuotesse e si aprisse sotto di me, poi improvvisamente è tornata la calma... e mi sono riaddormentato».

«No, non c'è stato nessun terremoto, te lo sei semplicemente sognato, sei ancora stordito per la gran botta che hai preso in testa».

Osservo Teobaldo nella nuda cella. E' vestito con un rozzo saio del convento. Ci scherzo sopra:

«Hai forse intenzione di farti frate?».

«In pratica, è come se lo fossi».

«Raccontami qualcosa di te. Non mi parli mai della tua vita privata» e mi siedo sul pavimento ad ascoltarlo.

«Ereditai il diritto al cavalierato da una nobile famiglia di Vannes, in Bretagna. Ho quarantun anni e sono il maggiore tra due fratelli, ma come cavaliere feci voto di povertà rinunciando al feudo della famiglia in favore del fratello minore. Partii da casa a diciotto anni e andai errando per la Francia. Alcuni mesi dopo ero già in procinto di partire per la crociata, che come si sa è viaggio oltremodo lungo e incerto, per cui volli prima salutare la mia famiglia. Cavalcai giorno e notte, attraversai il Ducato di Aquitania, superai a Nantes le acque della Loira e giunsi stremato in Bretagna.

Avevo avvistato i dolmen e i menhir, finalmente ero nelle vicinanze di Vannes. Arrivai davanti al cancello di casa mia, ma con sorpresa lo trovai sbarrato, il passaggio era bloccato da quattro guardie armate e minacciose. Feci loro presente che ero il fratello maggiore ma queste non vollero sentir ragioni, avevano ricevuto ordine perentorio di non lasciarmi passare, mio fratello temeva che fossi tornato a rivendicare i possedimenti della famiglia. Quel pomeriggio mi sarei accontentato di un letto per riposarmi dall'estrema stanchezza, mi sarebbe bastato un po' di zuppa per rifocillarmi e invece mi avevano sbattuto la porta in faccia.

Amareggiato, girai il mio cavallo e me ne tornai via. C'era la bassa marea, le spiagge avevano acquistato una smisurata profondità e si erano ricoperte di alghe scure. Il granito rosa delle scogliere mutava colore al tramonto e sulle rocce si stampavano ombre viola, grigio perla e blu notte; calato il sole, forme inquietanti s'impossessarono dei profili creati dall'erosione, vedevo le silhouette di enormi diavoli e streghe, di mostri e draghi spaventosi.

Dov'erano finite le amate scogliere della mia fanciullezza, avevo forse vissuto in sogno la mia vita? Improvvisamente il mio paese, la mia gente, la famiglia in cui ero cresciuto, tutto mi appariva estraneo e mi faceva sentire un intruso».

Come mai - rimugino fra me - un uomo ricco, affascinante e coraggioso come lui, ha voluto abbandonare ogni cosa per una vita di privazioni?

«Dimmi Teobaldo, se ti è lecito farmene confidenza, cosa ti ha spinto ad abbracciare la cavalleria crociata?»

«Un amore infelice per una ragazza della Bretagna. Si chiamava Aretusa. La vidi per la prima volta mentre assisteva al nostro torneo. Eravamo quindici contro quindici in una finta battaglia senza spargimento di sangue, la mia squadra ottenne la resa degli avversari e li catturammo tutti, io mi ero messo particolarmente in mostra e alla fine del torneo andai al palco della fanciulla per renderle omaggio. Lei mi sorrise e mi gettò in pegno il suo fazzoletto carminio. Da allora presi i suoi colori e mi vestii sempre di rosso.

Suo padre però non accettò mai la mia corte. Fu irremovibile, aveva già deciso di darla in sposa ad un altro, un certo Odoardo».

«Ma lei lo amava?».

«No, Aretusa non lo amava affatto e si rifiutò di obbedire al padre, che per castigo la recluse nel palazzo».

«Perché la ragazza non ha fatto ricorso al tribunale ecclesiastico?».

«In Francia i preti non difendono le donne che denunciano nozze forzate, il consenso all'unione è diritto primario dei genitori».

«Potevi rapirla».

«Ci ho provato... una volta, ma il tentativo è fallito. Credimi, ho fatto di tutto per impedire che quel matrimonio andasse in porto. Ho perfino sfidato Odoardo ad una giostra, volevo incontrarlo a cavallo in duello armato, l'avrei disarcionato e combattuto a terra, vinto al giudizio dei punti e umiliato davanti agli occhi di Aretusa, ma quel vile ha rifiutato di misurarsi. In preda al più cupo sconforto, ho deciso di andarmene lontano dalla Bretagna e di prendere i voti cavallereschi; voto di castità compreso, pure quello, tanto non potevo avere in mente altra donna all'infuori di lei».

«Davvero la gente si sbaglia quando dice che i Bretoni sono incostanti e volubili».

«Ora vivo di ricordi, dei dolcissimi momenti trascorsi con lei alla fonte... L'acqua sgorgava da sotto le rocce ricoperte di muschio e, ben nascosta dalla fitta vegetazione, ella si bagnava nuda con me in mezzo al galleggiare delle ninfee. Avrei voluto mutare me stesso in acqua e avvolgere per intero ogni centimetro della sua pelle, toccare nello stesso istante davanti dietro e a lato ogni rotondità del suo corpo, lambire ogni piega dei suoi arti, agitare come alghe i suoi capelli e inumidire come muschio il suo pube. Che bello! Essere fresca limpida corrente che accarezza l'intimo delle sue cosce e dolcemente culla il suo peso su invisibili braccia d'acqua che appena increspano la superficie.

Invece per mala sorte, un demone invidioso si è impossessato di quelle acque, l'ha terrorizzata chiamandola ripetutamente per nome, l'ha risucchiata e inghiottita nel vortice di un gorgo senza ritorno. Irrimediabilmente preclusa ai miei sensi, ella espia la mia inabile virtù. Mai più le mie mani potranno raggiungerla, le acque di quella fonte sono sprofondate tumultuosamente nell’oscurità della terra e si sono immerse in caverne insondabili e inarrivabili.

Oh mia Aretusa, fonte proibita che sei dolce nel momento d'amore e amara nel ricordo».
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birillino8
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Messaggio da birillino8 »

Oggi è l'ultimo giorno. La nostra permanenza tra i frati è al termine. Nella spoglia chiesetta del monastero, Teobaldo fissa nel vuoto con i suoi occhi cinerei, sembra che sogni il sogno di un orizzonte illimitato. Mi inginocchio al suo fianco:

«Hai negli occhi la Terra Santa?».

«Sì... Quando vi sbarcai per la prima volta fui sconcertato da quel deserto di arida sabbia, raramente interrotto da oasi di palme e melograni e verdi alberi da frutto. La conformazione del territorio era esattamente speculare a quella dell'Argoat, il mio paese delle foreste, che è una sconfinata distesa di alberi interrotta da poche radure abitate. Ma col tempo lo smisurato silenzio del deserto mi affascinò.

Laggiù le piste si perdono dritte davanti a te a perdita d'occhio e la terra riempie ovunque lo spazio, tutto intorno, fino al cerchio lontano dell'orizzonte. La sabbia è rosso-dorata oppure bianca e finissima, pulita, i granelli scorrono fra le dita come acqua. Le dune sembrano immobili e invece il vento le sposta in modo impercettibile, ne cambia continuamente il profilo e la notte, quando giganteggia la luna piena, un gioco di ombre le trasforma in un mare di onde di cristallo.

Nel deserto non c'è nulla, quel che ti pare di scorgere è soltanto un miraggio lontano, acqua che non esiste, golfi, insenature, isole illusorie, carovane di cammelli che non si avvicineranno mai. Eppure il deserto vive e non solo nell'effimero rinverdire che segue il prodigio di una pioggia: il deserto miracolosamente vive nel pulsare delle città dei bambini. Ho ancora impressi negli occhi i ragazzini che uscivano a nugoli dalle rovine degli insediamenti cristiani, piccole oasi di speranza nel cuore del deserto».

Nel raccoglimento della chiesetta decido di mettere al corrente l'amico delle mie disavventure con la Santa Inquisizione:

«Teobaldo, sono ricercato dall'Inquisizione per colpa della stregoneria».

Egli si volge a fissarmi preoccupato:

«Mon Dieu! La stregoneria proviene da Lucifero, in principio una gemma di luce era al centro del suo diadema, ma si è staccata quando l'angelo più splendente del cielo è precipitato nell'abisso a causa della sua superbia».

«Il profeta Isaia» accenno dalla Bibbia.

«Come sei caduto dal cielo, o Lucifero che nascevi all'aurora! Sei stato abbattuto a terra, tu seduttore delle genti, tu che dicevi nel tuo cuore: salirò in cielo, al di sopra degli astri di Dio innalzerò il mio trono, sederò sulla sommità delle nuvole e sarò simile all'Altissimo! Sarai invece trascinato negli Inferi, nel profondo della fossa».

Teobaldo rimane per un po' in preghiera in ginocchio sul banco. Poi, siccome gli ho salvato la vita si sente in dovere di sdebitarsi e decide di aiutarmi. Mi rivela una confidenza fattagli di recente dai monaci:

«Il 21 giugno, alla vigilia del Corpus Domini, i crociati di Kolossi prenderanno dal loro forziere un calice dorato e lo porteranno segretamente nella cappella di San Eustathios, chiesetta che appartiene ai monaci e sta entro le mura del cortile, sul davanti della fortezza. Nel pomeriggio i signorotti del castello vi si recheranno per l'adorazione.

La coppa era di proprietà della famiglia veneziana dei Morosini, di quella parte di loro che si era trasferita a Bisanzio. Un avo del Doge Morosini la ricevette in dono di nozze quando sposò la figlia del re d'Ungheria. A Bisanzio rappresentava l'oggetto più prezioso della comunità veneziana: ha un valore inestimabile, è tutta in oro finissimo, rubini grossi come mandorle ne adornano in cerchio il bordo superiore e a metà manico, da parte a parte, v'è incastonato un diamante giallo che brilla degli stessi riflessi dell'oro, si tratta di una pietra enorme ed appartiene ad una varietà estremamente rara.

Nel lontano 1171 a seguito dei soliti tumulti tra la colonia veneziana e quella genovese, le guardie dell'imperatore Manuele Comneno avevano colto il pretesto per precipitarsi ad arrestare i Veneziani di Bisanzio e sequestrare loro tutti i beni. Fra gli oggetti tolti ai Veneziani c'era appunto il calice dei Morosini che finì nel tesoro della Basilica di Santa Sofia e lì rimase».

«Come mai è finito a Kolossi?».

«Con la caduta di Bisanzio ed il sacco della città da parte dei crociati, il calice cadde nelle mani degli Ospitalieri che lo trasferirono nella loro sede di Cipro, la fortezza di Kolossi.

Se tu vuoi riscattarti, impadronisciti della coppa d'oro e riportala al Doge Morosini, in tal modo ti sarà facile ottenere i suoi favori e la libertà, o per lo meno una pena meno grave poiché sei spontaneamente comparso a riconoscere il tuo errore. La notte del 21 giugno dovrai agire da solo, io non posso entrare con te nel castello, mi riconoscerebbero subito.

Non puoi fuggire tutta la vita, è ora di tornare nella tua città a chiedere umilmente perdono».

«Sì, hai ragione, devo tornare a Venezia e affrontare le mie responsabilità, ci sono obiettivi nella vita di un uomo a cui non si può sfuggire. Ti ringrazio per avermi indicato la via giusta».

«Non devi ringraziare me, le giuste aspirazioni nascono dentro l'Anima del Mondo» mentre i suoi occhi cinerei tornano a guardare lontano.

Viene l'ora di separarci e di continuare ognuno per la sua strada. Ci avviamo insieme al portone principale del monastero. Martedì scorso, a sua insaputa, avevo venduto al mercato di Limassol i due preziosi speroni cesellati in cambio di uno scudo d'oro, la moneta francese di re Luigi. Però adesso, dopo la sua confidenza sul calice Morosini e le amichevoli esortazioni a redimermi, mi sento tremendamente in colpa. Appena raggiunto il portone del monastero decido di tornargli lo scudo francese e mi scuso per quell'azione indegna:

«Questo è l'oro dei tuoi speroni servirà per ricomprarti la spada, ti prego di perdonarmi».

Teobaldo prende la moneta senza replicare. Ha il capo fasciato da una benda, tiene lo scudo da crociato al gomito e indossa la veste scarlatta sopra la maglia ferrata. I monaci chiudono alle nostre spalle il pesante portone.

Al momento del congedo definitivo, veniamo raggiunti dagli occhi supplicanti di un giovane ragazzo che striscia verso di noi reggendosi sulle braccia tese poiché i suoi arti inferiori, rattrappiti e deformati dalla malattia, sono ridotti ad inutili appendici. Teobaldo, tira fuori lo scudo d'oro e lo consegna al ragazzo.

«Dove andrai Teobaldo Spadalunga?» gli chiedo nascondendo a stento la commozione.

«In Terra Santa. Laggiù ho ancora un compito da svolgere» risponde sorridendo.


* * *


Osserverò per prima cosa l'ubicazione della chiesetta di San Eustathios e le abitudini del sacrestano, devo elaborare un piano molto accurato se voglio impadronirmi del calice senza correre rischi. Vestito da frate, attenderò dentro il confessionale il giro di chiusura del sacrestano e mi metterò il più possibile all'interno del confessionale, starò schiacciato nell'angolino dietro la tenda sicché, semmai gli venisse in mente di controllare, anche spostando la tenda non mi vedrebbe, e se per maledetta sfortuna mi dovesse proprio scoprire, posso sempre dire che sono un frate di passaggio. Poi, a notte inoltrata, esco dal confessionale, forzo la porticina dell'altare con il piede di porco e mi impadronisco del calice ingemmato. Semplice! Per uscire basterà togliere la spranga dal catenaccio del portone principale, la porta laterale viene sempre chiusa a chiave... ma accidenti, se c'è un giro di chiave anche nel portone principale, sono spacciato! Non è detto, basta avere un arnese affilatissimo con cui intaccare il legno, mi devo portare dietro anche uno scalpello. Posso lavorare comodamente tutta la notte intorno alla serratura, ammorbidire e carbonizzare il legno col fuoco dei ceri... finisco con tutta calma il lavoretto ed entro le prime luci dell'alba la serratura è già divelta. Mi resta soltanto da uscire dalla chiesetta, il ponte levatoio viene regolarmente abbassato al mattino presto.

Se però i crociati di guardia alle mura mi dovessero vedere nel momento in cui esco dalla chiesetta? Finirei impiccato. La paura mi stringe un nodo alla gola.

Arriva subito il 21 giugno, vigilia della grande festa del Corpus Domini. Nel pomeriggio mi mescolo alla folla del castello. Il vasto cortile antistante è cinto tutto intorno dalla cerchia di mura esterne che partono dai due angoli della facciata nord della fortezza. Ho sottratto ai monaci di Sant'Elena un saio dalle maniche svasate e ampie fin quasi a toccare terra.

Il Granmaestro degli Ospitalieri ed i signori di Kolossi hanno terminato l'adorazione preliminare e con gran boria se ne escono dalla chiesetta dei monaci; controllo che nelle immediate vicinanze non vi sia alcuna sorveglianza armata, tutto è calmo come nelle sere precedenti; osservando bene da lontano mi accerto che non entri più nessuno e in orario prossimo alla chiusura muovo spedito verso il suo portone.

Entro. All'interno, le fresche pareti imbiancate. Sono spoglie. Semplicemente una preziosa icona dell'arcangelo Raffele ricorda la sacralità del luogo. E' sopra l'altare. Ritto in piedi con due brocche, l'arcangelo alato solleva un gomito per travasare il vino dalla brocca d'argento alla brocca d'oro che sorregge in basso con l'altra mano. E' una raffigurazione molto elegante, con i colori scelti egregiamente.

La cappella è deserta. Mi dirigo verso il confessionale e mi siedo ad attendere dietro le tende rettangolari. D'improvviso sento dei passi pesanti e decisi, devono essere dei crociati, sussulto dallo spavento e rabbrividisco sotto la tonaca. Li sento inginocchiare con un tonfo, la punta delle loro spade batte sul pavimento, il silenzio amplifica i minimi rumori. Intuisco che si dirigono all'altare, sento sbattere e richiudere a chiave la porticina metallica, dietro è nascosto il calice, probabilmente ne controllano la presenza.

Tutto il piano è andato in fumo. Di nuovo i passi pesanti, si stanno avvicinando al confessionale. Sono paralizzato dalla paura.

Un crociato sposta la tenda col guanto:

«Padre, ho bisogno di confessarmi».

Non fiato per timore di avere la voce tremante.

Il crociato si inginocchia sul pavimento a lato della tenda e comincia con voce lamentosa:

«Devo confessarle un peccato, è successo una settimana fa dopo gli scontri sotto la fortezza. Deve comprendere, ero ancora eccitato dalla frenesia della battaglia, avevo combattuto in duello con un cavaliere, l'avevo ferito al braccio e stavo per ucciderlo ma è riuscito a sfuggirmi grazie all'intervento del suo scudiero.

Noi avevamo vinto, piegato definitivamente gli avversari e ancora sporchi di sangue ci siamo lanciati al saccheggio di Palamidi, l'ultimo covo dei ribelli».

«Vieni al sodo, io non capisco molto bene il Francese» con un filo di voce.

«Voilà. In compagnia del mio scudiero mi sono precipitato a Palamidi alla ricerca del cavaliere che avevo ferito, sapevo bene dove abitava...

Aveva una ricca casa di pietra. Lo stemma scolpito sopra il portone era un mostriciattolo, donna nella meta superiore e serpente dall'ombelico in giù. All'interno lui non c'era. Abbiamo trovato sua moglie, teneva fra le braccia un bambino di pochi anni. Lo scudiero le ha strappato dalle mani il bambino, io l'ho preso per i capelli e ho minacciato di sgozzarlo con la spada se la moglie non mi avesse consegnato tutto il denaro. Terrorizzata, è subito corsa a tirar fuori uno scrigno da sotto il focolare e l'ha messo sul tavolo. Conteneva monete d'argento e qualche gioiello.

Poi ho voluto controllare se il marito ferito fosse nascosto in casa, ho spalancato un armadio, e niente, ho aperto una cassapanca e sorpresa, ho trovato dentro una ragazza rannicchiata. Era la figlia sedicenne del cavaliere, pallida di paura. L'ho tirata fuori per un braccio. E' stata colpa sua: si era nascosta come un serpente e la cosa mi ha irritato, se si fosse mostrata subito non mi sarei sognato di toccarla, così invece... le ho strappato la veste con uno strattone e l'ho violentata lì per terra».

«La ragazza ha fatto resistenza?» chiedo.

Il crociato fa una breve pausa, non si aspettava che questo particolare potesse interessare al confessore:

«All'inizio sì, si divincolava e contorceva le gambe, ma poi le ho dato un ceffone col guanto ferrato e si è lasciata allargare le ginocchia».

«Avevi ancora addosso l'armatura?».

«Ero in guerra padre, portavo ancora l'elmo e la maglia ferrata».

Fa un'altra pausa.

«E' finita la confessione?» chiedo.

«No».

«Avanti allora».

«La madre, che assisteva alla scena, ha tirato fuori un coltellaccio dalla cucina e mentre ero offuscato dal piacere è scivolata alle mie spalle per tentare di sorprendermi. Ma il mio fido scudiero si è accorto appena in tempo e girandosi di scatto ha estratto la spada dal fodero e gliel'ha puntata sul cuore. Io mi sono rialzato, ho ordinato alla donna di consegnarmi il coltello e con un sorriso malevolo ho fatto cenno al mio scudiero di godersi pure la figlia».

«Poi?».

«Ho atteso con calma che lo scudiero finisse, ho fatto sedere la madre sul bordo del tavolo e l'ho stesa giù con la schiena, aveva dei grossi seni, poi... poi le ho tagliato la veste col coltello e le ho fatto un piccolo sfregio sulla pelle di un seno... ho piantato la punta del coltello sul legno del tavolo e da in piedi l'ho violentata».

«La condizione di cavaliere ti obbliga alla difesa dei deboli, non ad approfittarti di loro, devi ricordare che il tuo ordine non è solo militare ma anche monastico». Taglio corto perché non voglio addentrarmi nel catechismo, un campo dove per ignoranza potrei dire qualche sproposito. Borbotto l'assoluzione. Non vedo l'ora che se ne vada, per penitenza gli ordino solo tre avemarie.

Se la cava con poco, meriterebbe le multe salatissime che sono in vigore a Venezia. Qui invece, chi rischia la peggior punizione sono io: avendo ascoltato una confessione e avendo assolto un penitente senza essere sacerdote, ho sufficienti motivi per farmi consegnare in direttissima al braccio secolare.

Il crociato si congeda. Scosto in fessura la tenda e vedo che finito di pregare va all'esterno a raggiungere il compagno a guardia della cappella. Ha richiuso il portone alle sue spalle.

Devo agire subito, adesso o mai più. Il sacrestano non ha ancora fatto il giro, devo anticiparlo.

Rapido mi dirigo all'altare, sono davanti alla porticina metallica, uso la mia sbarra incurvata e col minimo rumore faccio saltare la serratura: splendente oro massiccio, sul bordo superiore una moltitudine di rubini che brilla alla luce soffusa delle candele, ai quattro lati quattro grossi smeraldi e incastonato a meta manico... un magnifico diamante dai riflessi dorati, enorme, raggiante come la stella del mattino che annuncia l'aurora.

Nonostante l'incombente pericolo indugio a rimirare incantato la pregevole manifattura del calice: porta incise in rilievo delle figure di spighe di grano, un lavoro d'artista dal disegno ben riuscito ed accurato ma purtroppo destinato a sfuggire all'attenzione della gente, penso fra me.

Il calice è vuoto. Lo corico mentre la mano sinistra ne sorregge il peso e infilo il pugno entro la sua concavità. Ho incrociato i polsi a manicotto e li premo contro l'addome contratto, il calice è ben nascosto entro le ampie maniche che pendono fino alle ginocchia.

Guardo verso il portone d'uscita. Lungo il pavimento faccio le prove per quella che dovrebbe essere una camminata disinvolta. Con l'aiuto di un gomito apro in fessura il portone e lo spalanco poi con la punta del piede.

Le due guardie oseranno perquisire un frate? Sono una per parte di fianco al portone. Passo in mezzo a loro senza cappuccio e con gli avambracci ben incrociati. L'Ospitaliere che ho appena confessato mi saluta riverente, gli rispondo con un cenno del capo.

Faccio quattro cinque passi e mi blocco, mi giro su me stesso, fisso il crociato dritto in mezzo agli occhi finché vi scorgo dei segni di imbarazzo, quindi gli dico severo:

«Mi raccomando, fate bene la guardia al calice, è molto prezioso!»

Il ponte levatoio è ancora abbassato, ancora per poco, comincia già ad imbrunire. Lo attraverso in scioltezza. Le sentinelle non mi degnano di uno sguardo. Un secondo dopo possono vedere soltanto le mie spalle.

E' fatta, ha funzionato, e non so che santo ringraziare... beh, potrei ringraziare il dio Mercurio, protettore dei ladri. Anche se in realtà, sto semplicemente riportando il calice Morosini al suo legittimo proprietario. Dopo un duecento metri tolgo il saio, ne strappo il cappuccio per inserirvi la coppa e avvolgo il rimanente su di una pietra che getto nel fosso. Dai cespugli mi giro a contemplare il ponte levatoio mentre viene sollevato, le prime ombre della sera conferivano alcunché di fosco ai contorni del castello.


* * *


Il 25 giugno è atteso a Paphos lo scalo della carovana partita in agosto da Venezia e ora sulla rotta di ritorno dopo aver svernato in Oltremare nella città di Acri.

In groppa alla mia fedele cavalcatura, ho raggiunto il porto di Paphos dopo un'intera notte di viaggio. Mentre aspetto con impazienza l'arrivo della carovana ho dovuto sacrificare il docile compagno dalle lunghe orecchie, l'asinello che come me rimpiange il dolce peso di Rézia. L'ho venduto a dei contadini. Volevano macellarlo a tutti costi ma non l'hanno fatto, sono riuscito a convincerli ad usarlo come animale da lavoro. L'asino aveva denti ancora buoni, gli ho scurito il pelo con un colorante e l'ho spacciato per un cucciolo della Catalogna, invano i villici avrebbero atteso che crescesse per diventare enorme e forzuto.

In questi giorni di trepida attesa ho avuto il piacere di conoscere un uomo sicuramente più forte di qualsiasi animale da soma. Nel porto lo si nota subito, è parecchio grosso, di corporatura robusta e massiccia, muscoloso ben al di sopra della media. Sale in bilico sulle passerelle del molo e scarica a bordo la merce. Indossa una tunica logora che gli arriva al ginocchio e tiene i piedi scalzi per meglio aderire ai gradini abbozzati sul dorso delle passerelle.

E' un cipriota, uno scaricatore di porto, e nel vederlo trasportare sulle spalle quei sacchi pesantissimi non si può esimersi dal manifestargli ammirazione:

«Chi sei per sollevare pesi del genere? Ercole in persona?».

«Ellah, veneziano» il greco mi saluta con entusiasmo senza rilasciare quella rigidezza muscolare che fa sembrare esagerato e sovrabbondante di energia ogni suo movimento. «Riconosco il tuo accento, ho navigato su navi veneziane» dice in Francese continuando a lavorare.

Quando finisce di caricare i sacchi sulla nave si concede una pausa e mi viene vicino, la fronte gronda un sudore che odora di legno di sandalo e i muscoli delle mandibole gli guizzano nervosamente sotto la pelle:

«Amico mio! Tu conosci le fatiche d'Ercole?».

«Beh, la fatica del cervo...».

«Non del cervo, la fatica della cerva dalle corna d'oro!» precisa.

«Sulla facciata della Basilica di Venezia c'è un Eracle piuttosto gracile che porta una cerva sulle spalle, è scolpito in un bassorilievo, un genere di rilievo appiattito ispirato ai codici tedeschi; io nella Basilica ci lavoro però a dire il vero nessuno mi ha mai raccontato la fatica nei suoi particolari».

«Te la racconterò io, Erimanzio - stringendomi con forza la mano come se avesse intenzione di stritolarmi le ossa -. Ercole mosse alla cattura della cerva di Cerinea confidando nella sua forza prorompente, armato di una clava ricavata da un tronco di oleastro e protetto dall’invulnerabile pelliccia del famoso leone Nemeo. La cerva era consacrata ad Artemide ed era empio non solo ucciderla, ma anche semplicemente toccarla. Le sue corna d'oro avevano attirato l'attenzione della dea come pure le sue quattro magnifiche ed enormi compagne, ma mentre queste ultime erano state catturate ed aggiogate alla quadriga divina, la cerva di Cerinea era riuscita a mettersi in salvo».

«Le cerve non hanno corna, poteva trattarsi unicamente di una renna, la sola specie che si adatti al traino di un carro e la sola in cui la femmina sia cornuta» puntualizzo a mia volta.

«Non è vero, mia moglie non è una renna eppure ti assicuro che le corna le ha.

Chiamala come vuoi, la cerva possedeva zoccoli di bronzo incredibilmente veloci e aveva corna d'oro lucenti come i raggi del sole. Il monte di Cerinea era avvolto in un alone carico di mistero, Ercole percepiva la costante presenza di un qualcosa di incorporeo che condizionava i suoi passi. Egli inseguiva sul fango impronte eccezionalmente grandi e profonde, si fermava davanti i segni lasciati sulle cortecce da denti terribilmente aguzzi, la cerva rimaneva però confusa nel fitto fogliame. Per un anno intero Ercole s’impegnò in una difficile e affannosa ricerca, finché un giorno riuscì a stanarla... ma la cerva non si lasciò domare e balzò via veloce e irraggiungibile.

Lontan d'ogni sentiero ora scendeva ora saliva, valli e monti essa varcò, attraversava in un lampo infinite foreste ed Ercole fu costretto in luoghi ostili e selvaggi pur di seguire le sue tracce. Solo di tanto in tanto, sulle cime delle colline dirette a settentrione, egli poteva veder luccicare in lontananza le corna d'oro della cerva. Imperterrito Ercole continuava ad inseguirla. Attraversò l'Istria, varcò il Po, si inoltrò a nord lungo la via dell'ambra e arrivò fin nel paese degli Iperborei, agli estremi confini lambiti dal Mar Baltico.

Lassù egli la raggiunse, in un giardino ove crescevano degli alberi carichi di splendide mele d'oro. Tese fra quei rami la sua rete e riuscì a catturarla senza recarle offesa. Quindi, con il benevolo permesso di Artemide, Ercole caricò la cerva sulle proprie spalle e la riportò in Grecia».

Arriva un carro ricolmo di sacchi e si ferma poco distante, il conducente scende. Seguo Erimanzio che si avvia silenziosamente verso il carico.

Gli parlo alle spalle:

«Ho capito, il racconto deve avere un significato allegorico, mi spiego, hai presente l'Unicorno?».

«No».

Ai bordi del carro Erimanzio piega il ginocchio verso un sacco che pesa oltre il quintale, emette un grido soffocato, contrae l'addome e con uno sforzo poderoso alza il sacco sulla spalla destra. I muscoli del dorso si gonfiano, le vene del collo si inturgidiscono e le sue braccia possenti stringono il sacco come morse d'acciaio.

Cammino al suo fianco mentre si dirige con il carico verso la passerella:

«Mi ascolti?- con voce stridula - Si dice viva nelle Indie, ha un unico corno sulla fronte, grosse zampe da elefante, pelle glabra e molto spessa simile a un'armatura. E' raffigurato sul pavimento della Basilica di Venezia e ti assicuro, non è il docile animaletto che il popolo si figura in braccio alle vergini».

«E allora?».

Erimanzio si blocca a un passo dalla passerella e scaraventa a terra il sacco, visibilmente irritato.

«Allora, -proseguo- come l'introvabile unicorno è immagine dello Spirito così la renna dalle corna d'oro è immagine dell'Anima. Ne deriva, se permetti, che la virtù di Ercole non va intesa nel senso della forza fisica, bensì nel senso della forza d'animo».

«Non hai capito un corno! - Esplode gesticolando con le grosse mani. - Come poteva caricare la cerva sulle spalle senza avere muscoli eccezionali? Una cerva enorme e pesante come quella! Cinque uomini robusti non bastano a sollevarla un millimetro da terra. Hai mai visto la forza d'animo sollevare qualcosa?».

«Ma, ascolta...».

«E poi, - concitato - senza le sue gambe grosse e super resistenti ti sembra che Ercole avrebbe potuto inseguire la cerva per mezzo mondo?».

«L'anima sta al corpo come l'intenzione di camminare alle gambe» cerco di spiegare.

Alza le spalle:

«Seghe mentali, seghe mentali... la filosofia dei rammolliti».


* * *


Il 25 giugno non avrei potuto festeggiare meglio il patrono: mentre oggi a Venezia si celebra il giorno di San Marco a Paphos pronuncio davanti al capitano il giuramento prescritto dal codice d'imbarco e puntuale salgo a bordo della carovana.

La mia nave reca mercanzie, le meno voluminose ma le più preziose. E' una galera leggera, mezzo di trasporto molto caro ma altrettanto sicuro, le galere veneziane sono infatti veloci e facili da manovrare e sono in grado di controbattere efficacemente gli attacchi dei pirati. Dai fianchi dello scafo lungo e stretto sporgono le scalmiere che alloggiano il ginocchio del remo. E' una bireme, nel senso che per ogni banco ci sono due uomini, uno accanto all'altro e ciascuno con un proprio remo. Per sfruttare al massimo la disponibilità di posti, ai remi non ci sono degli schiavi ma scalognati passeggeri che si pagano il viaggio remando. Pur essendo adibita a fini mercantili la nave è armata, nel senso che ciascuno degli ottanta uomini di equipaggio deve essere provvisto di scudo, elmo e cotta di maglia; le armi a disposizione consistono in spade, lance e pugnali... soprattutto armi bianche perché il corpo a corpo è decisivo sia negli assalti di una flotta nemica sia per difendersi dai pirati all'arrembaggio.

La stiva è carica del profumo delle spezie che arrivano dall'Oriente e dai lontani mercati dell'India. Un naso esperto vi potrebbe riconoscere ed isolare ciascuna fragranza: la corteccia aromatica della cannella, il pepe, lo zenzero pungente, la noce moscata, i boccioli dissecati dei chiodi di garofano, il cumino, il coriandolo. Sono tutte spezie ricercatissime, richieste da un enorme mercato e pagate a peso d'oro. Il pepe, pur essendo il meno costoso, è quello più resistente al trasporto e le grandi quantità che arrivano in occidente non sono mai sufficienti, tanto che in molte località i diritti di transito sono pagabili in pepe, come pure le imposte e le ammende. Le spezie vengono adoperate per preservare dal deterioramento le carni e gli insaccati, per insaporire i cibi o aromatizzare il vino cotto. Alcune sono utilizzate come droghe medicinali, tipo la noce di galla e la costosa canfora di Sumatra, tipo l'ossido di zinco usato per la cura degli occhi o lo zucchero dalle proprietà sedative.

Un effluvio dolciastro emana dai legni pregiati: aloe odoroso dell’Indocina, sandalo dalle inebrianti varietà bianca e rossa. Col nerissimo ebano si fanno calamai e anche dal verzino si ottiene dell'ottimo legname. L'incenso viene prodotto con l'ausilio degli alberi incidendo col coltello certe cortecce e raccogliendone le gocce resinose; del pari il balsamo è secreto dagli alberi sotto forma di un liquido che a contatto dell'aria diviene vischioso e solido. Ci sono ovviamente i profumi veri e propri, tipo il benzoino o l'ambra grigia, quest'ultima ha l'effetto di un potente afrodisiaco e viene ricavata da una formazione calcolosa del capodoglio, un cetaceo delle coste tropicali del Madagascar.

Il cotone a fiocchi figura nelle capienti stive delle altre navi, da noi al posto della bambagia c'è la bambasina, un cotone più pregiato intessuto in maniera finissima. Abbiamo a bordo anche i coloranti per le stoffe, come la radice rossa di robbia o la gomma lacca. E per concludere in bellezza, ecco il nostro forziere. Le pietre preziose giunte espressamente dall'isola di Ceylon: topazi, zaffiri, granate, ametiste. Le perle dei cacciatori di ostriche e gli enormi diamanti del Deccan e i turchesi del Khorassan, i lapislazzuli della Tartaria.

Tutte queste merci sono state caricate nel porto di San Giovanni d'Acri, capitale del regno di Gerusalemme dopo che la città santa è caduta definitivamente in mano mussulmana. Acri è un centro commerciale attivissimo in cui trovano posto tutte le colonie dei latini, cioè i Pisani, gli Amalfitani e soprattutto, in perpetua discordia coi veneziani, i ricchi coloni Genovesi. La città importa dall'Europa le merci di scambio che i veneziani acquistano nel Baltico e nell'Europa settentrionale, ossia ambra, pelli, pellicce e i pregiati tessuti delle Fiandre.

Nell'entroterra siriano c'è l'altro importantissimo nodo commerciale di Damasco, capolinea delle grandi piste carovaniere provenienti dall'Oriente. Due sono le piste principali che collegano la lontana India con la città: una di esse risale il corso del fiume Indo, supera i colli dell'Hinducush, prosegue nel Khorassan persiano e poi, attraverso Bagdad, costeggia il fiume Eufrate raggiungendo la Siria.

L'altra pista, via mare dalle Indie, raggiunge a ovest il golfo stretto tra continente africano ed asiatico e fa tappa in Arabia nel porto di Aden. Le sue navi risalgono poi le coste del Mar Rosso parallelamente alla lunga barriera rocciosa che argina il deserto arabico, quindi sbarca a La Mecca e prosegue via terra nel Mare di Sabbia a dorso di cammello fino a Damasco.

La Via della seta, grande itinerario terrestre, è invece riservata al broccato, alla mussolina, alle balle di seta greggia e ai drappi lavorati in oro. Il viaggio delle carovane dura circa dieci mesi, parte in Cina da Shangai, attraversa il deserto del Gobi, sfiora Samarkanda e poi raggiunge le rive del Mar Caspio.

Dalla Cina arriva anche il carbon fossile. Per i Veneziani è una semplice curiosità, cioè una pietra nera estratta dalla montagna che arde mantenendo fuoco e calore molto meglio della legna, però presso i cinesi pare sia un materiale usatissimo per scaldare le stufe.

La cosa più bizzarra, la salamandra, arriva dalla Mongolia. Bisogna sapere che essa non è l'anfibio che vive nel fuoco senza bruciarsi, come risulta comune credenza, la salamandra è invece un metallo incombustibile che si estrae dai giacimenti dell'Altai. Il suo vero nome è amianto e si estrae in filamenti flessibili che messi nel fuoco diventano bianchi come la neve. I mongoli vi fabbricano delle tovaglie di tessuto resistente al fuoco sicché, quando le tovaglie si macchiano o si insudiciano, le mettono sul fuoco e le lasciano temprare finché tornano candide.

Messaggero delle inesauribili meraviglie del Levante, lo stormo delle navi veneziane migra da Cipro diretto a Occidente. Le ore di sole sono tante, l'afa di fine giugno è insopportabile e la scalogna di dover remare col caldo vi assicuro è una cosa esasperante. Per fortuna, verso la prima meta di luglio si leva un vento favorevole che gonfia le vele e ci spinge verso l'Anatolia alla costante velocità di quattro nodi.
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birillino8
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[align=center]La leonessa dei mari
Capitolo V[/align]

Lasciamo il porto alle nostre spalle. Un altro stretto, questa volta tra le coste della Caria e la fruttifera Kos, l'isola ove Ippocrate giurava ad Apollo. Anticamente vi sorgeva l'Asklepeion, centro insieme medico e religioso dedicato ad Esculapio. L'Asklepeion domina ancor oggi da un'alta collina. Un tempo le sue tre enormi terrazze erano gremite di statue e torme di maestri e allievi nell'arte medica e, ovviamente, di malati con ogni genere di affezioni. Come Rodi e Kos ciascuna delle dodici meravigliose isole del Dodecanneso è in realtà un mondo a sé, ciascuna con la propria peculiare atmosfera raccolta intorno ad un corredo mitologico esclusivo.

Sfiorando l'Anatolia in direzione nord, la nave solca un mare dalle stupende sfumature: gli scogli disegnano sott'acqua macchie di indaco, seguono a distanza strisce di verde chiaro e grigioverde e all'orizzonte un verde smeraldo intenso. In mezzo a quel tripudio di colori attendiamo l'avvistamento della foce del Meandro, il cui bacino fluviale era anticamente abitato dalla tribù dei Carii. Dall'originaria sede iperborea, essi erano migrati a est sotto la guida di Telmisso e presso un'ansa del fiume avevano fondato la città di Laodicea.

Un canuto marinaio del nostro equipaggio, sporgendosi dalla nave riconosce l'antica Didimo e a braccio teso ne indica le rovine sul profilo della costa, là i Carii avevano innalzato un grandioso tempio ad Apollo. Egli l'ha visitato: il tempio ha un dittero che misura 40 metri per 80 e conta in tutto 112 possenti colonne. Sulla parte superiore dell'adito, ai lati di una cetra, sono scolpiti due superbi grifoni, leoni alati sacri ad Apollo. Il loro compito era quello di difendere le miniere aurifere degli Iperborei dagli incauti cercatori d'oro.

Il marinaio, un lupo di mare che ne sa una più del diavolo, fa sorridere la ciurma per il suo accanimento nel sostenere che lo stesso leone alato, in cima alla colonna di Piazza S. Marco, sia originario di quel tempio. Avrebbe avuto funzione di supporto ad una statua di Apollo in equilibrio sul suo dorso:

«Apolo el stava in piè su la schena del leon! E al leon i ha taià col scalpel le do corna, ghe xe 'ncora el segno».

Poco più oltre, tra le coste frastagliate della Caria è sempre lui ad avvistare per primo la foce ove il Meandro conclude la tormentosa serpentina del suo corso. Sulla foce sorgeva anticamente la città di Efeso e oggi restano le rovine del tempio di Artemide, rimasugli del poderoso colonnato innalzato alla sorella gemella di Apollo sulle fondamenta di un precedente tempio di Cibele. La furia distruttrice dei Cimmeri, che per oltre un secolo terrorizzò l'Anatolia costringendo re Mida al suicidio, ha lasciato in piedi una sola colonna e tuttavia la statua di Artemide è miracolosamente sfuggita alla devastazione.

Il vecchio lupo di mare, cui sole e salsedine hanno reso coriacea la pelle, fa divertire il gruppetto dei mozzi mentre mima, con eloquenti gesti delle mani, le decine di mammelle rigonfie che pendono dal petto della dea; descrive due leoni scolpiti sulle aperte braccia e poi sulla gonna fiori, api e ogni specie di animali, e sul collo una collana di grappoli d'uva, e sul capo una torre cilindrica le cui colonne s'innalzano solenni verso il cielo.



* * *



Nel cuore dell'Egeo c'è un ducato veneziano esteso su tredici isole. L'arcipelago delle Cicladi fu conquistato dai Veneziani a seguito di una spedizione privata organizzata da Marco Sanudo nel 1206 ed ora Naxos ne è divenuta la sede principale.

La nostra carovana ha finito di superare le ultime isole settentrionali del Dodecanneso e vira verso il centro dell'Egeo in direzione dell'isola di Naxos, ove come d'obbligo effettua il primo scalo. Chora è il nome della cittadina arroccata sul cucuzzolo della collina che sovrasta il porto. La scelta di quella posizione elevata, serrata intorno alla fortezza, fu dettata dalla necessità di difendere la popolazione dalle feroci incursioni piratesche che in ogni epoca hanno martoriato l'isola.

Mi arrampico per le strette vie di Chora e salgo le gradinate assolate al canto delle cicale in festa. Scale inerpicate sulle facciate delle case o ripidi gradini a semicerchio portano all'accesso delle abitazioni, qualche volta sormontato da stemmi nobiliari. Le porte dei più umili sono invece interrate e semi nascoste nella penombra, sotto il livello del selciato. La sonnacchiosa Chora con le sue case quadrate e imbiancate di gesso, con le sue imposte blu, le porticine blu, le ringhiere blu, i vasi blu e blu ogni cosa che non sia muro, sembra la fiabesca città dei nani.

Dall'alto delle mura della fortezza l'arido terreno dell'isola appare coltivabile. Il mio sguardo è rapito sulle pianure intorno, attratto dal gradevole contrasto tra il verde scuro delle siepi e il colore dorato dei campi di frumento. A tratti l'alternanza di oro e verde si rompe in modo esplosivo nei cespugli fioriti e macchie rosa e arancio si accendono vivide sul bianco delle case. Respiro spazi nuovi ed il celeste è più celeste oltre le dolci colline all'orizzonte.

Uscendo da un sottoportico e nell'imboccare una via in discesa, odo l'accompagnamento musicale di un canto che proviene da dietro il balconcino. Riconosco la famosa canzone dei gondolieri: Venetia mundi splendor. Colto alla sprovvista mi fermo ad ascoltare quelle note, presto sommerso da un'accorata nostalgia. Mi fa uno strano effetto sentire la musica di casa, così lontano e per troppo tempo lontano da Venezia.

E' un mottetto. Due voci femminili si inseguono e si rincorrono agili e sollecite, la voce più acuta scavalca la più bassa, la sorpassa, sale in alto, si esalta, e di colpo si smorza. Ricongiunte, chiare e soavi, le due voci di soprano gorgheggiano sul sottofondo del loro robusto accompagnatore, un trombone, quasi fosse la voce maschile di un tenore. L'Amen conclude il mottetto con l'enfasi di una fanfara, la vocale A viene stirata, sostenuta per un tempo interminabile, librata in aria, fatta oscillare come la coda di un aquilone.

I suoni, danno corpo alle immagini di un tenero tramonto sulle forme bombate di cupole d'oro... le note ne seguono il ritmo dei profili, fanno pausa ai pali del molo per subito riprendere vigore e d'incanto vedo passare i gondolieri che remano in piedi poggiati sui remi e cantano, alla luce delle lanterne.

All'indomani mi sveglio molto presto e già alle primissime luci del giorno salto giù dalla galera ancorata nel porto. A lato, sulla sommità di un piccolo promontorio a dirupo sul mare, si staglia imponente verso il cielo una enorme porta di pietra. Lassù mi sembra di distinguere qualcuno in mezzo ai resti di antiche rovine, c'è un piccolo gruppo di persone. Cerco le tracce del sentierino nella tenue luce di un'alba incipiente e salgo spedito sul promontorio. In cima non faccio domande, non oso turbare il clima di raccoglimento degli enigmatici personaggi fermi sulle pietre con lo sguardo rivolto all'orizzonte.

Che cosa stanno aspettando costoro, davanti la monumentale porta marmorea chiusa per sempre su un passato ormai condannato all'oblio? Ma è chiaro: sono convenuti quassù per il sorgere del sole e ripetono per l'ennesima volta un rito millenario. Supero i miei scrupoli e chiedo spiegazioni a uno dei presenti: trattasi appunto del tempio di Apollo.

L'astro spunta in questo istante imperioso e infuocato, traccia sul mare una scia dorata, una strada di luce compatta e dritta che viene a toccare le rive del promontorio. Me ne sto in piedi impacciato, sono consapevole della sacralità del luogo e ne afferro il momento magico, ma non so come onorare in modo adeguato questa spettacolare manifestazione del divino.

Sette mesi sono trascorsi dai giorni di Zagreo e ho dimenticato le parole dell'inno orfico ad Apollo, tento allora di ricapitolarne il contenuto. In sintesi, l'inno diceva che il dio incoronato d'alloro fu costretto ad una dura lotta con il guardiano di un oracolo. L'insidioso nemico era il serpente Pitone, acerrimo persecutore di Latona quando ancora ella era incinta del dio. Apollo era deciso a vendicare le aggressioni subite da sua madre, perciò puntò l'arco su Pitone tese la corda e scoccò la sua freccia invincibile. Trafitto, l'enorme serpente contorse le spire dal dolore, spalancò le orride mascelle e strisciando cercò di sfuggire, ma Apollo osò inseguirlo nei recessi del tempio della Terra e lo finì, dinanzi al sacro crepaccio.

Mi arriva l'ispirazione e improvvisando con le mie semplici parole, intreccio sugli sfumati ricordi dell'Inno di Orfeo una piccola devota poesia:



«O splendido Apollo dai riccioli d'oro,

bello di luce come il sole raggiante,

lancia dal cielo i tuoi dardi infuocati,

incalza implacabile Pitone il Serpente,

inchioda davanti alla sacra fessura

il persecutore di Latona incinta

e fissalo alla Terra con le frecce dell'alba.



Un canto si leva alto nell'immenso:

ritmo entusiasta è vibrare in sintonia,

giusta misura scoprire l'Armonia,

cogliere poesia, arte e saggezza

in nove sorelle di sublime Bellezza.

Artemide saltella la danza della Corda,

echeggia della lira la soave melodia,

l'aurea catena che riunisce cielo e terra.



Grifone difenderà la porta del tempio,

i doni avvolti nella paglia di frumento,

custodirà fiero degl'Iperborei l'oro».



Al canto del gallo il sole risplende alto nel cielo cancellando i veli arancioni e rosa sul giovane corpo di Eos, la dea dell'alba. Il tempio si svuota. Ognuno scende giù dalla collina e si dirige appagato alle proprie occupazioni. A Chora, già fervono intensi i traffici di carico e scarico dalle navi, presto la carovana ripartirà e i passeggeri si attardano ad affollare le più recondite botteghe dell'isola.

Mentre mi avvio pensoso al porto penso ad Abari, il sacerdote iperboreo che avrebbe conosciuto il segreto dell'invincibile dardo di Apollo (la Freccia del Tempo). Abari la custodiva nel tempio circolare dedicato al dio e la utilizzava di volta in volta per viaggiare a cavalcioni su di essa superando in un baleno gli oceani e i luoghi altrimenti invalicabili. La fatidica Freccia, diceva Zagreo, instaura la direzione univoca ed irreversibile dello scorrere del tempo: ponendo un prima e un dopo nell'ordinata successione che va dal passato al futuro, essa determina il senso implacabile degli eventi.



* * *



Candia, Cipro, Naxos... ho già visto tutto della Grecia? Nient'affatto, a mia insaputa mi sto avviando all'appuntamento più stupefacente. Dopo qualche ora di navigazione si delinea in controluce il profilo di un'isola mitica, evanescente e sfumata sullo sfondo. Per un curioso gioco di correnti più la nave si avvicina, più l'isola sembra allontanarsi. Prossimi a lambirne le rive una nube nasconde il sole, interrompe il controluce e la costa si staglia nitida nelle vicinanze, ma subito i flutti ci riportano lontano e l'isola ritorna evanescente.

Delo fu il centro sacro dell'Egeo, la capitale ideale di una nazione che si estendeva entro i confini di un mare, delle sue isole e delle sue coste. Fu l'Ombelico del mondo: qui nacque il cosmo da un punto di densità infinita, in una regione inesplorabile ove anche la Pitonessa esauriva ogni facoltà di predire il futuro. L'Omphalòs veniva custodito nel recinto più interno del santuario ed era una grossa pietra ovoidale che rappresentava il sacro ombelico. In superficie i sacerdoti di Febo vi avevano scolpito una rete intrecciata, per alludere alle infinite curvature dello spazio e del tempo.

Le rovine silenziose di un grande santuario. E' tutto ciò che rimane da contemplare mentre sfioriamo le sue rive flagellate dai flutti, si può comunque riconoscere la Via Sacra che conduceva al tempio di Febo e molti altri diroccati resti degli edifici di culto pagano. Le colonne spezzate e le pietre sparpagliate alla rinfusa sopra i lastricati, lasciano solo lontanamente immaginare cosa potesse essere un tempo quel grandioso baluardo di templi. Sull'isola incolta, oggi ridotta a rifugio di quaglie, cerco di ricostruire il santuario di Apollo nel periodo del suo massimo splendore quando era un luogo di straordinaria magnificenza e attirava re, principi e pellegrini da ogni parte dell'Egeo. A stento posso figurare nella mia mente i templi integri, dorati e dipinti con tinte tenui e ricercate; indovinare eleganti affreschi alle pareti, pavimenti musivi che nulla avrebbero da invidiare a quelli di San Marco e le statue intatte delle divinità sugli altari e i simboli sacri scolpiti da ogni parte. Quanti misteri, quante cose curiose... anche buffe, come ad esempio i grandi, enormi falli di pietra, orgogliosamente innalzati sui piedistalli del tempio di Dioniso.

Come doveva essere affollata la Via Sacra. Colma di pellegrini in atti di devozione, di schiere di novizi, di curiosi, uomini politici di passaggio, sacerdoti dei culti più disparati. Ecco le vesti variopinte, differenti per ogni culto e specifiche per ogni grado iniziatico; spiccano i copricapi egiziani dei sacerdoti di Serapide e le classiche divise dei Rabbini; incantano irresistibilmente i veli trasparenti delle sacerdotesse di Iside, i costumi sensuali e il trucco ammaliante delle siriane, languide veneratrici di Astarte.

In disparte, i sacerdoti delle divinità esotiche stanno a colloquio in civile confronto di idee, poi a gruppetti, abbandonano la ressa, escono dal recinto del santuario di Apollo e raggiungono i loro templi nella collina riservata ai culti stranieri, segno illustre del grande spirito di tolleranza e di rispetto che vigeva in Grecia nei confronti delle religioni altrui!

Odo la preghiera sommessa delle vergini davanti alla sfinge, si recidono una ciocca di capelli e la posano delicatamente sulla tomba di Laodice ed Iperoche. Laodice ed Iperoche, le vergini iperboree che si prodigarono in un lunghissimo viaggio per portare a Delo, avvolti nella paglia di frumento, gli oggetti sacri del culto apollineo.

Nel tempio di Febo risuona la voce ispirata della Pitonessa seduta sul tripode, ha masticato l'alloro e ora annuncia l'oracolo a un fedele ansioso di risposte. Le fa da sottofondo il suono chiaro e puro della lira, un fluire d'acqua cristallina che s'intreccia alla sua voce e al canto dei danzatori intorno all'altare: Ié ié Peana, ié ié Peana. Stanno danzando in cerchio il ballo della Gru e ondeggiano insieme avanti e indietro, indietro e avanti, per ore e ore, finché cadono a terra in preda al capogiro.

Profumo d'incenso esce dai recessi del tempio, si praticano riti segreti in onore a Febo; al termine gli iniziati si riuniscono nella navata e poco dopo dalle colonne del frontone parte una processione solenne, passa davanti alla fila dei nove leoni scolpiti, si snoda lentamente sulle pendici del Monte Cinto e nell'infilare l'entrata dell'Antro incrocia dei devoti che escono, hanno il volto stralunato di chi ha assistito a cruenti sacrifici.

Ben poco rimane oggi a testimonianza di quel sontuoso passato, innumerevoli ruberie hanno spogliato l'isola di ogni tesoro. Gli abitanti l'hanno completamente abbandonata. In quell'isola arida, fatta di strati di scisto e granito, oggi si può scorgere da lontano un unico segno di vita: la macchia verde di una grande palma da datteri radicata nell'esile scoglio al centro di un laghetto perfettamente circolare. Una palma, per ricordare il mito della nascita di Febo.

Leggenda narra che Latona si aggrappò alle fronde di una palma sullo scoglio nudo e sterile che appena affiorava a pelo dell'acqua. Caduto dal cielo come una cometa e sprofondato negli abissi del mare, lo scoglio vagava sommerso ed invisibile nelle acque dell'Egeo. Quando risalì sotto la superficie per diventare la piccola isola di Delo, ancòra non possedeva solido sostegno cui fissarsi e galleggiava sospinto dalla corrente, simile a un gambo di asfodelo cullato ora dal soffio del Noto ora da quello dell'Euro.

Con le spalle appoggiate al tronco della palma e le caviglie nell'acqua, Latona diede alla luce i due gemelli Febo e Artemide. All'istante Delo emerse all'asciutto, ben visibile a tutti i naviganti, e smise di spostarsi perché saldamente ancorata da catene adamantine. Il suolo che accoglieva Febo neonato si tramutò in oro, anche in oro si mutò la folta chioma della palma, come pure il letto del vorticoso torrente Inopo che traboccò colmo del prezioso metallo. Il magico nitore dell'oro faceva rilucere l'isola e per sette volte i cigni, sacri uccelli delle Muse, girarono intorno a Delo emettendo il loro canto melodioso.

Saluto il santuario che pian piano s'allontana. Forse il vasellame di qualche tesoro è ancora sepolto tra quei ruderi, ma non è questo che mi interessa. Ho la tentazione di scendere giù con la stessa foga smaniosa del cristiano a caccia di reliquie. Io mi accontenterei di un frammento del quarzo bianco e lucente che appartiene al basamento del tempio di Febo. E' un vandalico sacrilegio ma reca in sé l'illusione di impadronirsi del chiarore che i raggi di mille albe divine hanno imprigionato nella pietra.

Comunque non mi è possibile, la galera prosegue decisa la sua rotta, attraversa le Cicladi occidentali, entra nel golfo dell'Argolide e costeggia la costa greca del Peloponneso. Modone e Corone sono i due occhi di Venezia incastrati sulla punta della Morea. Il nostro comandante scende brevemente a Modone per raccogliere le ultime notizie sui pirati del Mar Jonio. L'insidia della pirateria è andata scemando negli ultimi anni rispetto alla baraonda d'inizio secolo quando i normanni assaltavano le navi pisane, i greci abbordavano le navi latine, i Veneziani quelle anconetane e i corsari anconetani le navi veneziane. Anche i Ragusei dell'Adriatico meridionale e i Saraceni dell'Africa settentrionale hanno smesso di seminare ruberie e morte. Ancor oggi, tuttavia, il nome del famigerato corsaro genovese Alamanno da Costa o del siciliano Guglielmo Porco risveglia terrore al solo accenno. Ed è purtroppo notizia fresca l'arrembaggio di una nave anconetana da parte di corsari Almissani: hanno depredato i passeggeri e ripulito la nave; hanno sgozzato i bambini, violentato le donne e ridotto in schiavitù gli uomini validi; i rimanenti, vecchi o inabili che fossero, li hanno uccisi e abbandonati sulla riva.

Un paio di ricchi mercanti sono stati orrendamente squartati. Gli Almissani sapevano bene quel che fanno i mercanti appena vedono issare la bandiera pirata: ingoiano le loro gemme preziose. Perciò hanno inciso l'addome dei poveretti e, ancor vivi, tirate fuori le budella ne hanno dipanato il gomitolo per incidere longitudinalmente, col coltello che scivola lungo il tubo intestinale, con le mani nelle feci e nel sangue a frugare in cerca delle gemme.



* * *



Zara rimane una città incline alla ribellione. La lezione della quarta crociata non è stata sufficiente a placarla. La sua fazione di oppositori si appoggia al re d'Ungheria perché promette libertà dai monopoli commerciali veneziani. Per Zara può significare molto, ossia sottrarsi al controllo esclusivo e dispotico esercitato da Venezia sui traffici marittimi, nonché sfuggire all'imposizione di scambiare le merci in nessun altro luogo della Dalmazia e dell'Alto Adriatico all'infuori di Venezia. La rivolta del 1243, l'ultima di Zara e la quinta in ordine di tempo, ha dato adito ad un controllo ancor più severo, evidentemente Venezia non intende rinunciare a quello che considera semplicemente uno scalo di secondaria importanza ove caricare legno bestiame e schiavi, oltre ai consueti rifornimenti di derrate alimentari.

A Zara la nostra carovana fa l'ultima sosta. Ne approfitto per recarmi al cantiere edile della chiesa di Sant'Anastasia. Maestro Bernardo è ad un tempo architetto, ingegnere, capomastro e organizzatore del cantiere; si reca personalmente nella cava e nella foresta a scegliere i materiali da impiegare, né disdegna all'occorrenza di compiere lavori manuali, specie se si tratta di usare lo scalpello per rifinire le statue più importanti e delicate, egli non dimentica di aver cominciato la sua lunga carriera proprio come scalpellino.

Lo scorgo nel cantiere all'aperto: chino sul tavolo sta disegnando una sezione della chiesa mediante un piccolo compasso a puntasecca adoprato su della carta da stracci (la carta da stracci è una nuova applicazione dei mulini ad acqua e sostituisce in pratica le costose pergamene). E' attorniato dai più stretti collaboratori, incaricati di vegliare affinché le sue concezioni vengano materializzate e fedelmente riprodotte. Alcuni di loro, ricopiano il disegno di Bernardo sopra un ampio pannello formato da uno strato di gesso, inginocchiati a terra usano enormi compassi a settore curvo. Incidono il gesso a graffito e ingrandiscono i particolari della sezione per evidenziare con maggior chiarezza i pilastri che delimitano le navate laterali, gli archi rampanti di supporto e i contrafforti di sostegno. Altri collaboratori sono intenti a preparare dei modelli in legno che forniranno ai cavatori le esatte dimensioni cui devono attenersi nel dare forma alle pietre con piccone e scalpello.

Tutto intorno brulicano gli operai indaffarati, chi controlla il muro col filo a piombo, chi verifica lo spigolo con la squadra, chi misura la facciata con pertiche di ferro. Il cantiere è un alveare in costante attività. I manovali stanno scaricando dal carro una decina di grosse pietre tagliate e le portano via con le barelle. I muratori spalmano uno strato di malta con la cazzuola, vi posano sopra la nuova pietra e raschiano via la malta di troppo, poi controllano l’orizzontalità della pietra con la livella ad acqua e se pende da un lato, la aggiustano col martello finché si allinea perfettamente. In cima ai muri doppi della facciata ci sono delle impalcature: alcuni muratori lavorano lassù, sospesi sulla parete a strapiombo, sorretti soltanto dalle piattaforme dei graticci di vimini; a terra i compagni tirano su per loro le tinozze di malta, a forza di braccia e carrucole. Gli archi di pietra del colonnato non sono stati ancora eretti, però i carpentieri hanno già innalzato dei modelli curvi sopra i quali si potranno posare ad una ad una le pietre a cuneo destinate a dare agli archi la forma definitiva. Su tutto domina il maglio di contro all'incudine, accompagnato dal concerto degli scalpelli che echeggiano sui fregi di pietra.

Si sta mettendo in movimento la cosiddetta gabbia di scoiattolo. Somiglia ad una grande botte di due metri e mezzo di diametro e gira come una ruota attorno ad un grosso asse centrale. Sull'asse è avvolto un cavo di canapa collegato al peso da sollevare. Il marchingegno viene azionato dall'interno, dentro la gabbia c'è un uomo che si limita semplicemente a camminare in avanti ed è sufficiente il peso del suo corpo per farla ruotare su se stessa. L'uomo nella gabbia sta sollevando una pietra enorme, pesa almeno 500 chilogrammi e probabilmente si tratta di una chiave di volta.

Bernardo da Treviso alza gli occhi e mi riconosce. In un attimo si disimpegna dai suoi fratelli muratori, zoppicando mi viene incontro col regolo in mano e mi cinge le spalle con la mano libera. Attraversiamo un angolo della chiesa, i muratori stanno chiudendo il tetto di una cupola tonda, usano un'asta di legno con un estremo fisso ed uno mobile, fissano un capo dell'asta al centro geometrico della cupola e spostano l'altro capo verso l'alto in tutte le direzioni, a mo' di raggio della calotta in costruzione.

Entriamo in una baracca che funge da deposito di attrezzi. Sono emozionato:

«Ti ammiro Mastro Bernardo, innalzare una cattedrale è sempre opera d'inaudita arditezza».

«Spero di vivere abbastanza a lungo per vedere completata la costruzione. Così potrei tornare a vivere a Venezia. Tu, hai per caso intenzione di fermarti a Zara, nel nostro cantiere?».

«No, Maestro non posso... sono di passaggio, vengo dalla Romania».

Egli posa il regolo sul tavolo:

«Peccato. Certamente avrai imparato qualcosa di utile dal tuo viaggio».

«Beh... ecco qualcosa sì, ma non riguarda direttamente il mio lavoro, ricordi quando accennavi ai tre arcani del medaglione, Mercurio - Sale e Zolfo, l'uomo che cavalca il mostro mezzo cane e mezzo ariete? Ebbene da allora ho iniziato a vedere le cose con occhio diverso e grazie ad un'improvvisa rivelazione ho finito per scoprire il significato anche dell'altro medaglione, il Pavone assiso sulla sfera.

La sua ruota dai cento occhi è l'emblema della Prima Materia, è lo specchio della verità, e chiunque vi si rifletta con gli occhi dello spirito immediatamente si riconosce nella sostanza dell'universo. Credimi Maestro non si tratta affatto di un concetto astratto, sebbene la Prima Materia sia pura potenzialità assoluta ho potuto sperimentarne direttamente la tremenda potenza e darei la vita perché ogni essere umano possa provare altrettanto. Questa esperienza mi ha cambiato profondamente, ora non ho più interesse per le ricchezze terrene: ho fra le mani una coppa preziosissima, se volessi venderla diventerei ricco all'istante e invece... invece la restituirò a coloro cui era stata sottratta, la famiglia del Doge. Lo vedi, se ora bramo dell'oro è soltanto quello magico, poiché la diretta conoscenza della Prima Materia vale più di tutto l'oro del mondo messo insieme».

«Lascia stare i voli pindarici della magia, smetti di fare il sognatore e torna coi piedi sulla terra. Causa l'inverno, a dicembre abbiamo fermato i lavori della cattedrale e abbiamo ricoperto i muri con paglia e letame perché il gelo non facesse danni. Della pausa ho potuto approfittare per riflettere sul progetto ma ho trovato anche il tempo per ascoltare un po' di sana filosofia: un frate di Zara ha avuto la bontà di parlarmi delle opere di Aristotele tradotte in latino da Giacomo da Venezia».

«Forse l'erudita filosofia di Aristotele nega valore ad esperienze come la mia?».

«Stai tranquillo, la via alla conoscenza era concepita da Aristotele non come sterile erudizione ma come una serie di esperienze e di stati d'animo che accentuano fortemente la sensibilità interiore. Per una filosofia rivolta più alla terra che al cielo la Prima Materia resta un concetto intelligibile, in altre parole è possibile accedere ad essa con un atto di pensiero e dunque pur essendo priva di forma può essere oggetto di esperienza diretta. In concreto...».

«Scusa se ti interrompo. Però, per quanto eccellente filosofo, Aristotele non ha mai trovato...».

«La pietra filosofale? Chi te lo dice, la pietra filosofale non è soltanto quella che trasmuta il piombo in oro, la si può intendere anche come espressione simbolica di una operazione interiore che richiama le operazioni di laboratorio solo per analogia. In questo senso Aristotele corona la ricerca della pietra filosofale nel concetto del Sinolo, cioè l'unione della sostanza e della forma nell'armonioso equilibrio tra l'Essere e il Divenire».

«Grandioso!».

«La pietra grezza così com'è nella cava è sostanza che giace in potenza, diventa forma sotto l'azione dello scalpellino che la trasforma in pietra tagliata, ma solo nel cubo perfetto della pietra cubica si ha il compimento, l'equilibrio e la stabilità che ci consente di usarla come pietra angolare su cui basare l'intera struttura dell'edificio».

«Sei un vero filosofo Maestro Bernardo, quel che dici è pieno di saggezza. Mi resta un ultimo dubbio... da molto tempo c'è un problema che mi assilla: io mi domando ove sia la dimora della Realtà.

E' nel Divenire, nell'implacabile scorrere del tempo? O è nella quiete dell'Essere che al tempo invece si sottrae? Che ne dice Aristotele?».

«A dire il vero... il frate non me ne ha parlato».

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birillino8
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Messaggio da birillino8 »

Non c'è un filo d'aria. Pur essendo in grado di bordeggiare, la nostra galera fa una sosta in alto mare insieme ai vascelli pesanti, la loro andatura risulterebbe così lenta che l'intero convoglio preferisce gettare le ancore e aspettare l'arrivo di un vento favorevole. Ne approfitto per tuffarmi in mare, il bordo del parapetto è solo a un paio di metri dalla superficie. Il tuffo carpiato mi riesce abbastanza bene, penetro in acqua a braccia tese, risalgo in superficie e afferro la corda che pende dal fianco della nave. Mi arrampico a forza di braccia puntando le gambe contro lo scafo, guadagno il parapetto, lo scavalco e approdo sul ponte.

Il ponte unico della nave è sovraffollato, le donne ricamano, i bambini giocano a rincorrersi, gli uomini si allenano con le armi e in disparte, alcuni mercanti fiamminghi discutono animatamente fra loro. Infilo la tunica sulla pelle bagnata e mi fermo ad osservare due uomini che si affrontano a torso nudo con delle mosse di lotta greco-romana. Il milanese, più alto e robusto, stringe le braccia come una morsa d'acciaio, le aggroviglia con le membra dell'avversario, lo atterra e lo costringe alla resa. Quindi si rialza dando la mano all'avversario, si gira sorridente e mi saluta appena mi riconosce.

Alberto Rossi è un trentenne del Comune di Milano e ha combattuto con la Lega Lombarda a Cortenuova. E' imparentato alla lontana con una famiglia di banchieri all'apogeo della ricchezza, ma a causa della loro avarizia non vi ha tratto alcun vantaggio e deve perciò guadagnarsi il pane facendo il servitore al soldo dei mercanti fiamminghi. Al contrario dei suoi parenti, i fiamminghi sono molto prodighi anche se lo costringono ad un incessante impegno per soddisfare le loro esigenze perché sono ghiotti, fannulloni e molli come il burro.

Sul ponte della nave il sole cocente batte sulle nostre facce e risfavilla negli occhi di Alberto, egli mi soverchia di ben tutta la spalla e la bruna capigliatura gl'inonda il collo e le ampie spalle. Mi intrattengo piacevolmente col nuovo amico mentre rievoca le ultime battaglie contro Federico II, non abbiamo opinioni comuni di contro alla politica imperiale, qualcosa ci differenzia e traccia una linea di demarcazione tra le nostre rispettive posizioni.

Egli narra che nell'autunno inoltrato del 1237 Federico II li trasse in inganno e fece loro credere di ritirarsi a Cremona, per il riposo invernale delle truppe. Gli uomini della Lega fecero altrettanto e levate le tende da Pontevico, risalirono a nord lungo la riva sinistra del fiume Oglio per muoversi alla volta di Milano. Raggiunto il terreno ormai molle e fangoso di Cortenuova, stavano iniziando il trasbordo sulla riva opposta del fiume quando furono colti di sorpresa da un'avanguardia di Cavalieri Teutonici e di masnadieri di Ezzelino. Seguì ben presto il grosso dei ventimila imperiali alla carica. Con il fiume alle spalle i Lombardi erano sul punto di venire travolti e schiacciati, ma loro, duri sotto la pioggia, si schierarono intorno al carroccio carico degli stendardi consacrati, della croce e delle reliquie. Fu una autentica carneficina, ma riuscirono a resistere caparbi fino al calar del sole, allorché le due parti si ritirarono esauste negli accampamenti.

Le prospettive di dare battaglia il giorno seguente erano pessime, perciò approfittarono delle tenebre per andarsene di nascosto. Fu una disfatta umiliante: il carroccio con le ruote impantanate nel fango venne abbandonato al nemico, il podestà di Milano (un Tiepolo) fu ridotto in catene a Cremona, si contarono diecimila perdite tra morti e prigionieri, molti detenuti furono mutilati, e le vedove e gli orfani costretti a subire ogni sorta di tribolazioni.

Segue il mio turno:

«Mio malgrado, anch'io fui in armi contro Federico II, dodici anni fa, durante la crociata anti-imperiale di papa Gregorio IX. Ero sotto il comando dell'ammiraglio Marco Zorzano e ho partecipato alla battaglia navale contro Ancona. La Marca Anconetana, ex feudo pontificio degli Estensi, era ritornata da non molto sotto il controllo di un vicario imperiale.

Quel giorno il mare era calmo, l'Adriatico era illuminato dai raggi obliqui di un sole già basso e rifletteva il cielo come uno specchio. Vedemmo spuntare il nemico all'orizzonte, un nugolo di vele protese su di noi col vento a favore. Presto le due schiere vennero ad impatto e nei pressi della costa si addensò una moltitudine di navi che si cercavano a vicenda nella mischia. Una lunga galera anconetana sfiorò la nostra a tutta velocità e i tiratori di balestra arrampicati sugli alberi ci scagliarono contro uno sciame di frecce. La balestra è veramente un'arma micidiale: accanto a me uno dei nostri uomini fu trapassato da parte a parte da una freccia d'acciaio e venne proiettato all'indietro contro il castello di prua, rimase appeso in piedi con la punta della freccia conficcata nella parete, impallidì e morì sul colpo.

Appena il vento cambiò direzione, ne approfittammo per dirigerci a tutta forza verso una nave vicina puntandole contro gli speroni della prua... ci fu un boato, l'urto si accompagnò ad una scossa violenta, la nave vibrò paurosamente e ci aggrappammo per non cadere a terra.

Subito le voci secche dei comandi, rumore di ferraglia, di armi sguainate: arrembaggio, arrembaggio!

I nostri armeggiano con ramponi e catene di ferro per saldare i fianchi delle due navi, alcuni appoggiano le scale e altri si arrampicano a mani nude sui bordi della nave nemica. Gli anconetani lanciano frecce sugli assalitori e li aspettano al varco sporgendo agguerriti le picche».

«Ma tu cazzo hai fatto?».

«Panico, avevo diciassette anni. Scappo indietro e finisco sulla spada spianata di un ufficiale: dal suo sguardo deciso capisco che se faccio un altro passo indietro mi uccide sul posto. E allora corro all'attacco, metto il pugnale fra i denti e salgo su per una scala, supero con un salto il bordo della murata e atterro sulla prua nemica a dare man forte ai nostri. Si cerca di strappare terreno sul ponte, avanziamo a scatti fulminei cui seguono ritirate altrettanto rapide e così avanti e indietro, a ondate, per alcune volte. Ad ogni ritirata il corpo a corpo lascia sul terreno morti e feriti. Gli anconetani non riescono a ributtarci in mare, si asserragliano attorno al trinchetto e si difendono coi coltelli, sembrano meno numerosi e dopo una lunga resistenza all'improvviso si arrendono. Vengono fatti tutti prigionieri. Sui pennoni della galera conquistata viene alzato lo stendardo di S. Marco. I galeotti cristiani vengono liberati dai ceppi e muniti di armi, gli infedeli restano legati ai remi.

La battaglia infuriò cruenta fino a sera, allorché cominciò a volgere a nostro favore. Intorno c'erano gruppi di tre o quattro navi incastrate insieme, i Veneziani passavano speditamente dall'una all'altra alla rincorsa dei fuggiaschi. Gli anconetani allo sbando si tuffavano in mare, nuotavano disperatamente tra i remi spezzati e tra i rottami di carena che galleggiavano mezzi sommersi.

Con una manovra larga, gli equipaggi freschi della retroguardia veneziana si erano portati alle spalle della flotta nemica e l'avevano costretta a rasentare la costa con la chiglia a un pelo dal fondo. Accerchiate e strette in una morsa, le navi anconetane vennero catturate ad una ad una e ammassate al centro. Fu appiccato il fuoco a una galera, divampò rapidamente e si propagò al fianco delle navi vicine. I Veneziani si liberarono in fretta dai vincoli dei ramponi e con una tempesta di frecce infuocate estesero l'incendio a tutte le navi nemiche.

Intorno alla ammiraglia di Marco Zorzano i marinai esultavano per la vittoria e intanto ci si allontanava dalla flotta anconetana in fiamme».

«Accidenti, chissà che spettacolo impressionante eh? vedere una flotta in preda alle fiamme, galere costosissime e perfette, costruite con lunghe fatiche e distrutte in un baleno».

«Sì, impressionante. Scesa l’oscurità, davanti ai nostri occhi si staglia uno scenario spaventoso: le navi si accendono in rapidi bagliori di fiamme, esplodono tizzoni ardenti che proiettano scie nella notte e, simili a lava incandescente, i riflessi del fuoco sull'acqua si rincorrono vividi. Gli alberi maestri cadono rovinosamente, con uno schianto secco. Si ode un sottofondo infernale di urla atroci, i galeotti incatenati ai remi e impotenti davanti al fuoco. L'odore acre della carne bruciata arriva dalle salme abbandonate sul ponte, divampano in un lampo per effetto dell'intenso calore.

La tragedia delle navi nemiche volge all'epilogo, dopo tanto clamore di battaglia un silenzio mesto e profondo scende sul mare. Gli anconetani s'inceneriscono nei roghi sull'acqua come nel corteo funebre di un funerale vichingo. Il fuoco si consuma divorando ingordo le ultime navi: si tinge di rosso brillante, l'onda che a sera spinge lontano le barche con il rogo, con tremulo baglior di luce muore danzando l'ultima fiamma, nel mare tenebroso».

Un silenzio glaciale segue per un attimo la mia esposizione, guardo Alberto profondamente negli occhi:

«Sarò forse un ingenuo sognatore, ma non riesco ad accettare che tante giovani vite siano finite inutilmente in preda alla morte a causa delle smodate ambizioni di un uomo, uno soltanto, curvo sotto il peso dei rimorsi».

Alberto mi appoggia una mano sulla spalla:

«Telo lì, sua eccellenza l'Imperatore doveva pur sbizzarrirsi a passare il tempo».

«Poteva allora limitarsi alle prede innocenti gettate nelle unghie dei suoi prediletti falconi. Non gli bastava... condurre sul terreno il falco incappucciato tenendolo sul pugno durante la cavalcata, seguire la muta dei levrieri che cercano di scovare gli uccelli e appena avvistata la preda, scappucciare il falcone per lanciarlo alla caccia. Non gli bastava... ammirare il Falco Pellegrino che solleva la testa arrotondata, gonfia il petto chiaro e barrato, spalanca le ali scure e volteggia in alto nel cielo scrutando lontano con i suoi occhi sporgenti. E vederlo d'improvviso chiudere le ali, gettarsi in picchiata sulla preda a velocità vertiginosa: ecco l'impatto, uno sfortunato volatile viene centrato, il falco gli ha sferrato il colpo d'artiglio, lo stordisce, gli fa perdere l'equilibrio e lo finisce con un colpo di becco sulle vertebre cervicali.

Immagino sia un passatempo attraente, misto di forza agilità e abilita di caccia, cruento... ma sempre meglio del lanciare l'aquila imperiale alla conquista dei Liberi Comuni».

«Il fatto è che se non era per quel tedesco figlio di macellaio, ce n'era sicuro un altro al suo posto. In ogni epoca il nostro travagliato mondo ha dovuto subire guerre e distruzioni a causa del prepotente di turno, perché appena un regno raggiunge prosperità e ricchezza subito si avventa sulle regioni confinanti, ed è sempre lo stesso male ricorrente, l'ingordigia sfrenata che schiaccia ed umilia i più deboli.

Quando i Romani cercavano oltre i mari e ai deserti nuovi regni da devastare e incatenavano principi e popoli liberissimi, si sono eletti a ladroni del mondo e hanno inaugurato il vicendevole divorarsi delle nazioni. I barbari, da loro schiavi che erano ne son divenuti i padroni. Terminate le invasioni barbariche sono arrivati i Bizantini e i Franchi e i Longobardi e gli Arabi, e non ha avuto fine la catena delle nazioni che sono oggi tiranne per maturare la loro schiavitù di domani».

«Se è così, ora è il turno dei Mongoli! L'Orda d'Oro dei discendenti di Gengis Khan ha invaso la Russia, ha saccheggiato Kiev e ha sconfinato nella Polonia e nell'Austria. Il gran khan dei Mongoli, ha messo in pericolo le frontiere dei baroni tedeschi, addirittura ha spedito una lettera a Federico II per invitarlo a sottomettersi al suo volere. L'Ungheria è stata invasa e distrutta e le orde tartare incombono ora direttamente sull'Adriatico, a Spalato si sono già affacciate sul Golfo di Venezia.

Quella massa umana spinta dalla violenza preme alle porte dell'Oriente annunciando sciagura al popolo greco: in Asia Minore i mongoli Turcomanni stanno smembrando l'Impero Latino d'Oriente e hanno risparmiato solo la stretta fascia costiera dell'Anatolia occidentale».

«L'indipendenza dei regni è cosa fragile, no?, sotto la continua minaccia di eserciti votati alla conquista. Eraclito diceva bene che la guerra è in tutte le cose, che la giustizia è conflitto e che tutto accade necessariamente come frutto di una lotta. Visto che ferro e fuoco non si possono evitare, non resta che imparare a vivere nel fuoco senza bruciarsi».

«Con la costanza della salamandra?».

«Eh».

«E' un vero miracolo che in mezzo a questa mischia di predoni Venezia sia rimasta indipendente per più di 500 anni e che tuttora rivendichi la propria autonomia sull’autorità dell'Impero e di chiunque altro, fosse anche il Papa».

«Non così per Milano. Noi ci appoggiamo di fatto alla sovranità indiscussa del Papa, sarà che siamo cittadini di un libero Comune e quello che vuoi... ma poi i milanesi, anche se non sembra, sarebbero disposti ad accettare pure la sovranità dell'Imperatore. Eh, sì. La questione non è se i milanesi riconoscano o no sul loro Comune un’autorità superiore, ma quali ne siano i limiti e le prerogative».

«Pure i Veneziani sarebbero dispostissimi ad accettare un Imperatore che, al di sopra delle parti, rappresenti un'Europa unita nella giustizia e nel rispetto dei piccoli popoli; un Imperatore saggio e onesto che si limiti a tenere a bada i ladroni di turno. Se io fossi un nobile sarei ghibellino».

«Io invece sono un guelfo, per la madonna. Mi inchino alla sovranità del Papa e non tornerei indietro neanche se mi ammazzano, senza contare che tra la mia famiglia e i ghibellini c'è sempre stata una vecchia ruggine, il mio bisnonno era andato a giurare a Pontida per la libertà dei Comuni».

«Mi son prima venexian e despò cristian. Finora la Grande Ladrona e la sua alleata non hanno mai posto limiti alle loro prerogative, avide unicamente di preservare e mummificare il loro potere, due mostri sbucati fuori dall'Apocalisse.

La bestia scarlatta e la sua amante seduta sopra a gambe larghe, madre delle meretrici e delle abominazioni della terra, la ricca signora che fornica con le sette lingue e i cento tentacoli della sua compagna. Bestia riboccante di nomi blasfemi, colei che era ed è ancora».

«Porca puttana, mi pare che stiamo esagerando un po'».

«Hai ragione, mi son lasciato un po' trascinare. Però senza la loro oppressiva presenza ogni comune potrebbe vivere in pace sul suolo italico, liberandosi dal fardello delle tasse e della corruzione onnipresente».

«Non è mica facile. Senza il controllo e il benestare pontificio tutto finirebbe nel caos e nella disgregazione. Scusa tanto, ma non vedi l'incontrollabile formicolio di Comuni sparsi sul suolo italico, tutti infarciti di invidie, ognuno in guerra col vicino? Milano contro Cremona, Venezia contro Verona. E' un tale casino. Alleanze, guerre, tradimenti, e nuove alleanze e nuovi voltafaccia si intrecciano a ritmo vertiginoso. Al di fuori della Lega Lombarda non è pensabile altra forma di coesione fra Comuni, se non con i metodi dispotici di Ezzelino da Romano che solo grazie all'uso della forza ha potuto riunire sotto di sé Verona, Padova, Vicenza, Trento e per un paio d'anni anche Treviso».

«La Lega Lombarda ha commesso un errore. E se continua su questa strada non potrà certo estendersi al di là della pianura Padana. Si è intromessa a Verona con il pretesto di ristabilire la pace fra le fazioni in lotta, ha imposto alla città un podestà milanese e poi, quando Ezzelino le ha consegnato in catene il conte Rizzardo di San Bonifacio, lo ha liberato. I da Romano possedevano una lunga tradizione antisveva, Ezzelino era nella Lega, non dovevate beffarlo e sottrargli il sostegno politico per favorire i suoi rivali Estensi».

«Ma cazzo dici, pur dopo molti contrasti e con grande diffidenza Ezzelino era stato confermato nella Lega e se egli ha cambiato insegne è perché comodava ai suoi interessi.

Noi favorire gli Estensi? Bella scusa, ricordati che nella battaglia di Cortenuova, ben cinque anni dopo il tradimento di Ezzelino, gli Estensi erano ancora e sempre schierati dalla parte dell'Imperatore».

«Certo, hanno dimostrato fedeltà... ma voi fin dall'inizio li avevate lusingati per poterli tirare dalla vostra parte in cambio di Ferrara, e che cosa avete ottenuto dalla girandola di alleanze rovesciate? Che la Lega ha perso la Marca Trevigiana e ha guadagnato un avversario scottato e diffidente come Ezzelino. Egli ha combattuto nemici personali ed ex alleati con tanto di avvallo del bando imperiale e ha aperto il passo della Val d'Adige alle migliaia di cavalieri provenienti dalla Germania».

«Niente, non c'è soluzione a queste beghe senza fine».

Interviene sommariamente un genovese che stava ascoltando i nostri discorsi: «La soluzione equilibrata e realistica è una ventina di grandi Ducati, federati in un unico regno. Solo una Lega del genere potrebbe andare bene anche a Genova, perché per essere amici bisogna che ognuno resti padrone in casa propria».

«Forse sì -ribatte Alberto-. Pensandoci bene non è poi un'idea tanto assurda, perfino la Germania è divisa in una ventina di regioni tra Ducati e Contee e in effetti queste sarebbero rimaste libere se non si fossero lasciate comprare dalla moneta sonante dell'Imperatore».

«Certamente -incalza il Genovese-. Ogni Ducato e quello Genovese ne sia d'esempio, può avere in sé la capacità di autodeterminarsi e questo vale per tutti i Ducati l'Europa».

«Un'Europa in cui tutte le lingue hanno il diritto di essere parlate liberamente» ancora Alberto.

«Ecco, hai capito, ovunque c'è una lingua c'è un Ducato da rispettare. La faremo finalmente finita con il Latino, la lingua universale del Sacro Romano Impero, la lingua morta della messa che nemmeno i preti capiscono più. Il futuro sarà nelle lingue volgari» aggiunge il genovese.

L'espressione di Alberto si rabbuia:

«Grazie tante, a me il futuro mi mette in ansia. Cazzo ne so, prima o poi i successori dell'Imperatore potrebbero spuntarla sulla Lega Lombarda. Se questa volta dovessimo cadere sotto il giogo di un nuovo Imperatore sarebbe finita per sempre, non vedo futuro possibile. Quel pirla di Corrado IV si prepara a scendere in Puglia per rivendicare il titolo imperiale, il che è di pessimo auspicio».

«Comunque vada non bisogna mai disperare -conclude il genovese-. Io mi consolo pensando che se fatalità un giorno, vittima di un Mongolo o di un perfido tiranno, il nostro Ducato dovesse cadere sul campo di una formidabile battaglia il popolo genovese continuerà pur sempre ad esistere, poiché se anche vengono cancellati i nostri confini non è detto che muoia la tradizione e la lingua della nostra gente. Ne sia d'esempio l'ammirevole popolo ebraico che senza avere un proprio reame da più di millecinquecento anni e cioè da quando il regno d'Israele fu distrutto dagli Assiri, pur tuttavia ha mantenuto la fermezza di una compagine cosciente della propria peculiarità ed autonomia di pensiero».



* * *



Un preziosissimo calice d'oro massiccio, una moltitudine di rubini sul suo bordo superiore, quattro grossi smeraldi ai quattro lati e incastonato sul manico un diamante enorme, stupendo, raggiante di riflessi dorati come la stella del mattino che annuncia l'aurora: di sicuro non torno a mani vuote dal Levante, ho un tesoro inestimabile da consegnare ai piedi della regina dei mari.

Dopo aver costeggiato la Dalmazia e le coste dell'Istria, le vele della carovana si spingono nel golfo schierate come lo stormo di aironi in arrivo da un lontano continente. L'acqua della laguna è iridata, ha i riflessi mobili e cangianti dell'opale. Nidi abbandonati, costruiti con canne ed erbe palustri, occupano i salici degli isolotti.

In piedi sul ponte della nave fisso costantemente i canneti all'orizzonte. Attendo con ansia l'avvistamento. E' vicina. Lo sento. Da quando la lasciai ho subito una profonda trasformazione e non solo nell'animo, fisicamente sono cambiato al punto di essere quasi irriconoscibile. Sono molto più robusto di quand'ero partito: a forza di remare sui banchi della galera sono diventato muscoloso, pur restando stretto in vita e armonico nelle proporzioni. Sul viso la pelle è liscia e abbronzata, le labbra carnose hanno ritrovato un costante sorriso e i capelli, strapazzati dalla salsedine, si sono ricoperti di ciocche bionde che s'illuminano di riflessi dorati sotto i raggi del sole.

Ecco... Venezia esce dal mare! La prima potenza marittima del Mediterraneo emerge dalle acque. Sei secoli fa, era la sede di una minuta comunità di pescatori e salinai, una remota provincia bizantina sperduta tra paludi e canneti, ma metro dopo metro ha strappato lo spazio per le sue case alla viscida melma della laguna, si è fatta Ducato e Libero Comune, ha ottenuto lode e riconoscimento dagli imperatori d'Oltralpe e con audacia sproporzionata ha proiettato nel lontano Levante le sue ambizioni. Oggi, grazie alla corale volontà di sopravvivere del suo piccolo popolo di mercanti, di falegnami e di artigiani, la città lagunare si impone vincente ad arbitro e protagonista nella scena del Mediterraneo.

L'approssimarsi del molo d'attracco di Riva degli Schiavoni mi comunica una tale frenesia che non sto nella pelle dalla voglia di scendere giù a riabbracciare forte la mia città. Al colmo della gioia, con il cuore che sta per scoppiarmi nel petto, mi sforzo di trattenere le lacrime davanti agli occhi della ciurma.

So che questo momento rimarrà indelebilmente stampato nella mia memoria. Affascinato dall'incanto della visione non riesco a staccarmi dal Leone assiso sopra la colonna della Piazzetta, a fianco delle architetture bizantine del Palazzo Ducale. E' in arrivo un temporale estivo e già si scorgono in lontananza i bagliori dei lampi, ma uno squarcio di cielo terso sovrasta ancora la colonna. Il Leone ha zampe possenti e i riccioli della criniera scendono ondulati sul collo a mo' di raggi solari, il volto ruggente è scolpito come una maschera su occhi imperscrutabili e le sue ali da cherubino si aprono maestose verso il cielo. Questa chimera a me cara sopra ogni cosa è l'emblema vivente di un'unica storia intessuta da milioni di vite. V'è chi la dice antica di mille e più anni, miracolosamente scampata a infiniti tentativi di annientarla, eppure la chimera vive, respira l'arco dei secoli, è ancora qui, integra, a testimoniare l'arcano mistero della Pax profunda ai centomila Veneziani sparsi fra la città e le coste orientali del Mediterraneo.

All'improvviso dall'alto dell'albero maestro un marinaio grida a gran voce:

Viva San Marco! e quel nome, come goccia che cade in un vaso colmo e lo fa traboccare, trae ai miei occhi lacrime irrefrenabili.

Scendo a terra, è il 19 agosto. Che effetto mi farà incrociare lo sguardo terribile del Doge? Quale fine mi toccherà dopo avergli consegnato la Coppa?

Indossando una grande cappa di cotone entro direttamente nel cortile interno del Palazzo Ducale. Mi piazzo sulle panche del porticato con le spalle appoggiate al muro, fatalità sono seduto appena sotto la bocca del mascherone, quello in cui si depongono le denunce segrete indirizzate all'Inquisizione. E' comunque la posizione ideale per osservare indisturbato la scala che scende dal portale interno del Palazzo. Ho l'ampio cappuccio abbassato sugli occhi e spio di traverso fra le colonne e non stacco un momento lo guardo dalla scala, nella speranza di cogliere l'uscita del doge. Al centro del cortile mi fa compagnia un uomo alla gogna con i piedi trattenuti nei ceppi di legno.

Trascorro un giorno intero in trepida ed immobile attesa, nessuno mi riconosce. Solo la tonaca di alcuni domenicani di passaggio mi fa rabbrividire. Finalmente vedo il doge Marino Morosini che esce dal portale e scende frettolosamente la scala, lo seguo con lo sguardo e dalla sua direzione intuisco che va alla Basilica.

La Basilica d'Oro è collegata al Palazzo Ducale ed in pratica rappresenta la cappella personale del doge, tanto che la sede del vescovo sta altrove. Il Morosini non ama mescolarsi alle cerimonie ecclesiastiche ed alle messe sontuose della Basilica, se non quando vi sia costretto da obblighi formali. Egli preferisce raccogliersi entro una graziosa cappelletta basilicale addossata alla facciata che da sul cortile del Palazzo Ducale, appunto di rimpetto alla scala del portale interno.

Proprio alla cappelletta è diretto il doge, solo, senza scorta. E' invecchiato moltissimo; dalla notte del processo sono passati solo otto mesi, un periodo volato per me alla velocità della luce, eppure a vedere lui sembra siano trascorsi dei secoli.

Mi alzo dalla panca e lo seguo stringendo fra le mani la bisaccia che contiene la Coppa. Stremato, incapace di sopportare ulteriormente la penosa incertezza della mia condizione, sono pronto a rischiare il tutto per tutto. Non rinuncerò al compito che mi sono prefissato, un impulso imperativo e categorico mi obbliga a riconsegnare la Coppa al doge, ottenga o no il suo perdono affronterò il mio destino, qualunque esso sia.

Sono davanti alla porta della cappelletta. Busso. Entro al cospetto di Sua Serenità e da in ginocchio che era egli s'alza in piedi con aria interrogativa.

Spiego con voce calma:

«Voglio consegnare un prezioso oggetto: appartenente alla Sua nobilissima famiglia, andato perso quando Manuele Comneno arrestò i Veneziani di Bisanzio, finito nelle mani dei Crociati Ospitalieri col saccheggio della Basilica di Santa Sofia. L'ho ritrovato a Cipro e lo porgo al suo legittimo possessore».

Estraggo il calice dalla bisaccia e glielo presento a braccio teso. Il doge lo afferra in silenzio con lo sguardo pieno di stupore, è ammaliato dal vivace luccicare del suo oro e delle sue pietre preziose, lo innalza sopra la fronte nel chiarore evanescente del tempietto.

La cappella sale slanciata ed elegante verso l'altissimo soffitto, al di sopra dei pilastri sei archi a sesto acuto si riuniscono all'apice e vanno a formare le nervature della volta a crociera. Lo spazio tra i sottili pilastri è interamente occupato da lunghe finestre ogivali che inondano di luce l'interno.

Oh chiara luce! Le vetrate multicolori diffondono un nitòre senza confronti e comunicano la netta sensazione di un luogo in cui regni il soprannaturale. Sospesi sopra la porta d'ingresso spiccano i dipinti degli scudi di famiglie nobili e fra questi lo stemma dei Morosini, una striscia azzurra in campo oro.

Il doge fa qualche passo sulle sue calzature scarlatte e posa la Coppa sull'altare. Prende poi del vino rosso, lo versa nel vaso finemente decorato di spighe e beve dal calice sollevandolo a due mani.

La mia mente arde d'intenso fervore, in ogni particella del mio spirito sento palpitare un'energia sconosciuta, una sensazione di totale pienezza appaga in me i lunghi tentacoli del desiderio. Per un attimo il mio spirito non ha più confini... sprofonda negli abissi del tempo, vi raccoglie la luce dell'anima e vibra all'unìsono con la grande Anima del Mondo.

Il Doge si volge sorridente:

«Ora mi rammento di te, sei Petrangésio, il mosaicista della Basilica d'Oro. Fra tre giorni ti comando da me in udienza al Palazzo Ducale».

Mi inchino ed esco.



* * *



«Il Papyrus di Micca non figura nell'Indice dei libri proibiti - sentenzia il doge seduto nella saletta delle udienze -. E' stato analizzato a fondo dall'Inquisitore, grande esperto di lingua greca latina ed ebraica. Egli me ne ha letto personalmente la versione tradotta.

Manifesta conclusione: il manoscritto è una semplice raccolta di ricette per fabbricare tinture e vernici, non contiene alcun riferimento a dottrine eretiche. Già il suo nome fa sorridere... Micca vuol dire pappa: il papiro della pappa...» e ridacchia fra sè.

In piedi al centro della saletta, alzo gli occhi al cielo e faccio un ampio respiro di sollievo. Sopra le spalle del doge noto soltanto adesso un grande affresco.

Poi chiedo:

«Mi perdoni Sua Serenità, che ne è ... del mio compagno di cella?».

«Il greco?».

«Sì, Zagreo».

«Siamo ancora in attesa che il Consiglio voti la pena» secco.

«Ma, allora è vivo?».

«Il giorno dopo l'interrogatorio abbiamo catturato il suo complice, un greco che ha confessato tutto.

Zagreo ha fatto scalo a Smirne e là, nell'Impero di Nicea, ha incontrato il complice. Hanno fatto il viaggio insieme su un mercantile genovese.

La missione di Zagreo non si esauriva a Verona col raccogliere i fondi di Ezzelino: bisognava consegnare a Genova un messaggio urgente di Giovanni Vatace.

Il messaggio dell'Imperatore di Nicea sanciva la disponibilità dei greci ad accettare il patto loro proposto dai genovesi. Il piano congiunto prevedeva un abbandono degli accordi tra genovesi e veneziani, nonché un trattato di alleanza tra Genova e Nicea per la riconquista di Candia».

Il doge Morosini è seduto su una poltrona riccamente intarsiata e indossa una semplice tunica che unicamente per il suo colore purpureo attesta la regalità del personaggio.

Egli intende conferirmi un incarico ufficiale per il vestibolo della Basilica e cioè la decorazione a mosaico della cupola laterale, proprio quella che esternamente corrisponde al riquadro dei quattro medaglioni della piazzetta dei Leoni:

«Da ora innanzi sei reintegrato nel tuo ufficio presso il laboratorio dei mosaicisti della Basilica d'Oro. Il vostro Capomastro è gravemente ammalato e si è ritirato definitivamente dal suo posto...».

«Oh, Mastro Apollonio, quanto mi spiace».

«Sarà tuo compito dirigere la decorazione della seconda cupola del vestibolo laterale, riprenderai la storia di Giuseppe iniziata da Mastro Apollonio, egli aveva finito la prima cupola ancora vent'anni fa ma il doge che mi ha preceduto, troppo impegnato a trattare con gli Armeni e a combattere Ferrara, non ha completato i mosaici.

Dovrai concepire lo svolgimento della storia come l'illustrazione di una lezione morale. Lo scopo catechetico, anzitutto, prima di quello storico ed estetico. Il mosaico dovrà essere facilmente comprensibile alla gran massa dei popolani che non può apprendere la Bibbia da una diretta lettura.

Poiché ha detto l'evangelista Marco: a voi è dato il mistero del regno di Dio, ma a coloro che ne sono privi, ogni cosa è fatta tramite parabole».

Uscito dall'udienza del doge, ritorno tra le vetrate della cappelletta. Essa è riservata al doge e a pochi altri eletti ma io vi avevo libero accesso in qualità di addetto alla manutenzione dei pavimenti musivi. Al suo interno prego San Marco con devozione, in ginocchio a terra sul mosaico con la punta delle mani giunte a contatto delle labbra. A capo del laboratorio non sono mai stato ed il ruolo di direttore dei lavori è pieno di incognite e responsabilità, perciò chiedo aiuto al nostro evangelista e invoco la sua benevola ispirazione per l'opera di abbellimento della cupola.

Poi alzo lo sguardo dal pavimento e nuovamente assaporo la suggestiva atmosfera che avvolge e satura quel luogo sacro. Osservo la volta che s'innalza con slancio e le altissime finestre istoriate che riempiono le pareti e creano una struttura così aerea che pare sorretta da un incantesimo. La luce del sole attraversa i vetri colorati e li fa rifulgere, l'effetto è carico di fascino, un vibrare di immagini pulsanti che danno vita a personaggi di sogno. Sulla finestra avanti a me è descritta l'apparizione che si verificò nel solstizio d'estate di duecento anni fa, allorché l'evangelista si mostrò ai fedeli della Basilica sotto la forma emblematica di un leone alato.

Mentre lo guardo con occhi trasognati, il leone di San Marco s'illumina sulla finestra, vibra in un gioco di vividi colori, fa risaltare i nitidi contorni della sua immagine e comincia ad animarsi di vita propria... Nel buio si accendono bagliori di fugaci esplosioni e lunghe colate di lava scendono dalle bocche aguzze dei vulcani: tra fiumi infuocati e zampilli ardenti che proiettano scie nella notte si scatena lotta furiosa tra il sulfureo leone e l'aquila d'argento vivo. Agitando ali maestose, l'aquila si difende col becco e con gli affilati artigli, si batte coraggiosa, accanita, ma è sul punto di soccombere e vittima del calore intensissimo del luogo, all'improvviso s'incendia.

Rimane un misero cumulo di ceneri. Ma ecco da questo prende corpo una sagoma d'uccello e tornata miracolosamente in vita l'aquila ricomincia a lottare. Il combattimento sembra destinato a non avere fine, più volte il leone serra le fauci sulle sue ali, la piega, la trascina in terra, cerca di assestarle il colpo di grazia con la zampata, inutilmente: all'ultimo momento, il leone deve ritirarsi veloce per non venire avvolto da un rogo di piume in fiamme. Così, mentre ogni volta l'aquila risorge dalle sue ceneri fresca e rinvigorita, con l'andar del tempo il leone è sempre più affaticato, coperto di ustioni e di profonde ferite.

Al colmo dell'ira il leone spicca un ultimo fulmineo balzo, calpesta rabbioso le ceneri fumanti, e grossi rivoli di sangue scendono lungo le zampe sulle polveri argentee e la cenere si mescola al sangue e il sangue accende la cenere e genera un eccezionale prodigio: il manto del leone riluce d'oro, ali incandescenti si fissano mirabilmente sul dorso felino!





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birillino8
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Messaggio da birillino8 »

Arnaldo da Villanova è un medico di successo, ha studiato a Montpellier e alla Sorbona di Parigi, la più celebre delle università. Alla Sorbona ha conosciuto i maghi Alberto Magno e Ruggero Bacone e si mormora sia in possesso di una pietra magica. Sempre in giro per l'Europa, noto per alcune sue guarigioni quasi miracolose, è ovunque ricercato da uno stuolo di nobili e popolani bisognosi di cure.

Nel mese di ottobre domino nuovamente la Piazzetta dei Leoni e tornato ad essere l'uomo più informato del sestriere, vengo a sapere del suo arrivo in città. Sono subito preso dal vivo desiderio di conoscerlo e di vedere finalmente da vicino un sapiente in carne ed ossa. Perciò una mattina raggiungo il suo studio e mi metto in coda con i malati, aspettando pazientemente il mio turno.

Tocca a me. Entro e sono alla presenza di Arnaldo da Villanova. Sulla scrivania sono appoggiati i suoi lunghi guanti di camoscio ed il berretto da medico. Dalla sua magnetica persona promana grandezza d'animo, vengo colto da soggezione e tuttavia sono subito esplicito:

«Non sono venuto per la salute del mio corpo, bensì per rendermi partecipe di una briciola del vostro sapere filosofico... qualche lume sulla pietra magica».

«La pietra magica?- perplesso si sofferma un attimo a lisciare il mento ben rasato -. Sono cose da lasciar stare, non val la pena.

Chi vi ha detto poi che io ne sappia qualcosa».

«Vi prego siate caritatevole, non lasciatemi nel dubbio».

Apre la porta per vedere quanta gente abbia ancora in coda, quindi torna a sedere:

«Chi siete?».

«Sono un mosaicista, dirigo il laboratorio della Basilica d'Oro».

Udito ciò, scioglie le sue riserve ed assume un tono franco e cordiale come fossimo amici da lunga data:

«Ah, il procedimento per ottenerla è scritto per intero sui medaglioni del portale centrale di Notre Dame, a Parigi. Quand'ero studente, dopo aver ascoltato la fisica aristotelica di Tommaso d'Aquino, andavo a riflettere in quella severa cattedrale e passavo ore ed ore a meditare sui medaglioni».

Colgo l'occasione per farmi decifrare l'ultimo oscuro medaglione della Basilica d'Oro:

«Anche nella nostra Basilica i medaglioni custodiscono dei segreti magici: sulla facciata laterale v'è un medaglione in cui è scolpito un uomo nudo che avanza tra due alberi di quercia, cavalca un leone sorridente e suona il flauto con gli occhi rivolti al cielo».

«Sì, è chiaro, trattasi della medesima operazione magica che a Notre Dame figura nel medaglione del grifone».

«Grifone, il guardiano delle miniere d'oro degli Iperborei? Lo stesso che veniva scolpito sui templi d'Apollo, le cattedrali dell’antichità?».

«Perché no, trattasi della medesima chimera, un animale mostruoso con corpo e zampe da leone ma testa e petto d'aquila. Il grifone simboleggia l'equilibrato compenetrarsi delle due opposte nature.

I maghi nel descrivere la realtà ricorrono a coppie di concetti complementari ognuno esclusivo dell'altro sebbene, pur escludendosi logicamente a vicenda, dipendano l'uno dall'altro per loro stessa definizione».

«Come ci può essere un equilibrato compenetrarsi tra due nature che si escludono a vicenda?».

«Hai studiato la geometria?».

«Un po'».

«Ponendo in connessione l'insieme dei campi del sapere umano si ottiene una visione unificata della realtà: in geometria, per definizione, si considerano enti complementari il punto fisso e la circonferenza tracciati dal compasso».

«Non afferro».

«Pensa alle onde concentriche sollevate da un sasso che cade sulla superficie dell'acqua stagnante».

«Lo so è un'immagine che risveglia armonia».

«Pensa ora al fondersi del cerchio e del punto nella spirale».

«I cerchi concentrici della spirale? Sono un gioco di illusione ottica, non possono descrivere la realtà del mondo».

«Pensa a un mondo costituito da innumerevoli spirali che s'intrecciano l'una all'altra e vibrano insieme all'infinito».

Per un attimo Arnaldo da Villanova rimane assorto in silenzio, assente. Poi continua:

«A te dirò apertamente e in tutta sincerità che entrambi i medaglioni delle nostre care cattedrali simboleggiano la Pietra magica. Nel grifone v'è l'armoniosa fusione del leone sulfureo e dell'aquila mercuriale. Una volta ricongiunti entro la compagine individuale, il Mercurio e lo Zolfo fanno da tramite all'ineffabile unione tra Fisso e Volatile sovra-individuali.

Così, in virtù della grazia divina, gli irriducibili princìpi del Macro e microcosmo trovano finalmente pace nella Pietra magica».

Non riesco più a seguire l'intricarsi dei suoi ragionamenti, ho perso il filo mentre ripensavo al suonatore di flauto. Agitando le dita su un flauto immaginario aggiungo qualcosa giusto per trarmi d'impaccio:

«Perciò nella musica è l'armonia dei contrari, nell'uomo che suona il flauto come nella cetra d'Apollo».

Leggo nell'espressione del suo volto che la mia conclusione non c'entra per niente. Mi inchino, ringrazio e mi avvio per uscire.

La voce del medico mi blocca sulla soglia:

«A cosa stai lavorando, mosaicista?».

«Adorno una cupola della Basilica con la storia di Giuseppe».

«Domattina devo partire per università di Napoli ma sulla via del ritorno passerò per Venezia e verrò a trovarti nella cupola».

«Sarà per me un grandissimo onore».

Ringrazio di nuovo con una serie di inchini ed esco nella calle lasciandolo al suo pressante lavoro.

Il ponte di Rialto. Unico passaggio sul Canal Grande e spina dorsale di Venezia. E' sovraffollato, i venditori ambulanti lo hanno invaso e trasformato in un mercato a sé, mi meraviglio come questo ponte di legno non crolli sotto il peso di una tale densità di passanti. Salgo i gradini. Per avere un po' di spazio a mia disposizione devo fermarmi nel mezzo del ponte, nel tratto levatoio, quello che consente il transito degli alberi alle galere mercantili. Appoggio i gomiti sul parapetto e rifletto sulle parole dell'illustre medico, mi paiono di grande profondità speculativa ma non riesco ad afferrarne a pieno il reale significato.

Forse non sono sufficientemente iniziato al linguaggio contorto della magia o forse mi mancano la grammatica e la dialettica, le basi degli studi classici cui un artigiano come me non può accedere. Il grifone dovrebbe riunire in sé il simbolismo del Cielo e della Terra, magari legati insieme dall'aurea catena di Omero? O forse no, può darsi che gli opposti siano attirati l'uno verso l'altro semplicemente come la calamita attira il ferro...

Accidenti, ecco cos'è, mi sono scordato di porre la domanda cruciale, il dubbio che mi tormenta dal tempo della prigionia nei Pozzi, il mio antico e insoluto problema, risolto il quale scioglierei l'enigma degli opposti.

Dove collocare la Realtà ultima?! Nel Fisso o nel Volatile? In pratica: nel mondano o nello spirituale?

Mi sembra sia questa la questione fondamentale, sapere ove alberghi il reale nell'insanabile contrasto fra due mondi paralleli, quello terreno e quello celeste, l'uno ricettacolo del peccato l'altro espressione della perfezione.

Forse in nessuno dei due?

...nessuno dei due? Ma no, da qualche parte deve pur essere, priva di Realtà la vita perderebbe ogni senso, diventerebbe simile alla storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di rabbia, ma senza significato.



* * *



Mentre scendo i gradini del ponte di Rialto mi viene in mente Didi. Voglio comprarle un regalino, è un modo per ingraziarmela. Ho da farmi perdonare uno scherzo piccantuccio che le ho fatto. No, non si tratta della solita piramide cabalistica, l'oracolo che usai per raggirare quella fanciulla e permettere al mio amico di spassarsela. Didi è una cara ragazza e ne ho abusato fin troppo, non sospetta di niente ma non appena le consegnerò il dono intendo palesarle la burla. Chissà che sorpresa per lei.

Il quartiere commerciale di Rialto attira gente di ogni razza e colore: mercanti di Samarcanda, ricchi sceicchi d'Arabia, commercianti ebrei ed armeni, ambasciatori ungheresi, tedeschi dell'Hansa, trafficoni pisani e amalfitani, servitori neri, schiave egiziane, qualche raro mongolo Ilcano, marinai spagnoli, attori francesi, affaristi inglesi e olandesi. Rialto mi è sempre parso la sintesi del mondo intero sin da quando vi gironzolavo da ragazzino, curiosissimo a spiare le merci esposte alla rinfusa sulle bancarelle, e credevo veramente vi fosse rappresentata la completa varietà delle cose esistenti sulla terra.

Fra i chiassosi richiami dei venditori passo davanti a un commerciante di cavalli arabi, grandi e massicci destrieri da battaglia; dei veneziani si avvicinano mostrandomi sul braccio i girifalchi incappucciati, l'astore e il falco pellegrino; a lato, un commerciante russo invita i nobili a bere la cervogia, la birra con miglio e miele, e intanto declama i pregi delle sue pellicce di zibellino, ermellino, scoiattolo e volpe argentata, piuttosto che consegnarle alla spietata concorrenza dei tedeschi dell'Hansa egli ha preferito venire fin qui, a venderle di persona.

Le nobildonne veneziane chiacchierano rumorosamente sotto il porticato, a gara tastano le stoffe multicolori: i raffinati cremisini e i finissimi zendadi, i tessuti di seta e oro dei Curdi, la seta preziosa di Mosul, la seta Jasdi di Persia. Una ricca signora esce dalle colonne per controllare alla luce viva un drappo in seta colorato con l'indaco e le popolane la guardano con invidia mentre i loro mariti, con finto entusiasmo, chiedono il prezzo del tessuto in pelo di cammello... tutto per distrarle da quella seta costosissima, ben al di fuori della loro portata.

Le scene di quei poveri mariti imbarazzati mi rattristano e penso a Didi che è una setaiola e sbozzola, fila, tesse la seta tutto il santo giorno, ma per ironia della sorte non possiede un solo abito in seta. Ecco, se fossi ricco avrei già trovato cosa regalargli, un bel campione di seta Jasdi, purtroppo nemmeno io ho sufficiente denaro in tasca, devo accontentarmi di un dono più semplice. Mi guardo in giro.

Il pescivendolo ostenta sul banco il viscido prodotto della pesca: i branzini dalle bocche spalancate e dalle branchie vistose; le orate dalle scaglie cesellate, che emettono riflessi azzurrati, gialli e argentei; e lo scorfano, alquanto apprezzato nella zuppa di pesce ma oltremodo brutto e pericoloso, mostriciattolo marino le cui pinne da pipistrello nascondono spine velenifere.

Le chele degli scampi e le zampette dei gamberi brulicano nervosamente, le anguille vibrano nella vasca come serpenti d'acqua e i tentacoli che promanano dal corpo gelatinoso di una seppia s'intrecciano con quelli dei calamari.

Passeggiando, passo bruscamente da un odore all'altro, ho appena abbandonato il banco del pescivendolo e non ho ancora finito di godermi il profumo di un fioraio che mi giunge il lezzo di formaggio del negozio accanto e un attimo dopo, nell'imboccare la Ruga degli Speziali, ecco i profumi pungenti delle spezie d'Oltremare.

Allora mi fermo, entro nella bottega dello speziale e osservo ogni cosa con sguardo indagatore. Le spezie sono etichettate ed allineate sulle mensole di legno, entro vasi di vetro che lasciano trasparire i colori esotici e vivaci... gialli, rossicci, marroncini, lì la galanga, il tamarindo, il turbitto, più sopra il rabarbaro e il cubebe rampicante. Al bancone lo speziale sta pesando attentamente sulla bilancia un pugnetto di una rara pianta aromatica, è una novità giunta dall'oriente e ne orecchio il nome mentre vien detto al cliente: Spigo di Giava.

Come rinunciare al chiosco della fruttivendola? Ligio alla consuetudine mi fermo da questa ragazza prosperosa per scambiare qualche battuta di spirito, mi offro di darle una mano a raddrizzar banane, sorrido e intanto la spoglio con gli occhi. Indugio a lungo sulle sue curve apposta perché lei se ne accorga, so che quegli sguardi indiscreti la gratificano, quasi vada fiera del suo corpo e ci tenga ad esibirlo sulla piazza al pari delle sue ceste colme di frutti e aggraziate con fiori come cornucopie.

Trascinato da scabrose fantasie la succhio e la mangio fino a saziarmi di lei. Ha una bocca rossa come le ciliege, denti bianchissimi di cocco e una lingua tenera come la polpa di caco. Tutto il suo corpo è mangereccio, anche i polpastrelli sono pistacchi e le unghie mandorle acerbe. Il colore verde del vestitino nasconde le sue delizie quanto il manto di un albero da frutto... allora, con le dita scosto delicatamente le foglie di un rametto e scopro due lucide mele al posto delle tette e datteri appiccicosi ai capezzoli. Godo a indovinare liscio e tondo come un cocomero il suo sedere, vellutata come buccia di pesca la pelle delle cosce, e in mezzo, una bella susina succosa.

Arrivato in fondo al mercato, torno indietro verso il cuore di Rialto, svolto in Ruga dei Orefici ed entro nei muri di un edificio che ha le finestre ridotte a strette fessure. E' la gioielleria del mio amico, lui è un furbastro, espone sul banco monili ed anelli ma so bene quanto accuratamente nasconda le pietre più preziose. Per pura curiosità gli chiedo di mostrarmi un diamante del Deccan, egli lo estrae dal forziere e mi invita ad ammirarne la trasparenza ed i riflessi iridati.

Non ho certo le lire di grossi per acquistarlo, tuttavia:

«Mi piace, lo prendo, - scherzando - andrebbe giusto bene per farci un anello di fidanzamento, ti propongo in cambio una enorme pietra di carbon cinese... ti avverto subito che qualcosetta ci rimetti».

«Già, il carbone brucia e ti lascia come ricordo un bel mucchietto di cenere, questo invece è incombustibile e nessuna pietra al mondo lo può scalfire.

Per la tua innamorata ti posso dare... posso scambiare il tuo carbone con quella statuetta di Cupido» e indica sul banco una piccola statuetta di metallo dalle fattezze piuttosto grezze, un uomo adulto con la faretra sulla spalle.

«Ma quello è Apollo. Da dove arriva?».

«Da Montegrotto - risponde -. L'ha trovata un contadino che stava arando il suo campicello».

«Montegrotto, in quale zona della Grecia si trova, è forse un'isola?» chiedo infervorato.

«No, niente Grecia. E' vicino a Padova».

Deluso lascio perdere la contrattazione:

«Lasciamo stare, usa la tua statuetta per turlupinare qualche francese in gita di piacere. Io mi terrò il carbone».

«Prova a venderlo ai Mamelùcchi d'Egitto, quelli sì che sono svegli... Due dinar d'oro in cambio di un grande zaffiro blu, in autentico vetro di Murano».

Saluto ridendo ed esco nel via vai.

Non l'intrico del bazar di Damasco, ma il labirinto di calli e callette di Rialto! Apoteosi del superfluo, vortice di fantasia e tinte smaglianti, provetto ingegno dei manufatti in vetro, avorio e porcellana. Ecco le tovaglie di pizzo e le spade pregiate in acciaio indiano e il muschio afrodisiaco ricavato dal cervo e l'incenso dello Yemen a quaranta bisanti al vaso; laggiù, i vini della fiera dello Champagne, qui a lato l'olio di sesamo e la farina di sagu delle palme della Malesia, poco più in là i coralli del Mar Rosso e le conchiglie dell'Indocina con le loro forme bizzarre, spiraleggianti e uncinate.

Cerco qualcosa di bello per Didi e butto l'occhio distrattamente a destra e a sinistra in mezzo a quel grande assortimento. Finalmente mi decido davanti a una bancarella di bigiotteria, acquisto un paio di graziosi orecchini d'ambra, sono l'articolo più carino e hanno un buon prezzo, sufficientemente all'altezza della mia borsa.

Nell'accingermi a pagare il venditore tiro fuori dal borsellino una moneta consunta che sul momento non riesco ad identificare, la giostro fra le dita, la giro e la volto, osservo una faccia e poi l'altra, e vi riconosco l'uomo e la donna congiunti in amplesso: ad occhi spalancati rivedo il dito di Zagreo che disegna il sole e la luna sulla parete dei pozzi.

La medaglia di Diomede! Sull'istante una folgorazione, ho la chiara consapevolezza di afferrare la Realtà ultima:

«Le molteplici forme del mondo e l'omogeneo sostrato della Prima Materia sono come le due facce di questa medaglia senza valore: la sua faccia visibile e la sua faccia invisibile mi costringono a scegliere senza sosta fra un punto di vista e l'altro, tra un mondo attuale e uno virtuale. Però le due facce sono soltanto aspetti complementari, corrispondenti ad un unico elemento di realtà insito nella moneta in sé.

Ora ne ho la certezza, la Realtà ultima è la Cosa Unica. La Pietra magica è nell'unione del Sole e della Luna! Non a me la gloria ma alla grazia di Dio che sola concilia l'inconciliabile».

Colori, macchie indistinte prendono forma di oggetti, un suono confuso già udito ma non inteso mi desta da un sonno beato. La voce belante del commesso mi rituffa bruscamente nel chiasso del mercato:

«Ti! Ti beo! Utu darme sto scheo?».



* * *



Dacché ho rimesso piede a Venezia, riabilitato e ufficialmente inserito nel laboratorio dei mosaici, un mucchio di cameriere mi fa la corte nella speranza di sposare un capo artigiano, ma io ho la mente occupata e non si tratta della ragazza degli orecchini.

Non ho scordato Rezia, né è passato giorno che non l'abbia pensata, da più di un mese controllo assiduamente se per caso sia tornata a Venezia. Sera dopo sera, cammino solitario lungo Calle dei Botteri e raggiunte le Fondamenta dell'Olio mi fermo sul bordo del Canal Grande, a fianco delle imbarcazioni che scaricano l'olio d'oliva proveniente da Candia. Seduto sulla riva opposta al palazzo di Rezia, me ne sto con l'animo sospeso nella speranza di vederla affacciarsi al balcone e passo ore e ore a fissare quell'edificio, al punto che ne ho imparato a memoria la posizione di ogni singola mattonella.

Posto a fianco di Ca' Sagredo, il pregevole palazzo è una costruzione a tre piani dotata di un'originale merlatura sul tetto e di un porticato che funge da fondaco a livello dell'acqua. Nei due piani superiori i balconcini dei loggiati possiedono colonnine orientaleggianti ad archi fioriti, intrecciati, e arricchiti elegantemente da preziose fasce e cornici. Sul lato sinistro della facciata ci sono tre semplici finestre quadrate, una per ciascun piano al centro di uno spazio di parete spoglia. Ancora più a lato, presso l'angolo che delimita la parete, c'è un raffinato balconcino ad ogiva. L'arco acuto del balconcino è ornato alla sommità da un giglio sistemato tra due cerchietti che, ciascuno col punto nel centro, sono i simboli astronomici del sole. Per finire, finissime decorazioni in oro aggiungono sfarzo ai marmi traforati e alle tinte delicate dell'intero rivestimento.

Le gondole in arrivo si assicurano alle strisce bianche e rosse dei pali dipinti con i colori araldici della casa; alcune persone scendono ed entrano nel palazzo, altre si riuniscono nel fondaco e ripartono, ma di Rezia nessuna traccia.

Ogni sera come di consueto, un lume si accende all'imbrunire nel balconcino che fa angolo. Se fosse la sua stanza? Lei potrebbe essere tornata a Venezia e il marito geloso potrebbe averle proibito di affacciarsi al balcone, magari l'ha rinchiusa nel palazzo ed è ripartito per la Romania.

Nel morboso attaccamento a quel genere di illusioni che traggono alimento da se stesse pur di non darsi per vinte, grido il suo nome a squarciagola:

«Rezia! Rezia!».

Niente, nessuno si affaccia. Patetico e imperterrito mi risiedo sull'argine, restio ad abbandonare il Canal Grande, e continuo a fissare ossessivamente quel lume acceso.

L'invincibile attrazione esercitata dall'arco fiorito e intrecciato del balconcino mi indurrà a perseverare nel quotidiano pellegrinaggio a quella dimora, anche ora, che è arrivato di nuovo il Carnevale e non vedo più uomini e donne approdare in gondola al palazzo ma uno spettrale andirivieni di maschere, evanescenti gelide immagini di un vuoto incolmabile che, in me, ha nome nostalgia.

Rezia è tornata ad essere ciò che era in principio, la misteriosa signora dell'ultimo di Carnevale, la donna senza volto celata dietro una qualsiasi delle maschere che arrivano in gondola a palazzo. Potrebbe essere lei là alla tremula luce delle torce, dietro quella doppia maschera d'argento, vestita di carminio e guanti bianchi. Lei, avvolta in ampi veli rosa, con il gran turbante sul capo e il mazzo delle sette mascherine colorate. Lei, quella che ride al centro dell'allegro gruppetto o l'altra ancora... E forse è proprio così che la voglio, darle ancora un volto significherebbe negare la sua essenza impalpabile, poiché a me è dato possederla intimamente solo attraverso un velo trasparente che lasci appena indovinare le linee dolci del suo corpo. La custodisco priva di qualifiche, perfino del suo stesso nome, perché anche solo un nome può offuscare la bellezza inesprimibile della sua velata nudità.

Ottobre a Venezia. Un mese che dichiara subito guerra all'incombente grigiore dell'inverno. Il Carnevale è appena cominciato e già impazza nelle calli. Didi, la ragazza degli orecchini, appare in fondo a campo S. Maria Formosa puntuale all'appuntamento che le avevo fissato pochi giorni prima, durante un trasbordo in gondola.

Quel giorno ero salito nella sua gondola alla fermata di riva Ca' da Mosto; le gondole multicolori sovraffollavano il Canal Grande cariche di passeggeri, si facevano strada in mezzo a una baraonda di barche e barconi, di burchi e burchielli, incrociavano le grosse imbarcazioni da trasporto colme di mercanzie o le zattere vuote degli ortolani chioggiotti che avevano già scaricato all'Erbaria i loro prodotti.

Le puntavo addosso lo sguardo protetto dalla maschera. Aveva gli occhi color dell'ambra, almeno ventidue anni, un bel colorito acceso e un qualcosa nei lineamenti che mi era stranamente familiare. Mi cullavo in quella sensazione di affinità, mi piaceva che ricordasse vagamente mia madre. Finché mi ravvidi, ricostruendole sul volto l’identità un tempo nota: in realtà quella ragazza era mia cugina, da bambini si giocava sempre insieme in Campo della Fava, ma a 13 anni lei e la sua famiglia se n'erano andati da Venezia. A motivo della maschera che ora portavo, mia cugina non m'aveva riconosciuto e così avevo colto lo spunto per corteggiarla per ischerzo, fino a quando non gli avessi rivelato chi ero. Grintoso, attaccai discorso col pretesto del fermaglio a falce di luna che raccoglieva con cura i suoi capelli castani, dissi che la sua pettinatura alla moda denotava buon gusto e la sommersi di complimenti, che mi venivano tanto più bene in quanto recitavo la mia parte senza la tipica ansia delle conquiste impegnative. Allegra e vivace, ella si mostrava una ragazza piena di spirito e intanto la gondola rosa salmone, drappeggiata di seta multicolore, passava ondeggiando sotto il ponte di Rialto. Raggiunto il centro sinuoso del Canal Grande, appena dopo Ca' Barzizza la gondola si fermò sulla destra a Ca' Businello. Scesero gli altri due passeggeri e restammo soli con il nostro fiacco gondoliere che un po' ammiccando, un po' prendendoci in giro, non trovò di meglio che mettersi a fischiare una sdolcinata melodia. Arrivati al traghetto di San Toma, ove l'angolo del Canal Grande si fa più acuto, la mia cuginetta mi saluta e si prepara a scendere; a me sarebbe toccato di proseguire e allora, stringendole la mano "voglio vederti ancora, incontriamoci un pomeriggio...", così con fare convincente ho fissato lì per lì un appuntamento galante e lei ci è cascata.

Rieccoci al pomeriggio dell'appuntamento in campo S. Maria Formosa. Didi si sta avvicinando. Sono venuto senza la maschera e voglio vedere la sua faccia quando mi riconoscerà, il divertimento sta tutto qui.

Si ferma a un passo da me. Ho un orecchino per mano e in piedi, rigido davanti a mia cugina, attendo che mi lanci le braccia al collo felice di rivedermi. Invece no, saluta e mantiene le distanze contegnosa. Rimango immobile e inespressivo.

Cerco di aiutarla:

«Allora, sai chi sono?».

«Come posso saperlo se non mi hai ancora detto il nome».

Rimango impalato come un fesso con i due orecchini che penzolano dalle mani trattenuti tra pollice e indice:

«Ehm, già è vero. Mi chiamo Pe... Pe…».

«Peppe Nappa» anticipa e ride del mio disorientamento.

Le metto addosso gli orecchini d'ambra e le sussurro:

«Hanno lo stesso colore dei tuoi occhi. Ascoltami bene, c'è un legame di... io...» sto per dirle che sono suo cugino ma i suoi occhi mi fissano con una tale affettuosa dolcezza che le parole mi vengono meno e prima ancora di richiudere la bocca inceppata, le sue labbra si posano sulle mie in un bacio leggerissimo, un breve istante che stabilisce l'umido contatto fra lingue.

Il gioco ha oltrepassato il limite, mi affretto a chiudere lo scherzo con la canzonatura finale:

«Io abito in Campo della Fava!» e soffermandomi sul doppio senso della fava, con gesto goliardico mi porto la mano in mezzo alle cosce.

Lei però non coglie, cambia repentinamente umore, si fa ombrosa, non parla più, sembra diventata timida e impacciata.

«Dunque ti ricordi di me?» insisto.

«No!».

Mi sa che sta mentendo. Ha intuito ma tarda ad ammetterlo, sta di fatto che adesso ormai più di così non ce la faccio a spiegarglielo e se lei non vuole saperne d'intendere... io non ne ho colpa.

Nel concordare gli appuntamenti successivi, benché ella abiti in Merceria San Salvador cioè sulla strada che faccio ogni giorno per andare al lavoro, la cuginetta mi impone di incontrarci nella parte opposta della città, nel lontanissimo campo di S. Giacomo dell'Orio, e questa stranezza, unita al perseverare di una certa sua reticenza, mi fa appunto ben supporre che abbia perfettamente capito chi sono e che tuttavia voglia far finta di niente.

Spero non si sia innamorata di me, macché! Sta piuttosto tramando qualcosa, vuole architettare una caustica vendetta per farmi perdere la faccia davanti a tutti i miei parenti. Chissà, forse non si espone perché ha un altro amante o magari è già sposata da un pezzo, comunque io non voglio darmi troppa pena né sforzarmi di indagare: i Veneziani, si sa, in politica e in amore sono sempre stati misteriosi.

Ma alla fine di ottobre, dopo un'assidua frequentazione, ecco la reciproca, dolorosa presa di coscienza. E' sera inoltrata. Didi, si appoggia sfinita ad una colonna della chiesa di S.Giacomo dell'Orio, non ce la fa più a tenersi dentro il suo silenzio, mi fissa accorata con i suoi occhi color dell'ambra e finalmente si sfoga tra la vergogna e le lacrime:

«Io sono tua cugina Diana. Una delle figlie di tuo zio. Non ti ricordi quando giocavamo insieme da piccoli? Avevo i capelli tagliati corti come un ragazzino. Andavamo insieme a Cannaregio a caccia di quaglie con l'arco e le frecce, e si tornava sempre con un magro bottino - accenna al riso asciugandosi le guance -. Ricordi a Carnevale quella volta che ci siamo dipinti la faccia con l'impiastro bianco che non veniva più via?

Il seguito lo sai, a 13 anni ho finito l'apprendistato nella corporazione delle setaiole e la mia famiglia si è trasferita nell'Elide, giusto di fronte all'isola di Zacinto. Poi qualche mese fa siamo tornati, tuo fratello ci ha detto che eri lontano in pellegrinaggio... non sapevo fossi tornato. Perdonami ti prego. All'inizio non mi ero accorta di nulla, ma quando mi hai detto dove abitavi... è stato... è stato un colpo per me».

Diana cerca di indovinarmi i sentimenti scrutando i miei occhi allungati e socchiusi come due fessure. Sono imbarazzatissimo. Solo adesso mi avvedo quanto sia stato crudele lo scherzo di cui l'ho resa bersaglio e a stento trovo la forza per denunciare la responsabilità della mia leggerezza:

«Io me ne ero accorto fin dal primo momento e adesso non so più cosa dire, sono sconvolto... Son passati otto anni ma mi ricordo tutto come fosse ieri. Un mese prima che tu partissi avevo preso l'abitudine di spiarti dal buco della serratura mentre facevi il bagno nuda, che spettacolo! Ero inebetito dallo sbocciare della tua giovinezza; eri un frutto proibito, ancora troppo acerbo per essere colto. Le emozioni risvegliate dal guardare il tuo corpo adolescente erano dardi avvelenati che avevano per bersaglio il mio cuore, diffondevano il loro veleno in ogni goccia del mio sangue ed erano la fonte maliziosa di una febbre incurabile. Mai un nemico mi fece tanto danno quanto i miei occhi.

Beh, ma ora che importa, anche se siamo un po' consanguinei... mica siamo fratello e sorella» dondolando la mano in aria.

«Poco ci manca, mio caro. L'incesto cade entro il quarto grado di parentela, noi siamo cugini stretti, abbiamo peccato ed è tutta colpa mia».

«Sei sicura che sia proprio peccato?» fissandola.

«Guglielmo il Conquistatore aveva sposato sua cugina Matilde ed è stato scomunicato».

«Sì, però poi è stato incoronato lo stesso re d'Inghilterra».

Diana abbassa gli occhi:

«Ho timore del giudizio degli altri. Ieri sera abbiamo fatto l'amore».

Le passo la mano sui capelli:

«Perché hai preferito tacere quando ti ho fatto capire chi ero, perché non volevi parlarne?».

«Avevo paura di perderti, mi sono innamorata di te dal primo momento, non so come sia potuto succedere... mi sembravi così convincente, mi ispiravi sicurezza. Ai sentimenti non si comanda, l'amore è un tiranno, non è in nostra facoltà decidere quando innamorarsi e di chi innamorarsi. Io brucio come dentro una fornace, non sono più padrona delle mie intenzioni» conclude mentre posa la testa con tenerezza sul mio petto.

Le afferro la nuca con la mano:

«La sincerità è il primo dovere del maschio e se vi rinuncia perde ogni sua forza, ma tu sei donna e ti è lecito nascondere i tuoi pensieri. Tu nascesti per me... il resto non conta» e nel gioco di un'altalena, ora lei si riposa fra le mie braccia ora io mi abbandono nelle sue.

Diana è una ragazza semplice e dolce, nei mesi successivi cerca di compiacermi in ogni cosa e mi riempie costantemente di tutte le attenzioni possibili ed immaginabili, come se avesse da farsi perdonare quella consanguineità che teme sia un impedimento al nostro amore.

Dopo un anno di fidanzamento deciderò di sposarla. A quell'epoca avrò compiuto trent'anni. La data del matrimonio resterà fissata per il 23 settembre 1252, giorno dell'equinozio d'autunno. Quel giorno davanti all'altare, nella Basilica d'Oro, il padre di lei la consegnerà sotto la mia tutela con le parole di rito:

«Ecco io ti do questa mia figlia per onorarla come sposa, per la metà del tuo letto e delle tue chiavi».

Quindi ci porgerà un calice di vino da bere insieme secondo l'usanza.

Dopo lo scambio degli anelli, il prete aggiungerà in tono solenne:

«Che il giogo che ella dovrà portare sia un giogo di pace e amore».

Si tratterà in vero di un caso di impossibilità di matrimonio a causa della nostra consanguineità e il prete non avrebbe assolutamente consentito a celebrare il rito non fosse per il fatto che Diana era gravida già da sei mesi ed il padre non era altri che io.
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birillino8
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[align=center]L'oro delle streghe
Capitolo VI[/align]

Lavora lavora e passa un anno consacrato alla storia di Giuseppe. La stesura dei mosaici della cupola è andata avanti sotto la mia direzione, in ossequio ai requisiti didattici imposti dal Doge e alla devozione verso l'evangelista Marco.

Di tanto in tanto camminavo rasente ad un braccio della Basilica, entravo in una sua costruzione rotonda detta casa capitolare e chiedevo al sacrista la Bibbia in prestito (se avessi dovuto comprarne una di tasca mia sarei stato costretto come minimo a vendere la casa). Il nostro sacrista era un personaggio d'alto rango, cortese e rispettato, e aveva la responsabilità di tutto ciò che fosse attinente alla sacralità, i riti, le reliquie, i paramenti e ovviamente i testi sacri.

Ma l'otto di ottobre del 1252 il vecchio sacrista non c'è più, è diventato vescovo oltre confine e dentro la casa capitolare trovo ad accogliermi un nuovo sacrista, più giovane. E' magro e alto, ha i capelli rossicci con la tonsura tonda sul vertice e indossa una tunica bianca, stretta e lunga fino ai piedi, ornata da pietruzze colorate e da fasce ricamate in oro che circondano le spalle e gli ampi margini delle maniche. Dopo mille preamboli finalmente il pedante spilungone si decide ad esaudire la mia richiesta, si fa strada tra i sontuosi paramenti che i ministri del culto hanno deposto alla rinfusa sopra i cassoni, sposta in un angolo il bastone pastorale, apre le ante intagliate di un armadio e afferra la Bibbia a due mani, la trasporta appoggiata al petto e infine la posa sul tavolo, spostando più in là il grande candelabro ingemmato.

Con un cenno il sacrista mi invita a sedere sulla panca di legno mentre lui, in piedi a fianco, cerca il capitolo di Giuseppe sfogliando le pagine con le sue dita secche e affilate:

«Questa Bibbia è un pezzo unico, la prima traduzione in lingua veneta, anche se vi mancano parecchi libri dei Profeti. Considera tuo obbligo leggerla entro la sacrestia e riporla ogni volta al suo posto, e ricordati di fare il segno della croce ogni volta che la apri. Inoltre, prima di consultarla, devi lavarti le mani se sono sporche di malta e poi devi manipolarla con cura, senza stropicciare le pagine».

Lo spuzzetta non mi crede capace di leggere e fa sfoggio della sua cultura prodigandosi in un riassunto a voce:

«Ecco qui. La storia di Giuseppe è nel libro della Genesi, primo Libro del Pentateuco.

I fratelli di Giuseppe erano invidiosi della considerazione che egli aveva ottenuto fra la gente grazie alle sue qualità profetiche. Pieni di astio, lo accusavano d'essere uno stregone e un giorno lo catturarono con l'intento di gettarlo dentro un pozzo profondo.

Però, al momento della cattura, i suoi fratelli videro passare una carovana di mercanti diretta in Egitto e concordarono di venderlo come schiavo anziché ucciderlo come era nei piani. Quindi congegnarono di intridere la sua tunica col sangue di un becco per mostrarla al loro padre Giacobbe, magari dicendo che Giuseppe era finito nelle fauci di una belva selvaggia.

Vedendo la tunica strappata ed insanguinata Giacobbe esclamò sconsolato: ahi il mio figliolo è stato sbranato, una bestia feroce l'ha divorato!

Invece era in Egitto presso il nuovo padrone, il capitano delle guardie del Faraone, e come schiavo Giuseppe era giunto a godere di grande fiducia e responsabilità, tanto che il capitano aveva messo nelle sue mani l'amministrazione dei propri beni e gli aveva consegnato perfino le chiavi di casa.

Colpita dal suo bell'aspetto, la padrona di casa lo condusse tuttavia in tentazione e una sera gli propose di giacere a letto con lei. Giuseppe rifiutò di peccare adducendo che in nessun modo avrebbe tradito la fiducia incondizionata del capitano. La donna non intendeva cedere e infuocata dalla lussuria gli strappò di dosso il mantello, il servo diede allora il buon esempio e fuggì sdegnato dalle braccia della sua padrona. Ma quella moglie perversa si sentì offesa e volle vendicarsi con la calunnia, raccolse da terra il mantello e lo mostrò infuriata alle ancelle gridando che Giuseppe aveva tentato di sedurla.

Subito fu catturato dalle guardie e tradotto in carcere».

«Ora vengono i sogni» con impazienza.

«Calma, ci stavo arrivando. In prigione, egli usò le sue doti profetiche per interpretare i sogni dei due compagni di cella, entrambi condannati per offese al Faraone.

Il panettiere aveva sognato tre uccelli, divoravano dai canestri le paste pronte per il Faraone e Giuseppe sentenziò senza mezzi termini: fra tre giorni il Faraone ti farà impiccare ad un albero e gli uccelli sbraneranno le tue carni.

Il coppiere aveva sognato che piegava i tre tralci di una vite e ne spremeva l'uva in una coppa, per porgerla quindi nelle mani del Faraone, e Giuseppe commentò: fra tre giorni verrai liberato e pienamente reintegrato nel tuo ufficio presso il Faraone.

Il destino dei due compagni di cella si avverò esattamente come previsto, il panettiere fu condotto al supplizio e il coppiere ritornò a corte. La notizia dei portentosi poteri di Giuseppe si diffuse in poco tempo ed il Faraone in persona lo volle interpellare per un sogno che lo aveva molto turbato: sette vacche magre che divoravano sette vacche grasse. Giuseppe diede un responso che col tempo si rivelò esatto e cioè sette anni di carestia che sarebbero seguiti a sette anni di abbondanza.

Il Faraone riempì allora i granai di riserve e alla fine ricompensò Giuseppe nominandolo viceré».

Cerco di liberarmi del sacrista:

«Va bene, grazie per il riassunto. Non oso trattenerti oltre», con le braccia conserte.

«Ti garba conoscerne l'interpretazione morale? Resterò qui con te a darti una mano» addolcendo il tono della voce mentre si siede al mio fianco a tastarmi confidenzialmente il braccio.

«No, non ce n'è bisogno, voglio arrangiarmi da solo» rispondo risoluto.

«Dunque il Doge ha dato a te l'incarico della cupola, - soggiunge inalberandosi in una smorfia di sufficienza - e come mai fa dirigere il laboratorio a uno come te, che non conosce neanche la Genesi?»

«Perché farò il mosaico più bello della Basilica».

Si mette a canzonarmi con la voce in falsetto:

«Ma va e perché il più bello di tutti?"

«Perché creerò il mosaico, - pronuncio in tono solenne a braccio destro sollevato - a mia immagine e simiglianza».

Scatta in piedi indispettito e scandisce:

«Petrangésio... Mago Vanesio!» la solita tiritera che circola in Basilica.

Finalmente se ne va via sdegnato sollevando il mento e mi lascia solo con il testo, a ridacchiare cinicamente.

Procedo al mio ennesimo ripasso e continuo a leggere e rileggere la storia di Giuseppe, il primo romanzo dell’umanità.

Nel proiettarne l'intreccio sulla cupola dei mosaici, vi ho inserito a poco a poco la dottrina dei Magi d'Egitto. In che modo? Ricorrendo a un messaggio che raggiunge il destinatario al di sotto della soglia cosciente ma che pur ridotto ai minimi termini è capace di provocare delle impressioni profonde, legate a significati nascosti che possono divenire coscienti solo se del messaggio è nota la precisa chiave di lettura. Sicché gli Inquisitori non potranno avvedersi dello scherzetto che sto giocando loro: mi servo di un edificio consacrato alla religione per propagare sotto gli occhi di tutti una dottrina in sapore di eresia. Con perversa sottigliezza mi sto prendendo la rivincita su coloro che mi hanno ostacolato e imprigionato. La miglior vendetta è mettere in ridicolo il proprio aguzzino, farò gioire i maghi di passaggio che dei mosaici sapranno decifrare il codice di lettura, a loro mostrerò i simboli più classici della magia sviando invece i prelati sulla falsa riga di un innocente fine ornamentale e quando pure nel popolino si spargerà la voce di oscuri significati magici rideranno tutti alle spalle dell'Inquisizione, tutti coloro che passeranno sotto la mia cupola nei secoli dei secoli e finché la Basilica rimarrà in piedi.


***


Un felce profumata adorna l'ingresso laterale del vestibolo della Basilica, entrando stacco un rametto e noto subito che la sua struttura ramificata richiama l'intero fusto; poi, dal rametto stacco una fogliolina e mi accorgo come anche la foglia riproduca in piccolo il rametto; dunque le varie parti, se pur a diversa scala, hanno la medesima forma per autosomiglianza.

In un più ampio gioco di risonanze e coincidenze, i momenti salienti della mia stessa vita ricalcano stranamente la storia di Giuseppe, a sua volta la storia di Giuseppe collima con la struttura della dottrina dei Magi d'Egitto e il tutto si corrisponde, esattamente come la foglia sta al ramo e il ramo alla pianta.

Grazie al principio dell'autosomiglianza ecco vorrei scoprire in qualche angolino inesplorato della mia mente la sede originaria dell'ispirazione.

E' sera, la cupola è deserta. Mi distendo ad occhi chiusi sulla panca di pietra.

Non ancora del tutto addormentato né più completamente sveglio rimango fra i due come sospeso e lasciandomi trasportare da una girandola di luci colorate cerco di abbozzare le varie forme da selezionare, mi occorre l'idea per le decorazioni delle fasce da porre a cornice della rappresentazione musiva.

Sorgono splendidi e variopinti colori in un vorticoso spiegarsi di motivi geometrici, ogni volta il disegno dell'intero soggetto ritorna su se stesso nei particolari sfrangiati dei contorni: vedo le macchie figlie sulle estroflessioni dei bordi e vedo palloni ricoperti di schiuma e vedo palline infuocate che rotolano e immagini spezzate simili a lampi o simili a bracci di stelle riavvolte a spirale.

Come sullo scudo disegnato sullo scudo, l'immagine si concentra nell'immagine, e nell'infinito ossessivo riproporsi del tema colgo sempre le medesime tinte gialle e verdi e blu, le stesse fantastiche forme l'una all'interno dell'altra, differenti solo per la scala, sempre più piccola, sempre più minuscola.

Vedo chiazze di colore con gradazioni progressivamente più intense, tali da dare al centro la sensazione di profondità insondabili, la mia immaginazione penetra nei recessi dell'abisso e si spaurisce, nello sfiorare l'ultimo inafferrabile confine.

Rifaccio il percorso a ritroso, dalla scala più piccola alla più grande. Le immagini si concretizzano in schematiche imitazioni di oggetti reali: una cattedrale gotica dalle grandi e piccole guglie, un acero riccio con i fiori gialli e le foglie palmate, gradini di catene montuose dal profilo frastagliato.

Ecco, le idee che cercavo trovano posto nella mia cupola e vanno ad ornare le decorazioni circolari: alla base dei mosaici una fascia verde con dei gradini che formano scale ascendenti e discendenti, iscritte l'una nell'altra; ed ancora petali grandi e piccoli nei fiori degli archi che salgono dalle colonne portanti; e più in alto sopra i mosaici di Giuseppe, una fascia rossa di foglie di acero larghe e lobate; in cima alla cupola una grande stella raggiante, circondata da stelle di media grandezza a loro volta mescolate ad un cielo di stelle più piccole.

L'arte è sublimazione della follia, creare dal nulla un mondo di illusioni, un coro di voci che ammalia come la lira di Orfeo. L'artista si esalta in questa magia, fa sorgere animali e figure umane, ricopia archi e colonne, e iscrive scene di vita la dove c'era solo una nuda e insignificante parete.

Nelle tendenze artistiche di questi anni domina il carattere naturalistico ispirato alle concezioni estetiche dei primi cristiani, un ritorno alla purezza e alla semplicità originaria. Spesso si prende spunto dalla sensibilità dell'arte macedone pur senza rinunciare agli apporti della tradizione locale, eccelsa in quanto a sapiente senso del colore. Il gusto delle tinte vivaci è chiaramente veneziano e alla base della gamma cromatica ritroviamo sempre gli stessi colori, azzurro e oro, i colori araldici di Venezia.

La Grande Opera dei Magi d'Egitto?

Entro la rappresentazione delle vicende di Giuseppe ho già iniziato a indicare i principali passaggi delle operazioni magiche. Tali arcane operazioni si riferiscono ad effettivi procedimenti di laboratorio ma possono essere lette anche nel senso di operazioni interiori, elaborate nell'individuo stesso anziché all'interno di un laboratorio vero e proprio. I Magi d'Egitto tengono strettamente associati questi due aspetti ritenendo che il procedere delle operazioni sul piano fisico comporti di pari passo un progredire sul piano psichico.

Mi alzo dalla panca di pietra su cui ero disteso e in piedi al centro della cupola riesamino quel che finora ho realizzato, tanto per cominciare l'emblema base delle operazioni: la materia prima, ciò che si trova nella miniera allo stato grezzo e mescolato (da non confondersi con la Prima Materia!). Eccola nel mosaico del panettiere e del coppiere sottoposti a giudizio, ricordandomi della mia esperienza nei Pozzi ho legato strettamente i due alla cintola in modo da evocare l'idea di un solo corpo con due teste.

E' il simbolo più classico della magia: il Rebis, res-bis cioè la Cosa Doppia.

E' quella maschera con due teste che mi aveva fatto morire di spavento quand'ero piccolo.

Per prima aveva posto il rebus:

«Com'è che da Cosa Doppia nasce la Cosa Unica?"

In che modo la nobilissima Pietra dei Magi deriva da una cosa vile e disprezzata come la materia prima?

Lo spiegherò nei mosaici ancora da stendere, intanto a fianco e a destra del precedente riquadro prosegue la storia e compaiono il panettiere e il coppiere coricati sui materassi della cella. Sognano l'uno i grappoli d'uva da spremere nella coppa, l'altro i panieri ricolmi divorati dagli uccelli.

Un quadretto di grande armonia, realizzato dalla mano che piega i tralci carichi d'uva, dal fremere d'ali degli uccelli che beccano e dal sopore dei due prigionieri sognanti: sono molto soddisfatto del risultato estetico, questo mosaico è veramente bello.

Sul lato opposto all'apice della colonna interna, ecco la prima delle sei operazioni dei Magi d'Egitto, la Separatio. Il mosaico raffigura il panettiere sottoposto al supplizio mentre viene divorato vivo dal terzetto degli uccelli; essi rappresentano i tre princìpi individuali che il mago deve opportunamente separare all'inizio, il corvo per il Sale, l'uccello marino per il Mercurio ed il rapace per lo Zolfo; i quali altro non sono che l'Ecate nera, Ecate bianca ed Ecate rossa dell'antica religione.

Il panettiere è appeso a una croce che passa sotto le ascelle. L'espressione del suo volto, con le labbra rinserrate e gli occhi socchiusi, è piena di mestizia.


***


Tornano le eterne domande: Quando? Dove? Cosa fare? Chi? Come? Quale? Perché? Le risposte mi consentiranno di valicare i sette cancelli di diverso metallo (piombo, rame, ferro, stagno, mercurio, argento, oro) per salire i livelli logici del Caduceo.

Ad autunno inoltrato, causa il Carnevale si registra in città un sensibile aumento dell'affluenza di stranieri, il vestibolo della Basilica è frequentato da una moltitudine di gente di passaggio in aggiunta alle solite assemblee, alle rappresentazioni e ai mercati che si tengono al suo interno; fatico a trovare la concentrazione necessaria al mio lavoro, così cerco di tenere lontano i curiosi con gli steccati di vimini e spesso sono costretto a scacciare con male parole i giocatori di dadi che si piazzano a lato della cupola e mi infastidiscono con i loro continui schiamazzi. Ma alle volte si avvicinano personaggi speciali, che lasciano in me una scia di emozioni e turbamenti.

Tra loro, i primi tre che mi vengono in mente sono individui di bassa lega: un barbone, una cortigiana e uno scaricatore di porto...

Il barbone mi piombò fra i piedi nella confusione di un sabato sera; sul muro intonacato di fresco stavo mettendo ad una ad una le tessere di mosaico, scartavo e sceglievo fra quelle dello stesso colore alla ricerca della tonalità adatta, quando percepisco un odore cattivo alle mie spalle. Con la coda dell'occhio guardo giù dall'impalcatura dove sono seduto e scorgo un uomo attempato con la barba incolta, si appoggia a un bastone di bambù, tiene in mano una lampada ed è vestito di stracci con tanto di pezze ai piedi.

«Uh che puzza! -esclamo- Ma il Comune... non si era preso l'impegno ufficiale di scacciare i vagabondi?»

«Il non lavar le membra è un preciso dovere cristiano», risponde quello semiserio.

Sospendo il lavoro, mi giro completamente verso di lui e squadrandolo dall'alto in basso noto al suo dito un grosso anello nero:

«Che pietra è quella? Carbone».

«Onice di Charchan».

«Onice! Stattene alla larga, non lo sai che l'onice attira gli incubi notturni? Certo che sei un tipo curioso - scrutandolo come per indovinare il suo passato -. Mi devi spiegare che diavolo di attività facevi per poterti guadagnare onestamente quella pietra?»

«Beh, diciamo, il commerciante».

«Chissà che fini investimenti al mercato delle pulci».

«E smettila di sfottere! Sei un caga alto con la puzza sotto il naso».

Per un attimo si fa severo nello sguardo, ma poi riprende confidenzialmente la conversazione e mi parla spensieratamente della sua condizione, quasi la trovasse divertente:

«Passo il tempo senza preoccupazioni e senza obblighi di sorta, vado in giro tutto il giorno a vagabondare. La gente mi evita e mi disprezza vedendomi così conciato, mi danno la carità tanto per liberarsi della mia presenza, ma non sanno che i veri poveri sono loro. Mi ghe sboro, no voio storie. Mi basta trovare qualcosa da mangiare e sono contento».

Interpreto le sue parole come una richiesta di cibo, salto giù dall'impalcatura, tiro fuori dalla bisaccia una grossa pagnotta e gliela porgo. Egli la tasta per sentire se è fresca di giornata, estrae un falcetto dalla tasca e la taglia a meta tornandomene una parte.

«Accidenti che falce tagliente», commento sorpreso.

«I barboni che mi ronzano intorno sono pronti a rubarsi fra loro anche le pulci, ma se qualcuno si azzarda a toccarmi l'anello, sacramento gli taglio le balle.

Beh, grazie del pane tornerò a trovarti fra non molto, sempre se ti onori della mia amicizia...»

«Perché no, non mi dispiace avere un amico pezzente. Chi trova un amico trova un tesoro».

«A proposito, ti porto i saluti di un certo Zagreo».

Balzo dalla sorpresa e gli afferro il torace per la veste:

«Zagreo, tu lo conosci, dov'è? E' vivo?»

«Il 15 dicembre del 1250 un prigioniero dei pozzi è stato sepolto nella notte, recava i segni dello strangolamento, ma non v'è la certezza che fosse proprio lui».

«Posso essere edotto su come la signoria vostra sa tutte queste cose» mollo la presa mentre continuo a fissarlo negli occhi.

«Sono amico intimo dei becchini. Piuttosto, dimmi, pare che tu conoscessi molto bene Zagreo? Sei l'ultimo che l'ha visto prima dell'arresto».

«Si, e allora?»

«Dovresti sapere dove è finita una certa lettera?»

«Certo che lo so - estremamente irritato -. Ma non lo dirò mai a un fottuto spione come te e ora vattene all'inferno!»

Quel barbone non l'ho più rivisto per un pezzo.

Ho visto di meglio...

Una mattina, ecco apparire sulla soglia una ragazza belloccia e formosa, viene verso di me ondeggiando languida languida col passo della colomba:

«Mi occorrono smeraldi, lapislazzuli, acquamarina... un bel mucchietto di pietre preziose per farne gli occhi dei pesci».

Apre in fessura il mantello e il verde chiaro della tunichetta aderente e scollata, mi aiuta a ricordare chi sia. E' la cortigiana che avevo intravisto l'altro Carnevale sulle Fondamenta delle Tette, quella che poi era finita a letto con il butterato; la veste è la stessa ma il seno, pur sodo e appuntito, non è fuori della scollatura come quella sera... con i capezzoli dipinti di carminio.

«Come è fatto il tuo costume di Carnevale?» mi informo prima di indicargli i mucchi di pietruzze colorate.

«Pesci finti attaccati a una rete da pesca che mi fa da vestito», spiega con gli occhi scintillanti.

«E sotto la rete?»

«Sotto nuda».

Un brivido di eccitazione mi stuzzica i sensi, inghiotto un fiotto di saliva:

«Ma come, dentro una rete trasparente? Senza coprirti...»

«Che c'è di strano, io mi vesto da povero pesciolino finito nella rete e i pesci sono nudi: hai mai visto un pesce che si copre la mona?», con una risata sguaiata.

Le mostro in terra i cesti ripieni di pietruzze, ogni cesto per un diverso colore. Mentre lei si accovaccia, chinata in avanti a scegliere le pietre più belle, la gonna le scopre fino alla radice la coscia bianca e liscia come il marmo. Dove la coscia finisce, risalgo a spogliarla con la coda dell'occhio guidato dal desiderio di costruirmi un'immagine mentale del suo corpo, così da poterla fantasticare nuda sotto la rete. Inebetito, desidererei allungare la mano sulla coscia e d'istinto lo faccio, ma alla sua risata sguaiata mi ritraggo cercando di controllarmi. Nel far mente locale prendo atto di come una signora dedita all'onorato mestiere di cortigiana sia penetrata nel recinto di un luogo sacro.

Ha importanza? I preti di questi tempi non danno certo il buon esempio in fatto di castità, visto e considerato che i parroci si consolano volentieri con le perpetue, che molti vescovi mettono al mondo figli con le mantenute e che addirittura, un vescovo incline agli affari ha fatto costruire un bordello.

Mentre distolgo gli occhi dalla cortigiana china sulle ceste, si profila alle mie spalle una incredibile sorpresa.

E' grosso come un manzo, pare un giovane capo pronto per la macellazione. Emana un sudore che sa di corteccia d'aloe, effluvio che si mescola all'odore di cuoio dei suoi bracciali.

Erimanzio, si è imbarcato nuovamente alla volta di Venezia. Anche oggi è di cattivo umore, mi fa sapere che per un pelo volavano botte da orbi.

Lui aveva posato a terra sulla banchina la carne di cinghiale, per caricarla poi sulla nave, ma due marinai gliel'avevano messa dentro un vaso di bronzo: per questo non riusciva a trovarla!

Mentre rievoca i futili motivi della discordia e indugia concitato sui particolari dell'odioso battibecco, gli leggo chiaro in volto il gusto per il confronto e per la contesa fine a sè stessa. Ciò cui tiene Erimanzio è soprattutto il mettersi in mostra sempre e dovunque; anche se ora i suoi discorsi non interessano la cortigiana, che lo ascolta distrattamente senza degnarsi di interrompere la sua occupazione.

Per far rabbia a quel guastafeste, mi diverto a aizzarlo ancora di più e pretendo dare ragione ai due marinai. Obietto che egli ha torto ad infuriarsi a quel modo con chi fa semplicemente il proprio lavoro, il vaso di bronzo era un recipiente idoneo al trasporto, dovevano forse lasciare la carne per terra, nella sporcizia? Era loro diritto metterla al suo posto dentro il vaso.

Erimanzio replica che loro non dovevano immischiarsi in quello che faceva lui e che il diritto è del più forte e che la ragione sta sulla punta della spada, che tutto il resto non conta e via così. Dunque egli non può darla vinta a dei rammolliti, non è la prima volta che quei due lo prendono in giro e oggi ne hanno sentite tante che non oseranno più fiatare per un pezzo. Così hanno imparato a rispettarlo.

A conclusione del discorso, Erimanzio gonfia le spalle stirando fin quasi a strapparla la tunica scarlatta, contrae i bicipiti delle braccia erculee e scaraventa il pugno chiuso a percuotere sonoramente il palmo dell'altra mano. Allo schiocco la cortigiana solleva il capo dalla cesta, si gira e lo squadra.

Improvvisamente Erimanzio si rilassa, tutta la sua collera è svaporata, sembra quasi un'altra persona. Incuriosito dalla cupola, fissa attentamente i mosaici del soffitto e pur in tono amichevole, sfodera il suo sarcastico commento:

«Bah, io questi pupazzi non li capisco».

La cortigiana ha racimolato il suo bel mucchietto di pietruzze, abbastanza per i costumi di tutto il bordello, e a titolo di congedo mi da un bacio schioccante sulla guancia... ma non mi è sfuggito che mentre mi baciava ha strizzato l'occhiolino ad Erimanzio.

Ferma sulla soglia continua a fissarlo obliquamente, estende il collo, passa la mano sui capelli e lo invita con calore:

«Ci tengo a che tu veda ultimato il mio costume di Carnevale. Dai, vieni a trovarmi questa sera nella Casa dei bagni pubblici, vicino al Ponte delle Tette. Chiedi di Bellela!»

Mi accosto all'orecchio dello scaricatore e gli dico sottovoce:

«E' una onorata signora di Venezia, possiede un patrimonio in pietre preziose e potrebbe regalartene qualcuna, non lasciarti sfuggire una simile occasione».

Aperto la tunica sul torace, Erimanzio pompa i muscoli, oscilla le ampie spalle, esagera ogni suo movimento agitando ingalluzzito le membra. Scopre infine la serie dei suoi denti un po' guasti e rivolto alla onorata signora annuisce con la testa.

E' cascato nella rete come un baccalà.
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Messaggio da birillino8 »

C'è chi arranca per vivere e chi vive per arrancare. Zuanne Zusto è il classico rampante che appartiene alla seconda categoria. Orfano di padre per una scorreria del corsaro genovese Alamanno da Costa, ora è diventato Procuratore di San Marco. La carica comunale a vita che detiene ha il compito di amministrare i fondi in dotazione alla basilica, di provvedere alla manutenzione e alla decorazione dell'edificio e di soprintendere ai suoi cappellani, né esulano dalle sue mansioni l'amministrazione dei testamenti e la tutela dei malati di mente o dei minori.

Non nobile ma di famiglia benestante, Zuanne Zusto ha potuto accedere agli onori della carica nel contesto dell'ascesa del popolo grasso, un fenomeno che appena in questi ultimi anni si comincia a registrare. I non nobili vogliono porre fine alla loro esclusione dal potere, a gran voce chiedono di partecipare all'amministrazione e alla politica comunale, sicché il rigido ordine della società veneziana ha dovuto aprire una breccia alle possibilità di carriera di varie figure professionali, concedendo a ciascuna di esse lo spazio per esercitare le specifiche prerogative e competenze.

Zuanne Zusto ha saputo muoversi abilmente in mezzo a questo fermento, sfruttando al meglio ogni occasione per scavalcare i concorrenti. Il popolo minuto non fa che sparlare sul suo conto. S'è arruffianato coi più ricchi tra i nobili di Venezia per ottenere favori e sostegni alla sua carriera politica, fino alla candidatura di Procuratore di S. Marco. La giovialità del suo carattere nasconde in realtà tutta la determinazione e il dispotismo accentratore che l’autorità della sua particolare magistratura gli consente di esercitare, già nella sua mezza età. Comunque, nonostante tutto, gli si deve riconoscere il merito di saper eseguire in perfetto ordine ogni compito che gli venga assegnato.

Nel 1249 fu lui uno degli intermediari delle proposte guelfe presso quei Comuni lombardi che erano ancora fedeli a Federico II. Zuanne Zusto aveva degli ottimi agganci e grazie alla sua abilita negli intrighi, sicchè Como abbandonò gli imperiali ed entrò nella Lega Lombarda.

A mezzogiorno il Procuratore supera il portone della basilica sotto un cielo di nubi minacciose, il suo torace sproporzionatamente grande è avvolto in un largo mantello, il naso aquilino spicca sulla faccia squadrata e i suoi imperiosi occhi celesti mi incutono subito una certa soggezione.

Discutiamo di acquisto di materiali e di stipendi degli operai.

Al termine lo accompagno all'uscita ma una folata di vento ci blocca sul portone e ci ricaccia dentro, un fulmine annuncia con fragore l'arrivo del temporale. Il nubifragio si scatena improvviso e violento.

Al che il Procuratore si ferma sulla soglia e inizia a chiacchierare pacatamente con me:

«La verità è che i giovani d'oggi sono più pronti ad abbracciare il fascino dell'eresia che non i sacrifici della Fede - dice intercalando un lungo sospiro -. Così la Chiesa di Roma si ritrova a dover tener testa a un fronte interno di dissidenti.

A Como, in Lombardia, l'eresia catara è in grande crescita proprio fra i giovanissimi, i catari sono dei fanatici manicheisti...»

«...dei pazzi furiosi» aggiungo.

Una saetta cade nelle nostre vicinanze, tuona e illumina il volto arcigno del Procuratore mentre si infervora in un crescendo di anatemi:

«Ogni religione deve fare i conti in casa con una setta di svitati, i Mussulmani hanno i sufi, Israele i cabbalisti, i Cristiani hanno la peste dei catari. E non basta, non esiste mica solo un tipo di eretici, ce ne sono di tutte le specie e crescono come la zizzania, le streghe al rogo non si contano più, stanno diventando un numero spropositato, e ci sono i maghi, e ci sono i filosofi della natura, quelli dalle idee troppo particolari, troppo contrarie ai dogmi della religione. La Chiesa ha il preciso dovere di difendersi, deve trarre le armi migliori dal suo arsenale e usarle a manifesta battaglia contro i nemici».

I discorsi che infiammano Zuanne Zusto cadono immancabilmente sul medesimo tema, troppo esperto ed informato nel campo degli eretici egli si accende non appena se ne parli.

Ho il sospetto che faccia l'informatore per l'Inquisizione e inizio a sondarlo con tatto e circospezione:

«La cosa più difficile è stanare gli apostati».

«Ne esistono ancora? Se si voglia individuare i rinnegati che tornano al paganesimo è d'obbligo fare riferimento alla situazione precedente il Messia.

Rispetto a Roma centro del mondo esistevano i pagani del Nord, del Sud, dell'Est e dell'Ovest, differenti fra loro ma provenienti da un unico ceppo diabolico. L'idolatria non è stata estirpata alla sorgente e nonostante l'avvento dell'unico Dio ai quattro angoli dell'Europa il male serpeggia ancora fra i cristiani, occultato come un fiume sotterraneo».

«Fammi un esempio».

«A occidente ad esempio sopravvive la magia dei Druidi, ben camuffata nella leggenda dei Cavalieri della Tavola Rotonda alla ricerca del Santo Graal. Oggi c'è un gran rifiorire di quei racconti perversi e circolano libri sulle profezie di Mago Merlino, la Chiesa dovrebbe proibirne la lettura perché sono fonte di corruzione e invece li ignora perché pensa si tratti di banale letteratura».

«Lasciami indovinare, i pagani del Sud onoravano gli dei della mitologia greca e i pagani dell'Est?»

«Alle porte dell'Oriente, molto prima del Messia gli uomini umiliavano la loro virilità davanti a una dea, quella che con minimo sforzo delle dita spalanca le fauci del leone. E' scolpita sul secondo arcone del portale centrale della basilica, se osservi con attenzione la puoi vedere con le chiome al vento fra la serie che rappresenta le virtù.

L'immondezza mascherata da Fortezza testimonia che gli apostati hanno costume di frammischiarsi a noi» conclude sottovoce fissandomi allusivamente.

Un brivido di terrore mi fa accapponare la pelle. Ho l'impressione che sappia molte cose sul mio conto e vacillo all'idea che possa scoprire i significati segreti della mia cupola. Da come sfoggia la sua vasta cultura intorno ad ogni tipo di eretici ed eresie, non mi stupirei se fosse così esperto e smaliziato anche nel territorio della Magia Egizia.

Accenno:

«Gli Iperborei, allora? Gli adoratori di Apollo dove li metti?»

«A Nord».

«Ecco, a mio modesto parere ti sbagli, voglio dire che la classificazione dei pagani secondo i punti cardinali mi sembra un po' artificiosa, troppo teorica, non tiene conto delle migrazioni. Gli Iperborei non si possono collocare soltanto a Nord».

«E perché no, tutti gli autori greci li hanno posti a Nord».

«Gli Iperborei non rientrano in particolare in nessuno dei quattro gruppi perché da Nord si sono mossi a Sud, da Sud a Est e da Est a Ovest, se vuoi ti posso anche dire l'itinerario, precisamente essi migrarono dall'Apollonia in Macedonia, dalla Macedonia sbarcarono in Anatolia e infine, dall'Anatolia vennero a occidente portandosi seco il culto apollineo».

«E adesso dove sarebbero finiti secondo te, questi indecisi?»

«Qui».

«A Venezia? Ma sei matto!»

«No, è vero».

«Devi dimostrarlo, spiegami ad esempio in che modo sia sopravvissuto il loro culto, visto che a Venezia minima traccia di costoro non s'è percepita».

«Lo posso testimoniare in base a quanto mi ha confidato personalmente un trovatore greco» spavaldo.

Gli strizzo l'occhiolino e assumo un'aria di complicità.

Il Procuratore si fa guardingo e inizia a parlarmi sottovoce:

«Fidati di me, io non amo i sotterfugi, tu hai sentito or ora il mio parlare esplicito, il carattere che ho mi impedisce ogni comportamento che non sia chiaro e dritto come la spada della giustizia.

So di quel trovatore greco... quell'apostata di Candia.

Qualcuno mi ha incaricato di controllare se ti mantieni ligio al giuramento dell'abiura, ma non temere io ho una buona opinione di te, so che vuoi perseverare nel giusto... e allora, quale mezzo è migliore per affermare la tua estraneità all'eresia se non, conoscendone alcuni come tali, denunciare gli eretici all'Inquisizione?

Sono certo che hai qualche informazione da darmi».

E' uno scaltro agente dell'Inquisizione, stavo scherzando con il fuoco. Mi vengono i sudori, sbottono il colletto della mia tunica rossa e azzurra:

«L'arte, la musica, la raffinata ricerca del bello, ti palesano niente? Sono l'evidente sopravvivenza del culto apollineo degli Iperborei» in tono sibillino.

«Continua, dove vuoi arrivare? A buona informazione buon prezzo, alludi forse ai tuoi compagni d'arte? Voglio prove precise sugli adoratori di Apollo, un segno inequivocabile della loro presenza, un qualche emblema distintivo che ci indichi con certezza il loro covo».

«Una buona manciata di piccoli?»

«Avrai le tue monete».

«Quand'è così ti consegnerò la prova lampante, il segno che dissuggella e rende flagrante ciò che hai in animo di sapere."

La pioggia è cessata, lo afferro per la manica della tunica e lo trascino fuori in piazza S. Marco.

A braccio teso gli indico la colonna del leone:

«Ecco!»

«Ecco cosa?» e fa un gesto interrogativo.

«Il grifone di Apollo Iperboreo! Aveva le corna e le hanno scalpellate».

«Ma va all'inferno. Non ho tempo da perdere con gli scherzi di Carnevale, ho cose ben più serie per la testa!» impreca allontanandosi seccato.


***


Un bambino, mia moglie, un trovatore, l'innocenza, la dolcezza, l'eloquenza, ecco le visite cui tengo in più alto rispetto...

Il bambino entra di corsa nel vestibolo della cupola volteggiando dall’estremità di un bastoncino due nastri gialli che serpeggiano lunghi in aria. Si ferma di colpo e mi osserva con il visino all’insù. Sono sospeso sull'impalcatura e sto lavorando agli ultimi ritocchi della figura di Giuseppe venduto a Putifarre, il capo delle guardie del Faraone. Il mio visitatore ha nove anni e dice di chiamarsi Marco, dal vestire e dall'aspetto curato riconosco la sua origine nobiliare.

Appena ha la parola inizia a tempestarmi di domande:

«Chi è quello lì?» indicando con il braccino teso la figura.

«E' Giuseppe schiavo degli Egiziani» gli spiego e proseguo a incollare pietruzze per finire la pelle scura e rugosa dei mercanti di schiavi.

Egli osserva tutto in silenzio con l'espressione vivace di un cucciolo, si gratta la testa coperta dal caschetto di capelli biondi e poi ricomincia a fare domande:

«Perché disegni favole sul muro?»

Il quesito non facile mi costringe a riflettere un attimo per imbastire una risposta adeguata, finché risolvo così la questione:

«I grandi non credono alle mie storie, povero me, e allora mi sono messo a disegnarle per i bambini, questa è la favola delle sette mucche magre che mangiano le sette mucche grasse».

«Le mucche mangiano solo erba, me l'ha detto la mia mamma» esclama.

Mi ha incastrato, comunque sono entrato nelle sue simpatie e ogni giorno viene a trovarmi, per un po' si ferma a guardare serio le nuove figure che ho creato, quindi vuole che mi pieghi e che lo faccia salire a cavalcioni sulle mie spalle per vedere più da vicino le figure. Poi scende a terra, furtivamente mi sottrae qualche pietruzza colorata e scappa via di corsa nella piazzetta adiacente a giocare a mosca cieca con gli altri bambini.

Marco mi da da pensare. Si dimostra troppo avveduto e coscienzioso per essere un bambino, potrei sospettare in lui la reincarnazione di un sapiente del passato se credessi come Platone nella metempsicosi. Ma non ci credo, o meglio, ritengo che l'anima di un uomo sia sì di natura immortale ma possa incarnarsi in un altro corpo solo attraverso il veicolo dei propri figli, modellandone le sembianze fisiche e operando le loro scelte fondamentali senza che essi se ne accorgano. Ne deriva che ogni uomo ha in sé una particella dell'anima di tutti i suoi predecessori ed è davvero una grande responsabilità per ciascuno di noi, sapersi il frutto delle lotte e delle sofferenze di una innumerevole schiera di antenati, indietro, indietro nel tempo, fino ai giganteschi Titani, dalle cui ceneri nacque il genere umano.

I bambini sono nanetti ma a cavalcioni sulle spalle dei giganti possono vedere più lontano di loro.

I lavori nella cupola proseguono senza tregua.

Nella posa finale di un pezzo di mosaico i ritmi di lavoro si fanno più pressanti, spesso lavoro ininterrottamente per ore e ore dimenticandomi perfino di mangiare, finché crollo dalla fatica e mi addormento, disteso sul sedile di pietra che corre parallelo alla parete della cupola.

E' quello che è successo oggi e sto dormendo un sonno così pesante che nessun sogno è ancora venuto ad allegerirlo. Qualcuno si avvicina in silenzio e posa delicatamente le labbra sulle mie palpebre chiuse. Aprendo gli occhi in fessura, a poco a poco metto a fuoco la figura di una donna vestita di rosa sgargiante e i suoi lunghi capelli e i due grandi cerchi d'argento ai lobi delle orecchie. Ha gli occhi color dell'ambra, luminosi e trasparenti.

Mia moglie Diana ha voluto farmi una improvvisata, è una novità dacché prima d'ora non aveva mai messo piede nella cupola.

Sento di volerla con tutta l'anima. L'oggetto del desiderio è qui davanti a me, dentro la sua pelle vellutata, è una realtà che adesso posso toccare e tuttavia si mescola alla favola che ho dipinto sulla cupola.

Come posso sapere dove termina il sogno e dove comincia la vita?

Strade parallele mi hanno portato alla realizzazione dei miei sogni:

meta impalpabile del mio volere è ciò che ho raggiunto nella Pietra dei Magi e solo per vie traverse, tra l'opposizione dell'Inquisitore e l'aiuto di Zagreo, la magia mi ha infine condotto alla Cosa Unica e alla consapevolezza della sua natura;

tangibile punto di partenza dell'osare, docile bersaglio della mia voglia maschia, è questo fiore di ragazza, in lecito servaggio a me aggiogata in dono da Venezia e dai suoi canali poi che smisi d'esserne disgiunto.

Le accarezzo il viso ed ella ricambia il gesto passandomi le dita sui capelli, e va alla nuca e al collo, scende sotto la tunica a tastarmi il torace, accarezza a due mani i miei fianchi, mi massaggia il dorso delle cosce, poi prende le mie dita e le succhia piano con la lingua.

Perché proprio Diana è la mia sposa e non un'altra fra migliaia di donne che popolano la città? Non lo so. orse lei, perché ha saputo entrare nella mia favola, rubare il posto al servo coppiere, saldare l'intreccio delle nostre anime intorno a un sogno vissuto insieme.

Per chi sogna il sognare è realtà fin tanto che l'illusione non si spenga al risveglio, viceversa per colui che è desto, la realtà è realtà, solo che il sonno non gli rubi le membra.

Ma c'è per me un confine d'amore misto di vigile torpore ove scivolano le sue carezze dulcamare, tenere e inflessibili, loquaci e pur mute nel loro dolce tacere.

Prendo in mano la cazzuola, lei prende la brocca e versa acqua sulla malta.

Alcuni giorni dopo finirà il mese.

Nella prima quindicina del dicembre 1252 un flusso di ricordi accompagna di pari passo il rallentamento dei lavori nella cupola.

Un ciclo, un ciclo di due anni si è compiuto e i miei pensieri si ripiegano all'amaro rimpianto di Zagreo.

Chissà? Forse ho sbagliato a crederlo morto, posso anche aver male interpretato le allusioni di Cengio, le parole di un ubriaco non sono attendibili. Ma la salma che ho visto trascinare quella notte? L'uomo avvolto nel lenzuolo poteva essere un altro, lo strangolato che hanno visto seppellire pure, forse il mio trovatore è vivo, probabilmente resterà nei pozzi a vita e comunque non si può mai dire... la grazia di un prigioniero politico, uno scambio di prigionieri.

No, forse mi sto solo illudendo, dubito che lo vedrò apparire un giorno sul portale della basilica, con i riccioli arruffati e la barba nera, col mare di Grecia negli occhi in quel suo sguardo fiero e dolce.

Di fatto, ecco un trovatore venire alla cupola, ma non gli assomiglia per niente, è molto diverso da Zagreo tanto nel fisico che nel carattere. E' in abito da cavaliere, avrà più di trentacinque anni, biondissimo e longilineo sovrasta tutti in altezza e porta sull'elmo lunghe piume di gallo.

Mi colpisce il tipico aspetto da uomo dell'estremo Nord:

«Qual'è la vostra patria cavaliere?»

«L'Islanda. Paese governato dalle forze contrapposte della natura, il calore delle eruzioni vulcaniche e il gelo dei ghiacci eterni».

«Ah».

«Ora sono alloggiato a Rialto nel fondaco dei Tedeschi. Mi chiamo Snorri, sono un trovatore».

«Onorato. Fui molto amico di un trovatore greco, non ho mai dimenticato la bellezza dei suoi inni, l'eco della sua voce credo mi accompagnerà per tutta la vita».

«Dov'è quel trovatore? Incontrare un collega d'arte mi fa sempre piacere, è una delle ragioni per le quali ho scelto la vita errante».

«Quel greco dovrebbe essere morto».

«Dovrebbe?»

«Vivo... morto... non so. Di certo vive nella mia memoria».

«Ah, l'immortatilità è il privilegio di pochi, poeti ed eroi che hanno lasciato una traccia nel ricordo degli uomini».

«Voi piuttosto, come mai così lontano dalla vostra terra?»

«Giovanissimo approdai in Prussia dall'Islanda. I Prussiani tenevano in alto conto i doveri dell’ospitalità, io facevo il trovatore nel castello di un certo Pipino, ma dopo qualche tempo si abbatté su di noi una catastrofe».

«Cos'è successo?»

Snorri si toglie l'elmo e si mette a sedere sulla panca di pietra, ha i capelli biondi tagliati corti a spazzola:

«Ecco, i Prussiani erano poligami e adoravano il dio della folgore. Erano gente abituata a non avere padroni. I contadini possedevano i campi di grano senza dover rendere conto a nessuno e ciascuno poteva pascolare le proprie mucche dove voleva, poteva raccogliere il miele, cacciare ovunque nella foresta e pescare liberamente nei laghi. I loro nobili erano semplici capi militari, in tempo di pace non avevano alcun potere e le decisioni importanti venivano prese all'interno dell'assemblea generale degli uomini liberi.

Ma erano pagani e la crociata dei Cavalieri Teutonici invase le loro terre con il pretesto di convertirli. Nel 1230, forte dell'appoggio di Federico II, l'Ordine Teutonico si radunò nella Marca di Lusazia e attraversò la Vistola per entrare in Prussia. In pochi anni i Teutonici assoggettarono la regione e vi governarono con estrema durezza, trattando come schiavi i Prussiani convertiti.

Pipino, il mio signore, pur essendosi convertito al Cristianesimo fu giustiziato atrocemente e solo per essersi ribellato all'Ordine Teutonico».

Snorri corruga la fronte assumendo un'espressione tesa e corrucciata.

«Dalla Prussia dove ti sei diretto?»

«In Baviera. A Ratisbona ho stretto amicizia con Tanhuser, un famoso trovatore del Minnesang. Poi sono andato a corte».

«Dove?»

«Nel castello di Wolfsteine, presso Landshut.

Per inserirsi nelle corti tedesche lo straniero deve superare grandi difficoltà, ma io ero entrato nelle simpatie del conte Mainardo di Gorizia che mi ha presentato alla consorte dell'Imperatore Corrado IV».

«Vuoi dire Elisabetta, la madre di Corradino di Svevia?»

«Sì, ero al castello quando è nato Corradino, il 25 marzo di quest'anno».

«Caspita, la corte Sveva!»

Il trovatore indossa la maschera dell'attore ed entra nell’espressività dei suoi temi poetici:

«Col liuto cantavo gli ultimi giorni di Thor, Odino, Freya e di tutte le potenti divinità dei Popoli del Nord. Annunciavo la fine dei tempi: il corno del Valhalla che sta per suonare l'ora del Ragnarok, il crepuscolo degli dei».

«Ragnarok, la sola parola mi fa venire i brividi».

«Alla caduta degli dei un violento terremoto aprirà la crosta terrestre ed il lupo Fenrir, incatenato nel mondo degli inferi, uscirà allo scoperto e inghiottirà il sole e la luna. Le stelle cadranno dal cielo, il cielo si spaccherà in due e dallo squarcio sbucheranno al galoppo i Giganti di Fuoco a seminare ovunque la distruzione. Naglfar, la nave fatta con le unghie dei morti, salperà dalla Spiaggia del Cadavere ove attendeva questo istante da tempo immemorabile.

Quando il corno del Valhalla avrà suonato, gli eroi del bene e del male si annienteranno a vicenda combattendo in duello: Thor, con l'invincibile martello riuscirà a spaccare il cuore del Serpente del Mondo ma dopo nove passi cadrà esanime, ucciso dal suo fiato velenoso; Odino lanciato al galoppo contro il lupo Fenrir verrà inghiottito per sempre nell'abisso delle sue fauci spalancate; a nessuno sarà dato sopravvivere. L'universo scomparirà nel grande collasso di un cataclisma di fuoco ritornando ad essere ciò che era in principio: caotico, informe, silenzioso nulla».

Balbetto:

«Quando scoccherà quell'ora terribile?»

«E' prossima».

«La profezia sub Flore... Non sopravviverà proprio nessuno?»

«Finito il Ragnarok tornerà il figlio di Odino: Vali, il vendicatore. Lo dice la profezia di Volva la maga Veggente.

Sarà per i popoli del Nord la riscossa contro le oscure forze dell'Anti-Europa, che stanno pianificando l'appiattimento delle coscienze» conclude mentre si alza in piedi rimettendosi l'elmo piumato.


***

Fedele alla promessa è ritornato il barbone, ma il mio primo visitatore è ora pressoché irriconoscibile: sembra più giovane, ha la barba rasata con cura, un ricco vestito addosso e tanto di servitore appresso.

«Però, paga bene il governo per fare lo spione!» lo apostrofo con sarcasmo.

«Ma signore, vi prego, state parlando con il nobiluomo Labia» precisa il suo servitore.

«Ah ah che ridere, il Nobiluomo Labia!»

«E' vero sono uno degli uomini più ricchi di Venezia - senza sbilanciarsi -. Tanto ricco che posso buttare i piatti d'oro dalla finestra».

«Puoi anche andare a fartelo mettere...» mi blocco a meta frase, al posto dell'anello di onice vedo al suo dito un gigantesco diamante. Cambio espressione.

In effetti il suo portamento appare consono al ruolo e se dicesse il vero?

Egli riprende la parola togliendomi d'imbarazzo:

«La mia enorme ricchezza mi consente di avere a disposizione tutto ciò che voglio però, benché il denaro possa esaudire qualsiasi mio desiderio, mi mancava ancora l'esperienza di una sola cosa: la povertà. Quindi vestito a Carnevale ho provato per alcuni giorni a fare la vita del barbone ed è stato un vero spasso osservare le reazioni della gente e divertirmi alle loro spalle, specie di quei citrulli che hanno le narici troppo sensibili».

Sono rimasto senza parole, mi si è inceppata la lingua.

Con un cenno egli allontana il suo servitore e rimaniamo soli, ha una espressione tesa e severa:

«Ora posso parlare liberamente. Il governo ha rotto il trattato con Genova grazie alla nostra fazione filo-lombarda, pochi ma ricchi nobili fortemente contrari agli accordi. Il piano di Zagreo ci era utile per destabilizzare le relazioni diplomatiche tra le due città, ma era un piano fasullo perché il complice di Nicea era pagato da noi».

«Voi avete avete pagato il complice?!»

«Sì ed è il suo complice che l'ha denunciato all'Inquisizione, ha condotto gli sbirri fin sotto la scala dell'albergo e poi se l'è squagliata. Il Doge doveva venire a sapere di un piano congiunto per la liberazione dell'isola di Candia, convincersi di inesistenti proposte genovesi per un nuovo patto di alleanza coi Greci e a favore dei ribelli. ».

«Inesistenti proposte genovesi... Qualcosa però non ha funzionato, perché Zagreo ha nominato soltanto la Verona di Ezzelino».

«La lettera da Nicea, la lettera di risposta ai Genovesi da parte del despota greco Giovanni Vatace».

«Ho capito, carte false per seminare zizzania tra Genova e Venezia: Creta di nuovo sobillata dai Genovesi come nel 1216...».

«La falsa lettera doveva averla con sé Zagreo nella camera dell'albergo al Pellegrino. Invece no. Non sapevamo dov'era finita, si pensava l'avessi tu e per questo, con una denuncia anonima, abbiamo consigliato all'Inquisizione di perquisire la tua casa».

«Ah, siete stati voi - sempre più sorpreso -. E come mai il complice di Nicea è finito in carcere. Qualcos'altro non ha funzionato?»

«No, il complice vero è fuggito, l'abbiamo fatto tornare a Nicea.

Dovevamo comunque rimediare all'intoppo, abbiamo riscritto la finta lettera di Giovanni Vatace e l'abbiamo consegnata al Doge assieme ad uno schiavo greco, uno che era salito a Nicea sulla stessa nave di Zagreo, un mercantile che batteva stendardo genovese.

Naturalmente sotto tortura lo schiavo ha confessato colpe non commesse pur di sottrarsi al carnefice».

«Che infami carogne» voltandogli le spalle e ricominciando a lavorare.

«La Lega Lombarda giova alla nostra difesa, Genova invece lede i nostri interessi commerciali. A Smirne, a Bisanzio, nelle isole di Samo e di Chios, nella stessa Acri, ovunque i Genovesi stanno mettendo le basi della loro espansione commerciale e sempre in diretta concorrenza con i nostri mercati. Dobbiamo guardare lontano, fermare i Genovesi prima che sia troppo tardi, se necessario anche finanziando una flotta per distruggere con la forza le loro colonie».

«Perché sei venuto qui?» girandomi con lo sguardo di fuoco.

«Per farti sapere che se ti azzardi a consegnare al Doge la lettera di Giovanni Vatace finirai arrostito come un fagiano, questa volta abbiamo le prove per incastrarti!»

Queste inquietanti minacce, rinvigorite dalla paura che il nobile Labia o il Procuratore o chi per loro abbia scoperto i significati magici della mia cupola, fa sì che nel sonno di quella stessa notte la mia tensione si risolva in un incubo, un sogno terrifico dalla trama lunga e complicata, sicuramente provocato dalla mia consapevolezza di avere la coscienza sporca.

Non l'idilliaco sogno delle sette vacche magre ma nudi e raccapriccianti sette tra i visitatori della cupola: il nobile Labia nudo e con la maledetta pietra di onice al dito, nuda la puttanella e nudo Erimanzio, nudi altri quattro che sul momento non riconosco. Minacciosi e armati di bambù muovono verso di me dal pascolo di Mas di Sabbe, mi accusano di eresia e mi spingono con la punta delle canne. Cerco di fuggire, temo di venire arrestato, ma le gambe si muovono a rilento come se dovessero vincere una estrema resistenza, il mio corpo non risponde ai comandi, vinto da una fastidiosa sensazione di pesantezza inciampa sotto le spinte, cado in ginocchio a quattro zampe sull'erba. Il nobile Labia mi sputa addosso e mi percuote la natica con un colpo di bambù, ma non sento dolore o meglio patisco orribilmente per il mio stato ansioso, più terribile di qualsiasi sofferenza fisica. Mi rialzo in piedi, zoppico, cerco di allontanarmi ma Erimanzio mi blocca a mezz'aria con un pugno violentissimo alla bocca dello stomaco, mi piega in due, non riesco a respirare, barcollo in preda al panico. Salta fuori una donna nuda con la testa di mucca, è senza bocca e mentre mi morde la mano pur non avendo la bocca, termina il primo spezzone dell'incubo.

Poi ricordo lo specchio di casa mia. Guardandomi dentro vedevo la mia faccia deformata, allungata e stirata verticalmente come se lo specchio fosse concavo. D'improvviso, mi sento risucchiare in un tunnel e mi ritrovo oltre la barriera, dall'altra parte dello specchio.

In una penombra fitta ed inquietante appare la veste del Procuratore di San Marco. Zuanne Zusto ha un magnifico mantello dorato che pende dalle sue spalle in un ampio strascico e sul capo ha diverse corone, una sull'altra. Il Procuratore stringe tra le mani il calice Morosini e lo tiene sollevato in avanti come per porgermelo. Muovo incerto verso di lui, sono stordito e zoppicante, disturbato da lampi di luce a una tempia.

Odo rimbombare l'eco della sua voce metallica:

«Bevi, bevi il veleno. Elixir nelle tue vene. Bevi, bevi...»

E' a pochi passi da me, i suoi imperiosi occhi celesti mi incutono soggezione, protendo le dita e la bocca verso la coppa, ma? Sbatto il naso contro la superficie dura del vetro. Un brivido gelido mi corre sulla schiena, paura e sconforto mi assalgono, mi tolgono ogni desiderio di vivere.

Alle mie spalle echeggia la risata sghignazzante del Procuratore: Ah, ah!... Ah, ah!... Si ripete a intervalli regolari, in modo innaturale.

Mi giro e vedo il Procuratore con a destra una spada dalla lama larga e corta, è riflesso su una serie di grandi specchi disposti a cerchio, colgo un sorriso ironico dipinto sulle sue labbra. Di quelle immagini riflesse una sola corrisponde al vero Procuratore e allora, barcollando come un ubriaco, giro da specchio a specchio, fluttuo dall'uno all'altro. Finché mi accorgo che sto tastando sempre gli stessi specchi, non è il caso di continuare a girare a vuoto, le mie gambe sono instabili e non mi reggono più, cedo, appoggio il palmo della mano sulla superficie riflettente e mi accascio giù desolato, con la mano che striscia umida sullo specchio.

Ma dopo mi ritrovo in piedi davanti a un Procuratore con due spade, una al fianco destro e una al fianco sinistro, mi avvicino, afferro deciso la coppa e bevo il veleno come mi ha ordinato. Il liquido odora di assenzio, il suo gusto è terribilmente amaro, mi impasta lingua e gengive con un sapore che sembra china mista ad acqua di mare. Le labbra mi si torcono in una smorfia di disgusto, apro la bocca in un conato di nausea e la richiudo cercando di raccogliere dalle fauci un po' di saliva per sputare fuori, quando odo l'eco ovattato della voce ferma del Procuratore:

«Devi bere fino in fondo il calice amaro!»

Ad occhi serrati supero l'estrema ripugnanza e ingurgito il liquido.

Arriva l'intensa sensazione di essermi sollevato dall'angoscia. Ero imbrigliato nelle energie negative di un nefasto incantesimo, ma ora posso scegliere attivamente quale direzione dare al mio sogno, ho abbastanza forza per ribellarmi e voglio spezzare il gioco di simmetrie che mi teneva in balia del Procuratore. Di scatto estraggo dal suo fodero la spada a doppio taglio e mi scaravento a rompere gli specchi uno dopo l'altro. Gli specchi si infrangono in mille pezzi, scompare via via l’oscurità del luogo e dietro ogni specchio si rivela la presenza di uno dei miei assalitori, ancora completamente nudo. La donna con la testa di mucca che mi osserva muta, il piccolo Marco che piscia dal naso.

Il Procuratore è sparito non so dove, ma ho in mano una delle sue preziose corone, pomposamente la poso sul capo di Bellela e tutta la sua pelle assume la lucentezza e il colore dell'oro, i capezzoli splendono di luce gialla e i peli del pube si trasformano in sottili filamenti d'oro; faccio un giro intorno al suo corpo da statua e ne osservo ammaliato le curve tonde e intagliate.

Simile a un putto ricoperto d'oro, il bimbo cammina sul prato e comincia a suonare il flauto risvegliando gioia ed ilarità nel gruppetto e così, dorati e incoronati, costoro danzano in cerchio intorno a me in perfetto ordine e sincronia.

Mi ritrovo impalato al centro e la farsa non mi diverte, ecco... in verità io non mi sento affatto soddisfatto. Pur nello stato di sonno, affiora in me la consapevolezza che sto sognando. Mi è capitato altre volte. So perfettamente che sto recitando una parte dentro un incubo e voglio a tutti i costi uscirne, sfondare, tornare alla mia realtà.

Oltre i reconditi significati del sogno, smarrito dietro i sipari dell'alienazione, voglio interrompere la serie infinita di metafore che come uno schermo mi divide dal mondo concreto. Forse il distruggere un sogno mi lascerà dentro un vuoto penoso, mi sbatterà in faccia un'esistenza grigia e monotona, ma non importa, voglio uscire! Sopporterò l'amarezza del risveglio, voglio guardare negli occhi la mia angoscia.

Mentre quelli continuano imperterriti a danzare mi trovo davanti una scala discesa dal cielo.

Oh Gesù, la via d'uscita! Una scala celeste come quella di Giacobbe, il padre di Giuseppe.

Vengo afferrato dall'impulso di salirla, di andare veloce incontro agli angeli. Per l'ultima volta mi giro a guardare in volto quel gruppo di indiavolati cui prima soggiacevo per effetto coordinato di una serie di bastonate, quegli stessi che ora continuano a danzare giocondi ma inconsapevolmente asserviti alla volontà del Procuratore, come marionette nelle sue mani. Li scruto sbrigativamente con l'intento di sondare la loro ingannevole consistenza di fantasmi e finalmente muovo il primo passo sul piolo della scala.

Ma il vertice del capo urta una resistenza, mi sento ricacciare giù, un piede scalzo schiaccia la mia testa. E' il piede del Procuratore in bilico sulla scala. E' vestito da domenicano. Gli bacio i piedi chiedendo umilmente perdono per tutto il male che ho commesso.

Piangevo e gli baciavo i piedi umidi di lacrime, desideravo farla finita con la magia, ritornare all'ovile, riconciliarmi con la Chiesa. Era la sola soluzione possibile, la mia anima risanata avrebbe trovato piena consolazione e allontanato da sé ogni turbamento. Sentivo sulle spalle tutto il peso dei miei peccati, la lista era lunga, spergiuro, tentato omicidio, atti impuri, adulterio, furto, sacrilegio, eresia, ma il cielo perdona a chi si pente, non dimentica il figliuol prodigo e gratifica ogni suo passo verso la conversione. Perfino qui, dentro il regno dei sogni, mi è bastato pensare alla salvezza perché il cielo inviasse apposta per me la scala di Giacobbe.

Ne afferro i pioli.

Proseguendo incontrerò gli angeli del Paradiso che salgono e scendono lungo la scala.

Salgo volteggiando come un acrobata, dopo una cinquantina di metri mi fermo un attimo a osservare in basso, ma i sette che danzavano non ci sono più, al loro posto delle mucche pascolano indifferenti. Salgo rapido verso il cielo, ogni tanto guardo giù e ogni volta vedo le mucche in scala più ridotta, finché non sono altro che un gruppetto di minute formichine che girano per il prato di Mas di Sabbe.

Più oltre scompaiono, come pure le siepi e i filari di Zoldo. Si vedono solo le linee sottili della strade e del corso dei fiumi, gli appezzamenti spezzettati dall'uomo, l'ordine regolare delle coltivazioni suddivise in rettangoli; posso contemplare le sculture in miniatura dei rilievi montuosi, i colli corrugati e solcati dalle vallate, il marroncino della terra brulla e il verde del vello boscoso; accarezzo con lo sguardo i contorni frastagliati dei laghi, gli agglomerati urbani che diradano verso la periferia e si stringono al centro, addossati a un castello.

Penetro attraverso le nuvole, ne sbuco al di sopra, uno strato uniforme di nembi si distende appena sotto di me come un mare candido e soffice, in alto in lontananza i cirri disegnano filamenti delicati. La mia ascesa è gratificata da sensazioni estatiche, però l'aria è gelida e comincio ad avere paura.

D'improvviso l’inaspettato!

Nel nitore della fredda luce i contorni eterei e fosforescenti del cherubino ribelle:

Lucifero è assiso su un trono di imponenti cumuli di nubi, attorniato da schiere angeliche.

E' una visione terrifica. Vengo raggiunto da correnti ascensionali che agitano fischiando le mie vesti e fanno vibrare la scala. Con lo sguardo, cerco disperatamente sul diadema del cherubino e vi riconosco la preziosissima pietra, brillante come l'Astro del Mattino. Le correnti infuriano, vacillo, mi aggrappo disperato alla scala, stento a mantenere l'equilibrio e cado. Precipito dal cielo a velocità impressionante.

Ahi! Il regno dei sogni non rispetta nessuna logica e purtroppo, nemmeno quella dell'assolvere chi si pente.

In pochi secondi sono prossimo all'impatto con il terreno... a quel punto mi desto di soprassalto in preda alla penosa sensazione di cadere.
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birillino8
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Messaggio da birillino8 »

Un piccolo tavolo, due sedie e la vasca di legno ricoperta di lino. E' quanto hanno lasciato nella vecchia casa i miei familiari dopo aver tolto i pannelli di tessuto dalle pareti, piegato il tavolo a cavalletto, preso gli scanni e i bauli portatili, e traslocato quasi tutto il mobilio nella loro nuova residenza. Però adesso, il vano unico al piano superiore è rimasto solo per noi due e finalmente possiamo goderci un po' di intimità.

Nel rincasare una fredda sera di dicembre, poco prima di Natale, allungo le mani verso il focolare al centro, col viso illuminato dal chiarore del fuoco che da solo rischiara lo stanzone umido. Mi siedo su una sedia dalle gambe a X, tolgo le scarpe a punta perché sono fradice di pioggia e le poso sul pavimento di legno vicino al caminetto. Mi sfilo da una gamba la calza verde e la calza arancio brillante dall'altra.

Alle spalle mia moglie ha finito di lavarsi nella tinozza e si mette addosso una vestaglia argentea, è gravida al nono mese ed il pancione le sollevava graziosamente la veste. Con gesti premurosi prepara sul pavimento i nostri materassi di paglia, chiude le imposte, chiude le finestrelle che danno sul canale e, ancora intirizzita dall'acqua gelata, prende la sedia dal tavolo e viene a sedersi al mio fianco per asciugarsi e riscaldarsi col focolare.

Diana, per delicatezza, non aveva mai osato chiedere delucidazioni sui miei trascorsi con l'Inquisizione benché ne fosse vagamente al corrente e notasse da tempo il mio scarso fervore verso le funzioni religiose, ma nel clima natalizio di quella lunga notte d'inverno ella venne a dialogo con me:

«Tu vai a messa solo per quieto vivere, lo fai per il tuo lavoro, probabilmente ti basta mantenere una facciata di buon cristiano, ma dentro di te prediligi altri modi di pensare, lo intuisco. Il semplice dubbio nella Fede è già di per sé un'eresia, forse hai rifiutato Dio e sei già precipitato nell'inferno, ma io sono tua moglie...

Petrangésio, sei un ragazzo d'oro e non ti denuncerei mai, nemmeno se tu fossi il diavolo in persona, con me non devi temere di parlare, di confidarti».

«Ti parlerò apertamente. In effetti, mi sento estraneo alla Chiesa».

«Riconosco che siamo in tempi di incertezza ma proprio per questo, per vincere le insicurezze insite in ognuno di noi, bisogna affidarsi alla solidarietà della comunità cristiana. La vita è un duello fra il bene e il male, e nonostante tutti i nostri sforzi e le nostre preghiere è estremamente difficile guadagnarsi il Paradiso.

Cosa pensi di poter fare da solo, isolandoti dal gregge del Buon Pastore?»

«Diana, io sono affascinato dalla magia naturale».

«Innovare è peccato. Bisogna appoggiarsi al passato, alle certezze infuse dell’autorità dei Padri della Chiesa».

«La magia naturale non è invenzione di adesso, si basa sull’autorità di antichi filosofi, ti basti per tutti il nome di Aristotele. Ho potuto scoprirne le radici pagane e ho concluso che in sostanza anche la magia delle streghe non è altro che l'essenza dei miti e dei misteri greci applicati alla conoscenza della natura».

«Che? Intendo solo che sei caduto in perdizione, la stregoneria ti ha trascinato lontano da ogni sentimento cristiano, sei vittima di Lucifero».

Per scaricarmi della tensione raccolgo un ferro e stuzzico le braci sollevando un turbine di faville mentre il fumo sale denso per uscire dal buco in cima al tetto:

«Il mito di Apollo ad esempio, la cui essenza è un cammino verso la luce. Quel messaggio non è andato perduto, vive nell'immaginario dei poeti».

«Sono culti sorpassati, soppiantati in pieno dal Vangelo di Cristo, chi crede più in Apollo? Rischi di essere preso per matto» esclama fissandomi ad occhi spalancati.

«Sarò anche matto, di regola i mosaicisti lo sono...

Apollo è quanto vuoi arcaico, sorpassato, però per un certo tempo ebbe in sorte una pacifica convivenza col Cristianesimo. Poi a Roma i primi papi hanno iniziato ad opporsi all’autorità politica dell'Imperatore e così fu che i cristiani ne subirono le persecuzioni. Usciti dalle catacombe da perseguitati sono diventati persecutori, dopo Costantino il messaggio del Cristo si è diffuso grazie ad una cieca violenza, hanno inaugurato una tradizione di evangelizzazione bellicosa e la loro furia si è abbattuta sui templi di Apollo, li hanno distrutti, ne hanno decapitato le statue e negli stessi luoghi ove sorgevano i templi vi hanno costruito delle chiese».

«E' inutile scavare nel passato, ormai è tutto morto e sepolto sotto quelle macerie».

«L'anima pagana di Bisanzio non è morta e così Apollo, oggi attraverso la magia si può giungere alla comprensione di ciò che veramente fu il nucleo dottrinale del suo credo. Un profondo rispetto dei princìpi naturali è alla base del culto apollineo e la magia, il cui compito è dominare il proprio e altrui destino, recupera quelle valenze universali per evitare il pericolo che una conoscenza sempre più approfondita delle cose porti come unico risultato ad una sterile erudizione fine a se stessa, ad un’innumerevole serie di nozioni in cui la visione globale vada smarrita».

«In pratica, come si intende recuperare questa "visione globale"?»

«Chi conosce se stesso, conosce l'universo e le sue leggi».

«E sul piano morale come ci si dovrebbe regolare?»

«Evitare ogni tipo di eccesso, nulla di troppo; la via di mezzo è una buona regola, come diceva lo stesso Federico II».

Diana, sconvolta, si abbandona all'indietro appoggiandosi allo schienale della sedia:

«Tu dunque obbedisci ad Apollo e credi nella sua esistenza. Sei convinto che vaghi ancora per l'Olimpo con la lira in mano».

«Non sono mica scemo - obietto -. Nessuno degli antichi sacerdoti ha creduto si trattasse di un essere in carne ed ossa.

Il dio delle Muse è un potente nucleo di attrazione attorno cui ruotano concetti sublimi e impalpabili come la chiara luce e la Bellezza. Chi ha mai visto la Bellezza in carne ed ossa? Chi l'ha toccata? Eppure non si può negare che esista, è un concetto che vive dentro le cose. Apollo è nel vigore di un volto maschio o nelle gradevoli proporzioni del corpo di un atleta...»

«La bellezza è apparenza. Solamente coloro che sono in odore di santità, cioè i Santi Cattolici, possono ostentare lo splendore di un volto che riluce di un'aura luminosa, poiché in loro la bellezza emana dalla bontà. Tutto il resto è un effimero capriccio.

A me hanno insegnato che la beltà fisica è maligna per definizione, bisogna semmai umiliare il corpo».

«Ma Apollo vive anche nel sole, nei riflessi dorati delle messi, nella scienza del medico o nella corona di lauro del poeta. In ciascun uomo di questa terra ha dimora una piccolissima, minuta parte del dio, ognuno dovrebbe far sì che essa cresca, si esalti e si espanda sempre più come il colore dorato dell'alba riempie a poco a poco l'intero cielo».

«A me sembra l'esaltazione del narcisismo, per non dire pura superbia».

«Vanità delle vanità, tutto è vanità. "Tutto" e quindi nessuna cosa esclusa, lo dice Salomone stesso nella Bibbia. Onestamente non me ne tiro fuori, tanto più che vanità e superbia sono i difettucci del mio segno zodiacale, il Leone».

«Adesso capisco perché i preti della Basilica ti hanno soprannominato il Vanesio».

«Petrangésio... Mago Vanesio» preciso con autoironia.

Ma Diana non ride rimane seria.

La discussione si è fatta un po' accesa e per smorzarne i toni allungo il braccio a stringere dolcemente la mano di mia moglie.

Segue un breve silenzio rotto solo dal tenue crepitare del fuoco, Diana accarezza la mia mano e mi guarda con tenerezza:

«Tu dimentichi l'Amore del prossimo che è la chiave per entrare nel cuore di ogni uomo».

«Il prossimo? Certo, anch'io come tutti amo i miei simili, chiunque mi sia vicino. Del resto l'amore del prossimo non è un comandamento nuovo: lo predicava già Socrate.

Amo l'amico ma il nemico no, purtroppo non ci riesco e mi dispiace. Un pirata? Come potrei amare un pirata che vuole sgozzare all'istante l'intera mia famiglia».

«E' un caso estremo».

«D'accordo Didi. Comunque ogni qualvolta amo intensamente qualcuno, per forza di cose, mi trovo costretto a odiare chiunque gli sia contro».

«Al di fuori dell'amore, che altro c'è che possa cementare i membri della collettività e unire fra loro tutte quelle persone che gli intrighi del destino pongono a confronto?»

«La leva presuppone sempre l'esistenza di un fulcro grazie cui è possibile controbilanciare qualsiasi altro peso, vincerne la resistenza e ottenere l'equilibrio. Così l'Armonia può conciliare se stessi a chiunque altro, si tratta di installare dei propositi che...»

«Parole, parole... che in concreto non si traducono in nulla di buono. In tutto quel che proponi non intravedo il minimo riferimento ad un comune agire che sia costruttivo per le nostre famiglie. Il futuro non si edifica sulle amene nostalgie del passato remoto. Armonia apollinea? L'apostasia ha soltanto un tremendo potere distruttivo sulle nostre usanze consolidate, scalza il centro stesso su cui gravita la Cristianità e il suo veleno porterebbe alla rovina l'intero sistema».

«Ecco tu rifiuti come demoniaca ogni cosa che non rientri nei dogmi della Chiesa. Ma non è mica incompatibile con quanto afferma la Chiesa il voler installare nella propria mente dei semplici propositi di armonia. Benché al di sotto della soglia dell’ufficialità canonica, questa memoria sommersa è anch'essa un qualcosa di costruttivo».

«Cerchi di sedurmi incitandomi all'edonismo, vuoi comunicarmi il desiderio per l'aspetto gradevole del paganesimo, ma non cedo facilmente alla tua presunzione: chi più crede saver manco l'intende.»

«Non è così semplice superare le barriere che mille anni di Cristianesimo hanno innalzato dentro di te. Aiutami a trovare parole che ti aprano la mente».

«Puoi provare con lo sfoderare i miracoli fatti da Apollo, i miracoli Cristo li faceva veramente e anche i Santi».

«No, lasciamo stare i miracoli. Amore mio, ascoltami».

«Ti ascolto».

«Tu mi stai fraintendendo, io non miro affatto a convincerti dall'alto del pulpito: sto solo stuzzicando la tua suscettibilità, voglio cercare nel tuo cuore uno spazio ove poter essere accettato per quello che sono, ove tu accolga con tolleranza uno svitato che la pensa come me».

«Io non sono qui per criticarti severamente, sei libero di pensare come ti pare, il mondo è bello perché è vario.

Sai, solo sento troppo lontane queste cose, sganciate dalla vita comune di tutti i giorni».

«Se accetterai di venire con me a Naxos, all'alba nel tempio di Apollo respirerai l'Armonia del creato insieme al profumo di lauro dell'aria fresca del mattino, allora tutto ciò ti sarà ovvio, come la chiara luce del sole nel cielo limpido e terso».

«Accetto. E non temere, lascerò tutti all'oscuro delle tue confidenze, le terrò sepolte nell'angolino più riposto della mia mente».

Diana copre il fuoco del focolare con un coperchio di terracotta che lascia passare solo l'aria necessaria a tenere vive le braci, nel buio mi prende per mano e mi conduce al nostro giaciglio.


***


Arnaldo come Bernardo, l'uomo di scienza e l'artista, due maestri che mi hanno consegnato lo stesso sublime messaggio ed hanno posto la Pietra magica a fine ultimo delle mie più nobili aspirazioni.

Allo scadere di dicembre, non avendo scordato la promessa di oltre un anno fa, viene a farmi visita alla cupola Arnaldo da Villanova. Indossa il berretto da medico e i lunghi guanti di camoscio, mi abbraccia festante.

Ultimamente il lavoro alla cupola procedeva molto a rilento ma a sprazzi si riaccendeva febbrile grazie all'entusiasmo degli apprendisti che ho istruito di persona nella Corporazione. Sono quasi riuscito a completare i mosaici e, parallelamente, la descrizione in codice di tutte le operazioni della Grande Opera dei Magi Egiziani.

Metto in libertà gli apprendisti e appena siamo soli inizio ad illustrargli la cupola adiacente, quella ultimata da Mastro Apollonio. Puntando il dito in alto, indico Giuseppe che sta per essere calato nel pozzo dai suoi fratelli e poi, nella scena accanto, Giuseppe mentre ne viene estratto per essere venduto ai mercanti di schiavi. Arnaldo concorda con la mia tesi e conferma come in effetti "il pozzo" sia classicamente associato al mercurio magico.

Faccio un paio di passi verso la mia cupola e gli spiego che ho preso spunto da questa fortuita associazione per scegliere il personaggio che doveva incarnare il Mercurio nei mosaici miei. Mi fermo con Arnaldo sotto il mosaico di Giuseppe acquistato in Egitto da Putifarre e gli faccio notare la stella a otto raggi disegnata nello scudo in cui si specchia Giuseppe, un ulteriore espediente per rafforzare la connessione tra il simbolismo del Mercurio e il protagonista del mio romanzo musivo.

Anticipando le mie parole, Arnaldo alza gli occhi al vertice della cupola e ammira un identico astro che domina in posizione assiale. E' la stella polare al centro di un rosone ove le stelle del firmamento traspaiono in fondo all'intreccio di un colonnato.

Mi chiede ove io abbia preso l'idea del rosone di stelle, forse da qualche basilica bizantina?

No, lo persuado che si tratta di una idea mia, sorta mentre ero in procinto di partire per la Romania e dirigendomi al molo guardavo estasiato la volta celeste.

Ad Arnaldo sembra quasi di percepire il vento stellare suscitato dal movimento rotatorio del rosone. Si complimenta con me e mi onora col definirmi un vero artigiano.

Attiro l'attenzione del mio visitatore sulla doppia chiave nelle mani di Giuseppe che supera la soglia. Siamo alla seconda operazione magica, la Sublimatio. Qui Giuseppe evoca la doppia facoltà del Mercurio di "aprire" e "chiudere" le porte del regno dello spirito. Sulla soglia si affaccia una donna vestita di una tunica bianca e di un velo verde: nei panni della moglie del capitano questa donna rappresenta per noi la Prima Materia.

«La Prima Materia, - esclama inebriato il sapiente medico - la materia oscura che permea l'intero universo».

Così giungiamo ad affrontare la chiave di volta della dottrina alchemica: l'apoftégma Solve e Coagula. Nel mosaico a lato ho inteso alludere velatamente al Solve mediante la proposta amorosa della moglie di Putifarre che sussurra a Giuseppe "Dormi mecum" e tende verso di lui le braccia. Giuseppe al suo fianco solleva la mano destra col dito indice e medio uniti, un gesto canonico ispirato ai dettami dei Dattili, i sacerdoti che per primi avevano scoperto la fusione dei metalli. Gesto di unità nelle mie intenzioni, poiché dovrebbe richiamare la mirabile correlazione esistente nella dimensione spirituale: in questa, le distanze non contano e da un capo all'altro dell'universo gli esseri restano perennemente in necessaria e reciproca corrispondenza a motivo della loro comune origine dalla Prima Materia.

Tuttavia, con il Solve siamo solo a meta dell'Opera e guai a chi si ferma qui per attaccamento ai godimenti celesti. Bisogna andare oltre: Solve e Coagula! Dice l'apoftégma. Con la Coagulazione il Mercurio passa dal regno dell'invisibile a quello del visibile e nelle vesti di Giuseppe varca in senso inverso la soglia, richiudendola alle sue spalle. Nei miei mosaici la moglie di Putifarre rivela alle ancelle la presunta colpa di Giuseppe ed esibisce pubblicamente il mantello che gli ha strappato di dosso, ma che significa? Significa appunto "svelare", cioè togliere il velo e rendere visibile ciò che in precedenza non lo era.

Arnaldo coglie lo spunto per lanciarsi in uno sfoggio di erudita sapienza. Secondo lui, prima di venire osservate le cose non hanno una forma fisica definita, rimangono cioè intrinsecamente indefinite fino all'istante in cui non divengano oggetto di percezione. La materia non osservata si trova in una sovrapposizione coerente di tutti gli stati possibili ma non appena il mago decide di intervenire direttamente e la forza in un unico stato, la materia si colassa e coagula. Dalle infinite possibilità di stati del microcosmo egli conduce la materia a convergere in un unico stato, manifesto e visibile nel dominio macroscopico del tempo. Così muovendo dall'ignoto al manifesto, il mago esercita il supremo potere di creare e annichilare, di cristallizzare la configurazione desiderata e poi cancellarla e ancora ripristinarla a suo capriccio.

Entusiasmato dalle sue sottilissime speculazioni, passo con decisione a completare il commento della mia opera:

«Entra in scena la quinta operazione, la Fissatio.

Compare lo Zolfo magico, ossia il Faraone assiso sul trono con le gambe incrociate e con la corona ottagonale sul capo. Chi c'è al suo fianco? Ad impersonare il Mercurio magico non è più Giuseppe ma il servo coppiere che, reintegrato nel suo ufficio, porge al Faraone il vino rosso versato nel calice d'oro. Il coppiere ne solleva con delicatezza il piedistallo per avvicinare la coppa al Faraone che va ad afferrarla saldamente per il manico.

Da notare i due rappresentanti del Secco e dell'Umido, Cioè il pezzo di pane sul tavolo e la bottiglia di vino sul vassoio."

«Mi ricorda un po' i mosaici di Ravenna. Il vassoio d'oro nelle mani di Giustiniano, il grande imperatore bizantino» rammenta dalle sue peregrinazioni.

«Vedi sul tavolo del Faraone un volatile arrostito?» chiedo.

«Allora il cigno arrostito sarà il pasto del Re. Dicono i testi».

«Vedi quella P ricamata sul mantello d'oro del Faraone crinito?» incalzo.

«Sì, la riconciliazione tra il servo e il padrone è dunque la pacificazione degli opposti. Dice testualmente il mago Olimpiodoro: la Realtà coesiste di quiete e movimento, sono cioè gli opposti uniti che danno origine al mondo reale. Trovata la Pietra magica, ora manca solo l'ultima operazione» anticipa il medico.

«Esatto la Trasmutatio et Multiplicatio, ed ecco sotto la scritta "Acrae devoraverut picues" l'immagine delle sette vacche magre che affondando i denti sulla coda delle sette vacche grasse.

Significano la trasmissione della natura aurea ai sette metalli e la loro trasmutazione in oro».


***

La Serenissima è una finta gerontocrazia. Dietro i suoi dogi vegliardi, talvolta ultraottantenni e minati nel fisico, si nasconde l’attività frenetica di una giovane e vitalissima oligarchia tutta protesa a far valere i propri interessi economici. In effetti, il doge ha scarso peso nelle decisioni del Comune e deve anzi difendersi dall'esasperante controllo esercitato sulla sua persona, tanto che al doge non è concesso ricevere regali da parte di nessuno e addirittura non gli è consentito leggere in privato le lettere a lui stesso indirizzate. Tutto ciò è di illustre esempio, mentre in Europa regnano dinastie di tiranni che arrogano alla propria persona un potere indiscutibile ed assoluto.

Il doge precedente, Jacopo Tiepolo, aveva cercato oltre misura di affidare cariche potenti ai suoi quattro figli maschi. Memore di quelle iniziative, il Comune si era messo prontamente all'erta e alla Promissione del nuovo doge aveva imposto al Morosini di giurare, non solo la consueta rinuncia alla successione ereditaria, ma anche la rinuncia ad ogni carica ed ufficio per i suoi figli. Così il Morosini, seppure di ingegno brillante e di eloquio efficacissimo non era riuscito ad imporre i suoi familiari nemmeno nei fatti più marginali. Valga come esempio lo smacco subìto da sua moglie Maria Maddalena nella scelta ove deporre le reliquie di San Giovanni Elemosinaro. A nulla erano valse le sue insistenze, com'era giusto, per la chiesa di San Giovanni di Rialto, gli oppositori l'avevano spuntata e le reliquie erano state trattenute in San Giovanni in Bragora.

Eppure, benché esautorato del reale potere politico, il doge resta il simbolo vivente della Serenissima, l'emblematico rappresentante di un sacerdozio regale, si direbbe nient'altro che una figura retorica, se un forte legame di affetto non lo legasse ad ogni cittadino.

Ai miei occhi il doge ha perso i tratti del giudice austero ed inflessibile che ho conosciuto nella Sala del Tormento, ora è solo un simpatico e tenero vecchietto che dai gesti e dalle parole rivela una venerabile saggezza. Con me è generoso, la mia paga di capomastro è buona e fra non molto mi consentirà di accumulare denaro sufficiente per pagare la cambiale del papiro (per mia fortuna il libraio non è ebreo ma cristiano e come tale la legge non gli consente di chiedermi gli interessi, anche a distanza di tanto tempo).

Il doge Morosini è solito far visita alla cupola mentre noi si lavora, intima di non interrompere le occupazioni e ama stare a guardarci all'opera. Però alla vigilia del nuovo anno, contrariamente alle sue abitudini ordina che sia io ad andare al Palazzo Ducale.

Nella saletta delle udienze, il doge entra indossando corno dogale e mantello lavorati con il medesimo fregio: foglie dalla venatura in rilievo e larghi fiori rosa su un fondo dorato. Il colletto del mantello si chiude stretto al collo ove, sotto il mento, vanno ad allacciarsi i lacci del fazzoletto triangolare che scende dal corno dogale a ricoprire le orecchie. Le rughe sulle fronte sono sollevate e i suoi occhi azzurri sono assenti, il volto ha un'aria affranta al pari di chi si trovi suo malgrado a sostenere un peso più grande delle proprie forze.

Mi saluta con un cenno degli occhi, si siede, ha in mano il mio papiro:

«Come mai i lavori procedono così a rilento?»

Guardo il pavimento passando la mano sui capelli:

«I rigori dell'inverno ne ostacolano i ritmi, ma siamo ormai prossimi alla conclusione, manca solo in cima alla colonna la messa in opera dell'ultimo mosaico, il Faraone che giace sul suo letto immerso nel sonno».

«Ah, il re addormentato: il Sale dei Magi!»

Il Sale? Spalanco gli occhi e rimango a bocca aperta come uno scemo. Il doge ha scoperto l'inganno che pensavo di giocare a lui e agli Inquisitori, gli preme che io concluda alla svelta i mosaici per potermi consegnare a puntino la meritata ricompensa.

Egli recita con enfasi:

«Ciò che viene dalla terra deve tornare alla terra, poiché sta scritto che salendo dalla terra al cielo e ridiscendendo dal cielo in terra si riceve la potenza, la virtù e l'efficacia di ciò che è in alto e di ciò che è in basso.

Vis ejus integra est, si in terram conversa fuerit.»

«Ehm certo, come no... Sua Serenità».

«Tieni, ecco il tuo manoscritto, a questo punto non ci serve più» con un sorriso complice venato di ironia.

Mi congedo con l'aria sconvolta, imbarazzato e confuso.

Il doge ha recitato parole di ovvia natura magica, ha voluto darmi ad intendere che mi ha smascherato, evidentemente ha decifrato il messaggio in codice della cupola e con le sue frasi sibilline ha dimostrato di possederne l'esatta chiave di lettura.

Chissà come l'ha trovata, potrebbe averla ricavata dalle confessioni dei torturati o da qualche libro requisito; forse è colpa mia che non l'ho occultata abbastanza bene, forse è troppo facile da scoprire, ma no! Ecco: è stato Labia a spifferare tutto al Doge. L'aveva detto che possedeva le prove per incastrarmi, sarà stato informato da quel maledetto lupo del Procuratore. Di sicuro adesso la collera del doge si abbatterà su di me da un momento all'altro. L'Inquisizione... il rogo. Ci sono cascato come un pollo. Ora concluderò arrostito la mia carriera di capomastro, me l'aspettavo. L'incubo di quella notte era profetico, è la vendetta della cricca dei ricconi capeggiati da messer Labia, il re dei tramacioni.

Ossessionato dalla paura scendo le scale del Palazzo Ducale, le parole del doge continuano a rintronarmi nelle orecchie:

«Salendo dalla terra al cielo e ridiscendendo dal cielo in terra...» La mia testa è in preda a un turbine di smarrimenti e di emozioni contrastanti, un'invincibile inerzia mi impedisce tuttavia di prendere come una volta la via della fuga.

Aspetterò fatalisticamente il corso degli eventi e comunque sia... mi ghe sboro, finirò la mia cupola e il mosaico del faraone addormentato. Mi rimane una sola timida speranza e cioè, che nonostante la mia colpevolezza, il doge mi sia ancora grato per il ritrovamento del calice Morosini.

Mesto, col manoscritto che pende dalle mani sudaticce e prive di forza, me ne torno a casa.

Indaffarata, Diana sta preparando gli ortaggi per il pranzo, ma non ho certo fame. Mi siedo. Assorto, immerso nei miei pensieri. Fisso la fiamma del focolare. Guardo il vibrare del fuoco e guardo quel rotolo di pergamena consunta.

Questa volta lo brucio davvero! Tanto, anche se ha sfidato i secoli, è solo una raccolta di tinture di cui non m'importa niente.

Allungo il braccio e giocherello con il papiro arrotolato, lo faccio passare veloce ed immune tra le fiamme, poi lo avvicino lentamente al fuoco, il bordo del papiro comincia ad annerire dal calore... ma lo tiro via di scatto un attimo prima che venga avvolto dalla fiammata. Ricomincio da capo. Una fiammella si accende sul bordo e la pergamena comincia a fumare.

Diana se n'è accorta e con un movimento repentino mi strappa il papiro dalle mani e lo sbatte sul tavolo per spegnere la fiammella:

«Sei impazzito, bruciare un papiro con quello che costa! Lo possiamo vendere al mercato».

Diana fa spazio sul tavolo, sposta il cavolfiore che ha cucinato e suddiviso in spicchi, apre il papiro e lo stende con le due mani:

«Che lingua è?»

«Greco» rispondo senza girarmi e senza distogliere lo sguardo dalle fiamme.

«E questo pezzo, è in latino?»

«No Didi, è tutto in greco».

Diana mi porta davanti agli occhi un secondo foglio che era stato inserito entro il rotolo del papiro.

Glielo stappo di mano e leggo il titolo a voce alta:

«Il Mirabile... segreto... Il Mirabile segreto della Trasmutazione!" Il testo che segue è in volgare veneziano. A fianco del testo sono disegnati dei segni magici, riconosco il triangolino dello Zolfo con sotto la croce, il cerchietto del Mercurio dei Magi con sopra le orecchiette e sotto la croce.

Salto in fondo al foglio a leggere il nome dell'autore, leggo:

«Alberto Magno, Padova anno 1223».

Lo richiudo e lo appoggio sulle ginocchia, gli occhi mi scintillano:

«Il doge... il doge Morosini, l'ha inserito lui, l'ha fatto per me, incredibile».

Poi lo leggo con calma, il testo è comprensibile ed il suo significato mi appare chiaro alla luce delle conoscenze magiche che ho accumulato nel tempo. Limpidamente, in pochi essenziali passaggi, vi trovo esposti i princìpi della trasmutazione di un metallo in un altro e alla fine la trasmutazione del piombo in oro.

Voglio provare. La teoria esposta è realistica e possibile. Un ulteriore difficile passo per convertire questi concetti in pratica di laboratorio ed è fatta! Sulla via mi ero consacrato solo alla magia speculativa, ma ora mi sento confuso dall'eccitazione e non so più discernere il confine tra l'oro magico e l'oro materiale, da un certo punto di vista sono la stessa cosa... questa volta il doge potrà aiutarmi, anche lui segretamente ammira la magia ma per ragion di stato e per via dell'Inquisizione, lo tace. Sì, devo continuare a lavorare alla cupola e attendere fiducioso la sua prossima visita, per parlargli.

Ho grandi progetti per la mente, in base ai dettami di Alberto Magno potrò usare il costoso carbon fossile al posto della legna da ardere, ma non basta. La nostra piccola fucina per la soffiatura dell'oro sviluppa un calore insufficiente allo scopo, è indispensabile che il Doge, in segreto, magari di notte quando è proibito lavorare, mi ceda a prestito i potenti forni della zecca di Stato, forni a soffieria con i mantici azionati dall'energia idraulica. Il Morosini lo farà. Lo alletterò con la proposta di trasmutare il piombo in oro per sfornare ogni giorno centinaia di ducati d'oro. Venezia è in ritardo rispetto al genovino e al fiorino d'oro, ma d'ora in poi il metallo nobile delle monete veneziane non sarà più l'argento dei grossi, coglieremo al volo l’opportunità del conio in oro. Se la Trasmutazione ci riesce, per Venezia significherà niente meno che "il ritorno all’età dell'oro".

Ma ecco che il 12 gennaio dell'Anno Domini 1253 alla cupola di Giuseppe arriva un triste carro accompagnato da un drappello di giovani operai. Con mia sorpresa, un sepolcro viene scaricato all'interno e posato su dei piccoli pilastri posti tra le due nicchie della parete.

E' un grande sepolcro in pietra, diviso anteriormente in due rettangoli, nel rettangolo superiore sono scolpiti i dodici apostoli e il Cristo con la mano destra posata sul cuore, nel rettangolo inferiore compare la Vergine fra sei turiboli alternati a santi in atteggiamento di preghiera; sulla cornice, c'è infine una piccola croce al centro fra due uccelli.

Nessuno mi ha avvertito, perciò mi rivolgo a quei ragazzi:

«Soto questa bea cupola, l'ha da eser manco duro anca el sono de'a morte.

Diseme fioi, chi xe?»

Fra gli operai riconosco Rafael, i suoi chiarissimi occhi celesti sono lucidi di commozione:

«El doxe Morosini. El nostro cuor sia l'onoratissima so tomba, e el più puro e el più grande so elogio le nostre lagreme».


***

Come fumo al vento si dilegua il sogno chimerico di Petrangésio, l'artigiano della Basilica d'Oro. Fabbricare l'oro in laboratorio: chimera? Sogno? Realtà? Illusione? Altri raccoglieranno la sfida e per Giove un giorno ci riusciranno, trasmuteranno gli elementi, certo! In laboratorio trasmuteranno gli elementi dal piombo in oro e allora chi oserà più ridere della sua saggia follia?

Su consiglio del Procuratore di S. Marco la morte del doge Morosini verrà comunicata alla popolazione di Venezia solo alla fine del febbraio 1253. L'oligarchia filo-lombarda la terra nascosta alla città col pretesto di non interrompere i profitti del Carnevale, in realtà per portare a compimento indisturbata i propri piani anti-genovesi. Il ricchissimo Silvano Labia userà questo lasso di tempo per manipolare ulteriormente le false notizie che andava diffondendo sui Genovesi e per sfruttare senza scrupoli l'alleanza con la Lega Lombarda ai fini di impedire ogni possibile canale di mediazione da parte Comune di Milano.

Alcuni anni dopo Petrangésio, già papà di due gemelli, cederà al mercato di Rialto il Papyrus di Micca, come pure il manoscritto di Alberto Magno intorno al Mirabile Segreto della Trasmutazione. Un giovane cavaliere di Palma di Maiorca, conoscitore di molte lingue tra cui arabo e greco, li acquisterà per due ducati d'oro.

(Il ducato veneziano contiene 3 grammi e mezzo di oro fino e vale 10 volte un eguale peso d'argento. Vi è raffigurato nel dritto il doge inginocchiato in atto di ricevere le insegne da S. Marco e nel rovescio il Cristo Redentore assiso in piedi tra le stelle, mentre regge con una mano il vangelo e benedice con l'altra).

Due ducati d'oro sono il doppio del debito con il libraio perciò con un ducato Petrangesio salderà la cambiale e con l'altro comprerà un abito di seta, finalmente la seta Jasdi di Persia per sua moglie Diana.

Muoiono i re, muoiono gli imperatori, ma Petrangesio resta testimone dell'inesorabile procedere della storia di Venezia: una Venezia sempre più bella e fiorente.

Chiusa la breve parentesi della reggenza Morosini, il doge successivo sarà Ranieri Zen, ex capitano generale da mar che a suo tempo aveva comandato la flotta alla riconquista di Zara. Sotto di lui Petrangesio, soldato semplice delle truppe veneziane, dovrà suo malgrado partecipare alla crociata indetta dal papa e guidata da Azzo degli Estensi contro Ezzelino.

Ezzelino aveva sposato Selvaggia, la figlia naturale di Federico II, e con l'aiuto dell'Imperatore era riuscito ad estendere i propri domini dall'Oglio fino a Trento, includendo via via le città di Verona Vicenza e Padova nell'obiettivo di creare alle spalle di Venezia una grossa entità regionale. Egli seppe sfruttare abilmente la propria posizione geografica, di fondamentale importanza strategica per l'Impero, e pretese in cambio dell'alleanza il permesso di esercitare un dominio quasi indipendente, nel consapevole tentativo di creare uno stato sopracittadino nella Marca Trevigiana.

Fu precursore o fu tiranno, chi può distinguere tra l'eroe e l'assassino?

Ezzelino non assunse mai cariche ufficiali, rispettò l'esistenza dei podestà cittadini e dei consigli, né si può negare l’efficienza delle sue amministrazioni comunali... ma fu feroce con gli avversari.

Dopo la morte dell'Imperatore, quell'accanito fautore dei ghibellini era rimasto isolato. La sua lunga esistenza al potere iniziava ad essere minata dall'incubo della rivalità mantovana, dalle scorrerie che devastavano le campagne e sorprendevano i castelli, dalle congiure e dalle insidie celate negli intrighi della vita cittadina. I suoi eccessi sanguinari, l'abitudine di reprimere crudelmente ogni opposizione tagliando le mani ai nemici e castrando i figli impuberi delle famiglie avverse, avevano finito per scatenare la rivincita di tutti quei guelfi che finora lo avevano temuto più del diavolo. Tempo addietro le preghiere e le esortazioni di Sant'Antonio da Padova, il saggio eremita che nella foresta aveva resistito alle tentazioni del maligno, non erano state sufficienti a placare la fredda determinazione della sua natura spietata.

Ora, alla resa dei conti, la crociata contro di lui avrà successo, Trento verrà ripresa dal vescovo, Padova gli verrà sottratta nel 1256 e a nulla sarebbe valsa la feroce vendetta di Ezzelino che truciderà 11000 padovani arruolati nel suo stesso esercito. Tre anni dopo Ezzelino fallirà un tentativo di prendere Milano di sorpresa con l'aiuto dei fuoriusciti ghibellini e bloccato sulla via del ritorno verrà definitivamente sconfitto sul ponte di Cassano sull'Adda. Ferito a un piede da una freccia e tradotto in carcere, Ezzelino si lascerà morire rifiutando le cure mediche e la riconciliazione con la Chiesa.

All'inizio della nostra storia si ricorderà il 13 dicembre 1250 e la morte "sub Flore" di Federico II di Svevia, l'Imperatore della Fine dei Tempi. Nell'ora estrema a Castel Fiorentino di Puglia egli aveva nominato suo successore Corrado, ma questi era mancato prematuramente e la reggenza era stata assunta dal figlio illegittimo Manfredi, direttamente eletto dai baroni siciliani. Manfredi era riuscito in un primo momento ad arginare le minacce papali ma nulla poté contro Carlo d'Angiò (fratello del re Luigi di Francia), quando questi decise di invadere il suo regno sotto le esortazioni pontificie. Abbattuto sul campo insieme a molti nobili siciliani Manfredi fu sepolto da scomunicato, senza alcuna cerimonia ecclesiastica.

L'ultima romantica speranza dei ghibellini fedeli alla causa sveva sarà il figlio di Corrado, quel Corradino di Svevia cui Manfredi aveva usurpato la corona. Al crepuscolo dell'Impero, un Corradino ancora sedicenne scenderà in Italia alla testa degli esuli meridionali e toscani, confidando nella ribellione dei baroni siciliani all'invasore francese. In Sicilia la colonia Saracena di Lucera innalzerà il vessillo svevo e perfino il re di Tunisi accorrerà volenteroso in aiuto. La magnifica città di Roma, in mani ghibelline per l'ennesimo tumulto dei suoi turbolenti popolani, tributerà grande giubilo e festeggiamenti all'ultimo degli Hohenstaufen. Onorerà quel supremo potere che alla caduta dell'Impero Romano fu trasferito ai Bizantini, quello stesso che dopo il grande legislatore Giustiniano passò ai Franchi e che fu poi trasmesso da Carlomagno ai Longobardi, da Ludovico ai Sassoni, da Ottone agli Hohenstaufen... quel supremo universale potere che ora pendeva dall'incerto destino di un adolescente.

Nel 1268 ecco i due eserciti si misurano a Tagliacozzo. I ghibellini inizialmente hanno la meglio sulle truppe provenzali e francesi, ma poco dopo l'austero Carlo d'Angiò, in agguato dietro le alture, scende a travolgere il breve sogno della rivincita sveva.

Corradino riesce a sfuggire, ma raggiunta Roma trova ad accoglierlo una città deserta, inospitale e ostile al perdente. Attraversa allora la campagna col batticuore e giunto al mare vola col pensiero alla madre che si affaccia presaga al castello di Hohenschwangau, Corradino tenta di imbarcarsi, ma viene presto raggiunto dai nemici e catturato. Verrà sottoposto a pubblico processo.

Bello e di gentile aspetto, solo... con i suoi sogni troppo grandi, l'aquilotto ha spiccato entusiasta il primo volo ed è rimasto irretito nel florido e fatale paradiso del meridione. Ma appena il giovane Imperatore universale, altero, posa sul ceppo la bionda chioma lancia al cielo il guanto. Qualcuno lo raccoglie. L'Europa risorgerà, unita nell'ideale ghibellino.


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