Dacia Maraini

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birillino8
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[align=center]Poesia.


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Crudeltà all'aria aperta
Milano, Feltrinelli 1968[/align]


Raccolta di poesie

leggi poesie....Kobe
"Chi ama la vita, passa di morte in morte," la
voce mattiniera del monaco amaranto s'insinuava
fra pareti mobili di carta e legno chiaro, in
un campo di concentramento giapponese, tu bianco
io bianca, le risaie congelate, i merli del mattino
saltellanti, "non ti chinare a ghermire il convolvolo,
esso fiorisce solo un'ora," Kobe a sud di Tokio,
fra le acque calme, le serpi grigie, il fragore
dei ranocchi, l'orizzonte intinto d'olio, noi
scivolavamo lungo la scarpata frugando, le mani
attente, fra garze insanguinate, bottiglie vuote,
carte bruciacchiate, interiora d'animali morti,
"il tempo è un blocco di nubi inconsistenti,"
la voce verde opaca, minacciosa ci toccava le
orecchie nude e intirizzite, "il passato e il
presente e il futuro non sono che deboli invenzioni
di menti pragmatiste," il monaco si sollevava sui
talloni, strisciava col petto sulle stuoie, e
il nostro riso? levava gli occhi al soffitto
scolorato, le forti dita intrecciate sulle cosce,
la bocca socchiusa e arcuata, "la fame vi avrà
come la morte," la fronte bronzea, pulita, raggrinzita
le ginocchia aguzze e gelide, "finché non vi
scioglierete dall' inganno dei sensi, voi," dal
ragazzo appena morto le cimici in colonna fuggivano
ordinate, bianco riso d'argento e rape gialle
ingoiate in fretta, lavavi i panni in un mastello
tu sterile mangiatore di topinambur, le mani
gonfie, il corpo rinsecchito, "tutto il male
è illusorio, " egli mormora, "solo le rose della
gioia contemplativa sono immobili e perfette,"
il monaco levigato e leggero ci indicava le forme
buie e simmetriche dei simulacri d'oro da cui esalava
odore di riso fermentato, di pesci secchi, di vino
di canna, era un liquido stupore il mio, e la tua
una oscura timida pena, "è vanità la vita, noi
ombre di neve sulla neve, la voce sottile usata,
le gambe incrociate, il petto vuoto e cartaceo del
monaco digiunatore, chiedevamo ad alta voce del riso
per le nostre bocche raffreddate, il corpo
dell'uomo in preghiera si sollevava sui cuscini
rossi, la faccia estasiata, "ma non sapete rinunciare,
la vita è fango, meditate, " la volontà di ribellarci
era svanita, umiliati e svuotati, della pace aspettando
il suono lento, rivolgevamo al cielo cavo e duro
uno sguardo lento e stolido, senza amore

Il Circolo Chaplin
Il Circolo Chaplin, al Biondo di via Roma
mi accompagnavi qualche volta nel buio
germogliante, a vedere Pudovkin e Renoir
poi te ne andavi, scendevi gli scalini della
Vuccerìa, calpestando l'acqua d'olive e l'orina
c'erano lunghe discussioni se cinema è arte
oppure no, tu mi stringevi il braccio e
l'aria tiepida scorreva sotto i talloni, mangiavo
una pagnotta imbottita di pesce fritto, ma
ansante e fervido lui era già li, parlo
del tuo amico Hans, sedeva accanto a me, nel buio,
i soldati bianchi sparavano sulla folla, c'era una
lunga scalinata e una donna accecata, una nera
carrozzina rotolante, Hans era un amico d'infanzia
quante volte siete andati in barca insieme
mi strisciava il ginocchio sulla coscia
a quell'ora, alle sette, l'odore del mercato
vicinissima, struggente e tribolata la infingarda
città, camminavamo noi tre, il vento palmare
africano ci ungeva di sabbia rossa, percorrevamo
tutta via Roma, fino alle Palme e poi su per
via Amerigo Amari, ti fermavi a guardare i cavalli
di bronzo del Politeama, le zampe prese nel vuoto
le criniere frangia te, ormai verdi, bucherellate
uno studente si alzava, tossiva, impallidiva
cominciava dai fratelli Lumière per esporre,
ma se il cinema non è arte, signori, io dico
le scarpe aguzze, fragili, le guance sudaticce
gli occhi bui, Hans aveva appoggiato una mano
sulla mia mano aperta, i soldati della corazzata
si affollavano attorno ad una coscia di maiale
esangue, vizza, brulicante di vermi, ma
tu non vedevi quello che, Hans era bello, come te
sollevava gli occhi torbidi sullo studente ingenuo
la sua mano pesante, dolce, ma tu dov'eri quando ci,
tu e io e lui passeggiavamo lungo il porto, indicavi
col dito le navi americane, ciondolanti colombe di
ferro e di vernice, il mare amoroso, macchiato di
petrolio, denso infiammato e immoto, a destra il
monte Pellegrino, mostravi a Hans la sagoma
ingombrante, funerea e dietro, là dietro, vedi
la molle poverissima città di Palermo, Hans
guardava il mio collo, io guardavo il tuo ciuffo
biondo e tu, una folla di marinai come pecore
bianche, sorde, brulicanti, fummo sparpagliati
ti ricordi? anche se sei figlia di un amico e ancora
bambina, ma cos'è l'amicizia, io non ci credo, era Hans
potevo contare i pori del suo naso, delicati, umidi
come boccioli, ma tu dov'eri quando, indicavi ancora
col tuo dito corto e piatto una sagoma sul mare
un gabbiano credo che strideva e poi di nuovo
Palermo sciolta e salina, lo scintillio
dei gerani rossi sui balconi, le sue labbra montagnose
di Hans voglio dire, mi succhiarono il viso, lo studente
aveva smesso di parlare, era già tardi, Hans e io
le nostre gambe accostate, tu sparivi giù per le
scale viscide scansando i rifiuti del mercato
olive fradice e foglie di lattuga e baccalà
a brandelli, un persistente odore di cacio e di,
passavi sotto il cuore di Ecce Homo, esposto
e ristorato, i tuoi occhi ciechi e fulgidi
ma dov'eri quando, ti piaceva girovagare laggiù
nel ghetto e poi lungo via Maqueda, piazza
Massimo, prendiamo un altro caffè Hans?
mi mettevi in mano un cannolo gonfio di ricotta
e di canditi, Hans beveva acqua pura, storceva
la bocca ai dolci, non era friulano lui? di madre
tedesca? aveva un odore fra il mento e il collo
di permanganato, adesso un altro studente si era
alzato, bruno, gracile, i mocassini di cuoio
all'inglese, l'impermeabile gettato su una spalla
se arte uguale mimesi e mimesi più catarsi
uguale rappresentazione, cinema dunque uguale
Hans rideva, avevo il polpaccio indolenzito
ma tu dov'eri, sempre a passeggiare e additare
la bellezza un po' malata del barocco siciliano?
il Serpotta, guarda, ma guarda i manierismi del,
la folla di marinai lattescenti, euforici
ci prese turbinando, mescolandosi, vociando, nel porto
palpitava la colomba USA candida, ferrigna, Hans e io
ci accoppiammo a ridosso della porta del bagno
verso l'una, l'odore del suo collo amaro e lo
sfregare della carne sulla carne, ma tu dov'eri quando
Hans e io, la paura fonda, zuccherina ti rendeva sordo
e muto, al circolo Chaplin si discuteva ancora
se cinema è arte, il pesce fritto scricchiolava
sotto i denti, Hans hai fame? Palermo morbida
cariatide di gesso, reggeva sulla testa, le mani
a ombrello, un mondo inarticolato, feroce e libidinoso
tu lasciavi scorrere lo sguardo su quel corpo in parte
già disfatto, sulle sue forme tenere, agghindate a festa e ti,
Hans e io ci accoppiammo una seconda volta sul divano
del soggiorno nel pomeriggio di una domenica gommosa
tu, la faccia asciutta riflessiva, indicavi
i biancori sonnolenti, le rosse cupole, vedi
ecco l'eredità degli arabi, guarda la perfetta
simmetria di quelle forme, gli studenti adesso
battevano le mani, si aprivano le porte del Biondo
su via Roma, ma tu dov' eri e cosa guardavi con i tuoi
occhi acquosi che si posano e scivolano e non vedono
Hans e io, ma la notte era arrivata, calda, ventosa
gettai l'ultimo boccone di pesce fritto e infilai un
braccio sotto il tuo, Hans ti parlava con voce colpevole
ma tu non lo ascoltavi, tu eri già sparito, lontano
dagli inganni e dalle assurde verità umane
su una terrazza limpida e ariosa dove tutto è immobile
e indolore, gli uomini sono forme pure, leggere
regolate da armoniose leggi matematiche

Villa Valguarnera
Tu credevi che la violenza fosse forza
saltellavi a piedi nudi sul pavimento di mattonelle
gialle, tu credevi che, ma è fragile, labile il tuo,
inventavi giochi verbali per nascondere la paura
la tua anima di feltro, mussolina, seta cruda
nell'assolato cortile della coscienza ci siamo guardati
noi due, il caffè amaro indigesto del bar di via
Ruggero Settimo sul palato, tu verrai da Napoli domattina
i bianchi corpi disfatti dei libri sotto il braccio
seduto su uno scalino, le mani in tasca, non ti accorgevi
che era finita la benzina, l'inesperienza covava, ero
già pronta alla scissione, ti porterò via di qui, a Roma
ti chinavi a guardare le melanzane tagliate come fiori
e cucinate come uccelli, abbiamo abitato sul mare
a Santa Flavia e a Bagheria, culla materna, erna
don't be silly, mangia, ti mostravo le gambe tonde
muscolose, la nonna entrava molle fulgente, il cane
bianco in braccio e gli smeraldi al collo, ti prometto
che andremo tu ed io a Roma, le vene sclerotiche della
memoria indurite ostruite, lunghe mucche di sangue
ho imparato su una macchina da scrivere, te lo giuro
le spampinate rose, i gelsomini di villa Valguarnera
mi pare che forse un giorno andremo a Roma, dove la vita
è forma ed è calore, avevi la faccia avara allora e pudica
e docile, ti divertivi con giochi venefici sofistici
adulterati, la nonna spiritualista tu la odiavi, per
la sua dieta al latte, il cagnolino bianco sul lenzuolo
gli smeraldi nelle pieghe della carne, tu spiavi la presenza
ossuta, rossastra della villa fra i carrubi di cuoio e
i limoni d'argento, c'erano dei disegni metafisici in un
cassetto, are you coming tomorrow, orrow? il trionfante contorto
albero genealogico da cui tu sparuto cavallo mongolo
eri escluso, l'avvocato Carnevale, candidato liberale
la nonna in millecento, l'ermellino digestivo sulle
spalle, la grottesca disperazione aristocratica di chi
non saprà mai di sé né dell'unguento che tinge
di nero la punta delle dita, l'avvocato è entrato
ha salutato, con la mano e col petto, cara duchessa
dice, si allunga, smuore, il prezzo è stato stabilito
tu verrai da Napoli domattina, Bagheria è sfiatata
non sai, con i mobili dentro e l'argenteria? chiede
gli smeraldi incappucciati, la villa ora è venduta, pezzo
a pezzo, i marmi, le sedie arricciolate, i quadri antichi
e noi vittime una volta dopo avere tanto, l'avvocato
Carnevale procurava voti alla DC, tu lo sapevi e
fingevi, la Sicilia ti era estranea e i suoi intrighi
ce ne andremo a Roma, dove la vita è libertà di vita
l'orgoglio furibondo e la vile passività spagnola
forestieri per te, li ignoravi, la nonna ha ottenuto
un vitalizio, tu guardavi il mare d'onice pulito
la schiena rivolta contro i morti giardini dissacrati
domattina tu verrai da Napoli e partiremo insieme

Zinnie
all' astrazione, ecco siamo arrivati
moderno padre di biscotto, non dovremmo
mai dimenticare, minuto per minuto che,
non erano zinnie quei fiori alti e ruvidi
i petali di carta, tu fumavi foglie di
ciliegio, era novembre, intorno a noi il
recinto, all'astrazione noi per paura
della verità che è nei ricordi, abbiamo
provato a mangiare anche le ghiande, i
serpenti bolliti, una sera, ti ricordi,
l'incendio della fabbrica e le bombe
di coppale contro il cielo chiaro e
consumato, a testa china sotto un tetto
di rami secchi e terra nera, avevi rubato
una cipolla, cerca di non distrarti,
la fierezza gelida ti incanta i
lineamenti, una cipolla cotta fra le
ceneri, sbarbata, trasparente, tiepida
credo che l'abbiamo divisa in due, una
metà marmorea mi riempiva il palmo
rovesciato, la guerra finirà, dicono
e la vittoria dei tedeschi, noi muti
increduli, le gambe esulcerate, i petti
cavi, noi che lo scorbuto, il vento
portava puzza di bruciato, le finestre
battevano, occhiaie senza bulbo, in una
mistica comunità giapponese, dove le
colline di giada e i sentieri di miglio,
tu non ami ripetere con me il cammino
verso il fondo dell'infanzia, lo so
che sei timido e sbadato, che chiudi
gli occhi al grido delle iene in amore
fra le risaie impellicciate, noi chini sulle
cimici, i dolci pavimenti di rafia
imputridita, se tu, se noi, una volta
liberi dalla vergogna di ricordare
erano zinnie quelle corolle aspre, dai
colori tersi e l'occhio poteva contare
i campi bianchi e gli abeti viola dietro
il filo di ferro attorcigliato, dicono che
gli alleati, in volo su Tokio e Kobe,
i vetri rotti mi caddero sulla schiena,
credevo che il mondo e io fossimo una
cosa sola, lo sfavillio delle zinnie
finì con la fine dell'estate e
nell'oscurità del mio ventre assopito
una volontà d'amore, tu raccoglievi i
funghi velenosi e li bruciavi sui carboni
accesi, dicono che il Giappone è vinto
che gli aerei inglesi e americani, io
continuavo a credere, come il baco nella
sua seta, come il pisello nel suo guscio
che il mondo e io in una lunga solidarietà
amorosa, ma rotti i voti e rotte le scorze
dell'uovo protettore, ero improvvisamente
sola e nuda e vergognosa di me, gli dei
dorati, l'odore dolce e acido degli
escrementi umani, intorno al tempio dove
noi, imprigionati, aspettavamo la fine
della guerra, non so se erano veramente
zinnie quei fiori irti e secchi, il mio
occhio di bambina si spalancava muto e acceso,
senza poter vedere ma pur vedendo
ciò che poi non potrà più non vedere

Non
Credevi di essere te e non badavi
che il tuo essere te era già fatto
un tondo destino sprigionatosi
dai riti e dalle giostre dei tuoi avi
credevi di inventare la tua storia
ma le ampie piazze e i vicoli affollati
del tuo chiuso carattere di uomo
le goffe costruzioni razionali
che coprono edifici medioevali
le macchine, i giardini, le terrazze
i vasti uffici, le calde vetrine,
prefabbricato mondo del tuo ceto,
tu credevi di agire ed eri agito
credevi di parlare e la tua bocca
di marmo cipollino ripeteva
nozioni e fatti e idee ricevute
le ciglia nere e il naso arricciolato
non ti appartengono perché, di te
non sai di non essere mai stato che
una falsa imitazione di te stesso.

Dacia Maraini - da "Crudeltà all'aria aperta"


leggi critica....Avanti!, 27 luglio 1967

Versi e prose di Dacia Maraini

Meglio le poesie
di Walter Pedullà

Più nota come autrice di romanzi, con uno dei quali vinse qualche anno fa un clamoroso Premio Formentor, Dacia Maraini ha sinora espresso il migliore risultato con un volume di poesie, Crudeltà all'aria aperta, edito nel 1966 da Feltrinelli.
In Crudeltà all'aria aperta: una lingua umile, concreta, scabra, metallica, senza aloni simbolistici e senza le sbavature del discorso convenzionale, ossuta e sobria; periodi che si snocciolano con poca o nessuna sintassi, accumulati in apparente disordine per allargarsi in disegno o svolgersi in narrazione, litanie di oggetti, fatti e persone che la necessità o il caso ha accostato; ritmi prosastici che si offrono con completa disponibilità alle cadenze più diverse e imprevedibili e che si impennano in repentini cambi di velocità o in brusche frenate o in rotture; toni che vanno da una scontrosa elegia al furente idillio, dalla mesta ironia al bruciante sarcasmo fino a un'atona, oggettiva osservazione in cui si spegne disperata la frenetica e angosciata vitalità della poetessa: una poesia realistica, laica, prosastica, analitica per raccontare la vicenda frantumata e faticosamente incollata di un personaggio femminile che ha perduto l'unità e che vive una vita, intensa attimo per attimo, ma priva di connettivo: frammenti invero di una vita di brucianti e brevi avventure che non lasciano depositi né avvenire. Da ciò deriva per una fatale analogia una certa mancanza di spessore, di « storia» e di sintesi a questa poesia, costretta così a rifarli -e non di rado con esuberanza e freschezza spregiudicata di temi e di espressioni -con la quantità, la varietà e la singolarità dei materiali dell'esperienza.
Se si può parlare di moderata “schizofrenia” sintattica e ritmica, è anche possibile avanzare l'ipotesi di una duplice e conciliabile “schizofrenia” che condiziona quel personaggio: la prima, psicologica: un trauma infantile? è un sintomo di complicato rapporto col padre? o qualche altra antica frattura che da allora il personaggio tenta di curare o almeno alleviare con accanite ed estroverse distrazioni, freneticamente consumate e crudelmente cancellate per inadeguatezza dinanzi al compito di una riparazione d'altronde impossibile; la seconda, sostanzialmente derivata dalla prima, una “schizofrenia” sociale, che sconfigge e annulla ogni tentativo di colloquio storico, ostinata ma vana velleità di iscrivere il proprio destino in un progetto limitato ma concreto Perciò quel senso di precarietà, d'instabilità e di angoscia contro il quale invano s'infrange il vitalismo sentimentale, anzi ossessivamente sensuale, del personaggio. La spiegazione è stata data più tardi: il personaggio paga soprattutto la mancanza di memoria sociale, quella cioè che dà le motivazioni e le relazioni e i fini di un'esistenza. Proprio come Maria, la protagonista dell'ultimo romanzo della Maraini, A memoria (Bompiani, pp. 223, L. 1500, pref. di Renato Barilli), che rinnova e in un certo senso replica, più che continuare, la vicenda della poetessa di Crudeltà all'aria aperta.
Si potrebbe insistere su fallimento umano del nuovo personaggio: i rapporti meramente intellettuali col marito impotente, le innumerevoli avventure di una insaziabile smania sensuale, l'Ingarbugliato amore di un uomo che, rifiutato da lei, ne sposa la madre, la morte del marito e l'esclusione dall'eredità a causa dei parenti di questi, la totale solitudine finale e tanti altri fatti Che compongono l'intreccio piuttosto romanzesco di A memoria. Ma richiede alcune parole l'insuccesso o meglio il successo episodico della narratrice. La quale, così come la protagonista del suo romanzo non serba memoria e non somma le sue esperienze per acquistare profondità e svolgimento men che arbitrario o in modo analogo indica solo canali esterni fra i tre piani stilistici del romanzo: i dialoghi maniacamente iterati di lei, la descrizione oggettiva della malattia del marito, le lettere del corteggiatore, futuro patrigno; li alterna ma in effetti non consente la moltiplicazione dei significati che è tra i compiti primari di ogni pagina di romanzo. Per ciò anche qui si ritrova la già indicata mancanza di spessore e di sintesi. Ma anche in questo caso con le sue numerose apprezzabili eccezioni.
Su un solo piano l'analogia con queste permette di riguadagnarne i più interessanti ed emozionanti esiti artistici: nei dialoghi che raccontano l’ossessivo e inguaribile sperpero di Vitalità della protagonista. E con quelle pagine la Maraini si fa perdonare le molte altre dignitose velleità del romanzo.

Walter Pedullà
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Donne mie
Torino, Einaudi 1974[/align]

Raccolta di poesie e tre poemetti


leggi poesie.....Maria
Maria non pesta i piedi degli altri
perché Maria è una bionda selvaggia
che venne dall'isola di Sicilia a
compiere il suo dovere maritale.
Maria fa oggi ventisette anni compiuti
e nel suo animo girondoloso c'è molto
vento e molto orgoglio accigliato.
Quando ero nella mia Sicilia ogni
giorno mi lavavo i capelli che ho
bellissimi e poi li stendevo sulla
finestra per essere baciati dal sole
e chi passava diceva: onore alla bellezza!
Ma io cantavo per la gloria mia e
non volevo né maestri né dottori,
volevo sposare Dio in persona per
ricoprire le sue nudità con la mia capigliatura.
Ma anziché Dio venne il diavolo in
forma di tappezziere e voleva che
diventavo tappezziera e cucivo il
feltro e mi bucavo le dita coi suoi
aghi mortali. C'erano delle rose
nei suoi occhi e quando rideva fiorivano
allegramente, ma io non sono traditora,
e l'ho mandato via dicendo: diavolo
scatenato, anche se odori di rosa,
hai l'anima di porco e tu non sei
affatto degno dei miei capelli d'oro.
Mia madre la santa pecorara è morta
come una vipera schiacciata sulla
testa dalla ruota più grande di un
autocarro americano. Mio padre che
è schizzinoso non volle pia mangiare.
Piangeva, ma no con gli occhi, dentro
i pantaloni, diventava magro di dolore
che perfino le galline gli beccavano
sulle scarpe senza rispetto e i vicini
lo adducevano malamente. Finalmente
lavorai nei servizi e mangiavo pane
e fiele per l'orgoglio mio che supplicava.
Potevo servire Dio, non gli usurai di Palermo
nelle loro famiglie ammantate di cannella.
L'orgoglio mio nasceva nei capelli che
a crocchia o a treccia scoppiavano sempre
come stelle filanti e al mercato dicevano:
guarda Maria la fata come si inzeppa
e morirà scannata. Proprio in quei
giorni il mio padrone salì nella
camera per impossessarmi e io non
volendo andò a spiaccicare il seme
suo sui vetri della finestra chiusa
con bestemmie d'amore e di struggimenti.
Il giorno dopo venne su la padrona
e mi disse: spogliati Maria che
voglio confrontare il tuo corpo con
il mio. Mi spogliai per ubbidienza
e perché io pensai che le donne non
hanno malintenzionamento del sesso.
E invece quanno fummo spogliate
la bella orchidea mi toccò il petto
con le mani e mi disse: guarda questo
è miele di Dio, strisciando un dito
lungo la dolcezza del mio ventre.
Pregai il Signore in ginocchio
piangendo e scappai via di casa la
mattina dopo con un sacco bianco
di penitenza pieno di gioielli e
argenteria trafugata: forse fu il
diavolo forse fu il Signore, non
lo seppi allora e non lo so ancora,
mi disse in un orecchio: porta via
ogni bene loro per punizione, Maria per
punizione della loro lubricità. Vissi
di nascosto da una amica a Marsala. vendetti
pezzo a pezzo tutte le mie ricchezze
guadagnate col disprezzo della lussuria.
La sera al tramonto mi lavavo i capelli
e li stendevo al balcone, goccia a goccia
perché tutti dicessero: Maria la bella!
Ma Marsala è lenta e sciocca e nessuno
mi guardava né mi parlava e la mia amica
poi morì di crepacuore per un
cretino dalle gambe corte e il naso
gonfio e mi lasciò per strada senza
amicizia e senza soldi, con tanti dolori.
Fu proprio alla stazione che incontrai
l'Arcangelo Gabriele. Era vestito a
lutto e sopra gli occhi teneva un paio
di lenti affumicate dietro a cui le pupille
erano di fuoco. Aveva pure un bell'anello
d'oro al dito e due scarpe lustre e nuove,
che camminando facevano patatrac. Mi innamorai
di botto e caddi ai suoi piedi e gli bagnai
di lagrime la scarpa specchiante e fredda
e lui forse ebbe pena forse amore, mi disse:
chi sei tu bionda sicilia e dove vuoi partire?
Gli detti subito il mio cuore in donazione
ardente e lui, da gran signore, lo buttò via,
sorridendo graziosamente coi suoi cento denti
d'argento. Ma io glielo lasciai e pronta ero a
seguirlo a quattro zampe per tutta l'Italia
il mio arcangelo Gabriele dalle lenti affumicate.
Ci amammo per una notte di gioia in un
albergo accanto a cortei di principi e di
dragoni, con magnolie sul letto e grappoli
d'uva che gli schiacciavo sulle palpebre.
Il mio arcangelo, il mio regale consorte
era ebbro di noia e io deliravo selvaggia
senza pudore né onore sopra un lenzuolo
di anice, astringendo il suo corpo
inviolato e puro come una statua di
cera indurita dal gelo dei miei baci impauriti.
L'indomani mattina era già finito e
l'arcangelo volò nei suoi candori
e io affacciai i miei capelli attorcigliati
perché respirassero un poco al sole,
ma la pace era finita e adesso dopo la
contentezza veniva la tristezza nera.
Solo quell'arcangelo Iddio mi mandò
per assaporare cos'è il fulgore e
poi dannarmi tutta la vita e ricercarlo.
Venni a Roma dietro invito di una
dama altolocata come serviziante a
domicilio e dormii e mangiai tre anni
smarriti di cui ricordo solo il sapore
del rabarbaro contro la costipazione.
Venne un isolano, un cane rognoso, nero
ispido, robusto. Mi seguiva di giorno,
mi aspettava di notte, per mesi e mesi.
Non vedevo che il suo corpo tozzo e le
sue mani da scimmia aspettarmi pazienti.
Mi piaceva di lui che non parlava; mi
guardava soltanto e faceva parlare gli
occhi di lupo affamato e quelle mani nere
che volevano carezzarmi e poi affogarmi.
Quel silenzio mi fece comprendere che
non era un servo del diavolo e neanche
un impostore. Un siciliano come me, senza
talento ma pieno di orgoglio e vendicativo
che aspettava un cenno di Dio per buttarsi
a mangiare carne d'uomo o per placarsi per
sempre come un pesce morto, tranquillissimo
e puzzolente. Con questo barbaro mi sono
unita nella santità del matrimonio per
ubbidienza al Signore senza amore alcuno.
Mi furono regalati: un frigorifero da venti
litri, un comò francese di legno stagionato,
un televisore a tredici pollici, un servizio
di cristalleria di Standa e un letto a due piazze.
Mi fu dato il benservito e pure la buonuscita,
perché ero stata una donna onesta e fiera
e i signori mi tenevano in palmo di mano,
come una figlia. La bocca mia ringraziava
allietata e vana. Solo i capelli miei
piangevano e si coprivano di ragni
polverosi. L'oro dei miei capelli è morto
con questo matrimonio, in una notte sola
di tormento. Il marito mio non accettò
che io ero stata con un altro e mi cacciò
come un cane dentro la strada piovosa.
Camminai, mi ammalai, fui messa in ospedale
e per un mese feci sogni di giardini d'acqua
dove io galleggiavo serenamente mentre che
i miei capelli si riempivano di scintille
e volavano verso l'amore mio il quale avanzava
a passi di cammello. Era vestito a lutto
e portava gli occhiali scuri; lo vedevo
nell'atto di spezzarmi il cuore con due
dita per poi gettarlo via con noncuranza
assassina. Quando mi svegliai nella fleboclisi
mi trovai accanto quel grugno barbaro
di mio marito l'avaro e ci sputai in
faccia per concepimento di odio giusto.
Ma più io l'odiavo e più lui mi amava
e lavorava mattina e sera e notte per
potermi comprare la carne tenera e il
prosciutto di porco giovane e il burro di latte
e il vino di Barbera. Mi lavava i capelli
in una tinozza con le sue lagrime e poi
li asciugava col suo fiato e finché
tornai a fiorire e ingrossare non mi
tormentò mai un istante. Poi nacque il
figlio nostro che si chiama Salvato
perché fu salvato dalla malvagità del
mondo facendogli una fattura di erbe
gialle e fegato di rana e olio santo
poco dopo che nacque sul ventre nudo
di sua madre da una mammana che per
questo si prese otto mila lire sane.
Il marito mio non è cattivo, quando
trova lavoro fa pure il suo dovere e mi
ama veramente come una moglie ma è scontroso
e quando mi vede ridere mi abbastona.
Io credo che morirò presto perché quando
mi hanno aperto il petto hanno trovato
le mie viscere che buttavano boccioli
allegramente e perciò credo che ho
la vita segnata, forse qualche anno forse
di più. Non mi dispiace di lasciate il
figlio e neanche mio marito. Mi dispiace
per il mondo che è profondo e dà
molto da pensare. Mi addolora di portare
questi miei capelli belli dentro una tomba.
Perciò anzi ho pensato di farmeli tagliare
come un soldato e di venderli, forse anche
una diecina di mila lire ne sarei contenta.
L'unico dubbio è: se poi finisce il mondo
e suonano le trombe fiammanti nella
valle di Gerico, potrò andare incontro
al mio arcangelo Gabriele dagli occhiali
affumicati con i capelli rapati a tavolaccio?

Dacia Maraini - Da "Donne mie"
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birillino8
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Mangiami pure
Torino, Einaudi 1978[/align]


Raccolta di poesie


leggi poesie.......va bene, mangiami pure
va bene, mangiami pure è troppo
lungo il tempo della resurrezione
intanto la gioia invecchia
siamo andati a teatro
mi sono disamorata delle parole
quante volte abbiamo sceso le scale
per raggiungere il palcoscenico-tana
le impennate delle luci il guizzo degli
occhi stanchi, come vuoi strozzami pure
è buio dentro la stanza dei baci
la polizia ha sparato candelotti infuocati
Ci siamo messe a correre
donne dalle gonne lunghe le calze
colorate i denti allegri
non posso più sbucciare patate
la mia lingua è marcita dentro la bocca,
va bene strappami pure le viscere, è velenoso
il fungo che mi dai ogni mattina
per colazione ci vediamo al bar
usa il telefono per chiamarmi
non metter ti le calze corte
rifatti il letto tira su le coperte
mi amerai ancora domani?
le tue mani diventano più lente
più in sicure ora ci sdraiamo
hai già ingoiato il caffelatte
che sa di cloro, la polizia
carica le donne che affollano la piazza
hai mai provato il dolore di una testa
di figlio che ti squarcia l'utero
due mani di gomma che tirano la vita
dal tuo grembo sanguinante?
ci abbracciamo furiose sotto le stelle nude
figlie con figlie il giorno dell'impero americano
ho finito il caffelatte, ti sei addormentato?
sei il mio amante nemico da cui attingo
il succo della sessualità settembrina
sul sedile di plastica abbracciati
le maglie arrotolate contro la schiena nuda
non ho altro che questi occhi per guardare
te e il mondo fuori dal finestrino appannato
andiamo a teatro mi duole il fianco
forse stasera le parole prenderanno fuoco
l'uccello notturno che sguscia dalla giacca
di feltro marrone so già che il vino
diventerà aceto nella tua bocca gelosa,
facciamo un giro tondo di sfida mentre
la gente alla finestra ci urla improperi
stiamo pestando sotto gli zoccoli le teste
delle mamme che ci aspettano spiando
dietro le persiane stiamo pestando i cuori
dei padri che ci prendono sulle ginocchia e
ci cantano la canzone dell'amore eterno
mangiamo pane e salsiccia sotto un
cielo denso e bruno che ci promette
ottocento colpi di manganello va bene
ingoiami pure ti dico grazie addio

ti ho ucciso venti volte
a che pensi le ciglia spiegazzate
il sorriso di creta agli angoli della bocca
togliti le scarpe mettiti a sedere
sul letto domani ci saluteremo
abbiamo fatto un giro sui tetti
allegramente bevendo Pernod
in quelle calde mattinate tropicali
ma perché i sentimenti muoiono
e la carne diventa flaccida
ti ho ucciso venti volte
dentro il letto di notte
senza scalfire i tuoi sogni laboriosi
il tuo russare quieto mi dava pace
ora leggiamo il giornale
c'è un terremoto in Romania
dei deputati si ficcano le
dita negli occhi per una corruzione
che li lega mani e piedi
vecchie volgarità di santi bardati a festa
occhi mafiosi lingue nere serafiche
l'ostia scintilla sopra le giacche a doppiopetto
non hai più tenerezza
ma la tenerezza è delle donne mi dici
la maternità la pace il latte la terra
luoghi comuni che ci portiamo in spalle
come bisacce cariche di buonsenso contadino
prestami sorella i fiori della tua gonna
lasciati toccare i capelli di fuoco
sei così bionda e gioiosa
il corpo delle donne è fatto di sangue di impulsi di ira
non è vero che sa solo cantare tristemente
e fasciare ferite e allattare bambini
sa anche piantare un coltello
fra le costole con mano di ghiaccio
e sputare parole di pietra
e intrecciare le liane dei pensieri
e scavare un buco nella terra del potere
per piantarci una bomba di puro ossigeno
il mio amore ha la bocca piena di parole ragionevoli
mi posa una mano sull' occhio
per fermare il mio sguardo nemico
a che pensi? non ho più fiato nella testa
togliamoci le scarpe stendiamoci
sulle coperte hai un buon odore
di rose secche e capelli lavati
pieghi meticolosamente i pantaloni
sullo schienale della sedia
forse ti ucciderò ancora
una notte vilmente di spalle
ascoltando il ronzio delle vespe
contro il vetro della finestra socchiusa.

ricamare, tu dici
è il mio modo di essere donna
stringere una cipolla cruda
nel palmo della mano
sentire col filo delle dita
l'orlo della tavola
i contorni della stanza
in cui sono chiusa da secoli
ricamo nella quiete della mia testa ariosa
i fili dei pensieri
e ne faccio delle foglie aguzze
dei fiori rotondi
filtro le idee attraverso
la tela di ragno
che mi avvolge il cervello
fino a che punto
la magia della sottomissione
l'incanto del silenzio
mi fanno forte e furiosa
fino a che punto mi fanno debole
ed esposta,
vogliamo ricamare insieme?

è durato poco
è durato così poco
ti ricordi
la tovaglia a fiori rossi
il bicchiere che sapeva d'uovo
l'acquazzone improvviso
i campi arruffati e vetrosi
gli archi di pietra serena
il giornale sulla testa
ingoiavi frutti di mare gonfi di pomodoro
il fango dentro le scarpe di tela
l'odore aspro di menta pestata
il nostro abbracciarci insaziabile
la lite nell'ascensore
la buccia di cocomero sul davanzale
ti ricordi
il fresco delle lenzuola
la finestra aveva una cresta di stelle arancioni
soffrivo di mal di pancia
la tua testa di ragazzo mi pesava sul petto
ti ricordi
è durato così poco
ma dura ancora

corre il cuore
corre il cuore senza amore
brucia la pancia senza fuoco
piangono gli occhi senza lagrime
camminano le scarpe senza piedi
mi lego una bella cintura alla vita
mangio ciliegie stesa su una stuoia
una fila di mattonelle bianche
e le impronte di un gatto
se ti amassi ancora non correrei
se avessi mal di pancia non brucerei
se piangessi non lagrimerei
se camminassi non starei ferma
mangio ciliegie seduta su un gradino
e penso a te che non pensi a me

una testa di medusa
una testa di medusa
il seno mutilato la giacca sulla sedia
una piatto sporco nel lavello
un libro aperto le cinque dita unte di grasso
chiudo gli occhi
immagino di nuotare
la veranda butterata le aiole deserte
l'intoppo è qui in questo piatto sporco
nello scaffale laccato
una fila di bicchieri diseguali
tredici anni di abitudini casalinghe
le vene gonfie di esperienze callose appiccicose
una testa di medusa la giacca sulla sedia
ho mangiato troppi falli di zucchero
ho bevuto troppe gassose di sangue
ho camminato lungo mattonelle spaiate
in quiete giornate di lampadine nude
ho scritto migliaia di parole senza coda
il mio passato di cruda vivanda
è tutto qui in questo piatto fondo
che affoga lentamente nel lavello di ghisa
bianco cielo contro bianco sapone
immagino di nuotare
voglio tornare indietro
verso l'allegria del futuro
la mia faccia è segnata dalle
ombre fonde della memoria
la mia passione si riflette storta
in questo piatto immerso
nei liquidi acrilici inquinati dal vuoto

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Dimenticato di dimenticare
Torino, Einaudi 1982[/align]

Raccolta di poesie

leggi poesie.....Diotima
Diotima è raffreddata, ha un buco nel petto
Diotima ti manda dei dolci di terracotta
di che hai paura la pazzia non è un gioco
uomo pieno di qualità
ma una tetra realtà senza fili
perché vuoi chiuderti in manicomio?
le pistole che hai visto servono
per punire gli uccelli di essere vivi
non ti sveglierò se vuoi non chiederò
al buon dio di mandare la pioggia
non userò la sveglia delle dita
e neanche quella delle parole
ti lascerò camminare sorridente
nel tuo sogno perverso
non voglio che tiri fuori le tue esperienze
dalle vetrine scintillanti
non voglio che ti innamori
di quelle pistole sventate
non voglio che hai paura del telefono
non voglio che ti perdi dentro di me,
tu credi nelle cose eterne
negli amori felici
nell'ordine dei sensi
nelle stelle fisse e quiete
nelle uova lisce delle galline d'oro
nel candore fosforescente della famiglia
nella fedeltà dei cervelli amici
nella luce dei tetti
nella crudeltà perfetta
del patto matrimoniale
ora non dire che impugnerai
le pistole che ti legherai
una corda al collo
che metterai un piede in fallo
che mangerai del veleno color ametista
che ingoierai un coltello
che diventerai un nano di sabbia
non mi dire che niente può essere
che non deve essere uomo pieno di qualità
non mi parlare di fantasmi che
ti saltano sul cuore e di pensieri
morti e di desiderii troppo salati
io non credo all' amore felice
agli orecchini di perle
alle gardenie di zucchero
alla gioia che aspetta nel letto
al miele dei sensi pacificati
al tuo fiato che si innesta nel mio
dentro un gelido anello d'argento
io voglio giocare morire e rinascere
voglio mangiarti le labbra
mandarti via e poi correrti appresso
chiamarti e poi non dirti niente
voglio scavarti nelle orecchie
ingoiarti i pensieri
voglio sedermi sulle tue mani
come una tigre assonnata
non mi chiedere tranquillità
e un piatto di fiori fritti davanti
non mi chiedere di fare un figlio
o di dividere il tuo cuscino
o di mangiare nel tuo cucchiaio
non ti sveglierò se vuoi
non ti porterò via ai fantasmi
voglio che mi ridi in gola
voglio vedere gli occhi turchini
che si squagliano di allegria
dammi la mano non gridare
sputa per terra balla con me

dimenticato di dimenticare
dimenticato di dimenticare
che era buio e lui era morto
il peso dei suoi piedi sulla pancia
non mangiavo più che aria
il cavo delle mani sotto l’acqua
dimenticato di dimenticare
che lui non c’è e sono io che muoio

insulti
e mescolare il sugo e tritare l'aglio
e aggiungere acqua all' acqua
e buttare il sale
e versare la farina
e scodellare l'occhio bullo dell'uovo
nel blu gelato del piatto
e ci insultiamo nervosamente
e il muscolo del braccio muore
e il brodo bolle scintillante di grasso
e la porta del frigorifero è aperta
e quei cerchi di debolezza
che mi bucano le palpebre
e riprendo a tritare carote
e mescolare il riso
e infarinare il pesce
e indorare le patate
e pulire il coltello
e tagliare il pane
con mani molli di fata
e ci insultiamo cocciuti malamente

mangiando pane
languidamente mangiando pane
abbrustolito col pomodoro
e l'aglio mi parli di tua
moglie che «è moralista e
non sa niente di sé», dici e
mi prendi la mano con la mano
mi guardi concentrando
la tenerezza della pupilla
marrone sciolta al vapore
«ma lei lo sa di me»?
ti chiedo e tu affondi
i denti nel pane croccante
e mi accarezzi il braccio
con due dita bagnate
«non potrebbe capire, è gelosa»
e intanto mastichi irrequieto
e poi dici che faremo l'amore
fra poco dietro un cespuglio
se non troviamo un altro posto
il pomodoro ti cola
sul mento e hai le ciglia lunghe
fitte e bellissime e mi lecchi
l'angolo della bocca con la lingua
tonda e scura e mi dici ancora
la voce a tubo tenera «mia moglie
è una bambina devo insegnarle tutto».

una bambina
una bambina
dalla faccia di lupo
quegli occhi malati
quel ventre bianchissimo
quelle labbra feroci
quei seni stretti e bui
quelle lunghe gambe dolenti
quel sorriso che mi innamora
di donna savia, un po' stanca
già prima di cominciare
una bambina
dalla faccia di mongola
le trecce bionde salate
quando le calerai giù dalla torre
perché mi possa arrampicare?
quelle dita di ragno
quelle spallucce cascanti
quelle guance di marmo lucenti
quel furore pigro che cova nelle viscere
io la stringerò a me
prima che scappi
lascerò che mi pianti due denti nel collo
mentre la tenda bianca sbatte sul muro
e il lenzuolo si torce e manda
un profumo di gelsomini schiacciati

un cane e una donna
di un cane e di una donna
che insieme camminavano nel
fondo di pensieri lunatici
e mangiavano pomodori verdi

di un cane e di una donna
che insieme correvano
dentro una macchina celeste
a piedi scalzi lei, lui addormentato

di un cane e di una donna
che andavano scontrosi
scambiandosi occhiate di sospetto
lei si mangiava le unghie
lui guardava nel vuoto

soldatesse
soldatesse della luna
che mangiate barbabietole
e sputate allori
c'è un coniglio che corre
gentile e violetto
fra covoni color sabbia
soldatesse della luna
che sedete svogliate
sui cornicioni dei vulcani
lasciate la notte cadere
non fatevi cucire la bocca

Disse no al marito
si infilò le scarpe da ginnastica
e andò viaggiando per il mondo
una donna di settant'anni
dai grandi occhi viola

se qualcosa
se qualcosa, se qualcosa passa
di questa indigenza amorosa
sono ombre di dubbi frangiati
e una lunghissima notte gelata
figurati che non c'era neppure la stufa
e mi scaldavo con la memoria
della sua tenerezza scabrosa

al mandarino
le floride madri
e quegli occhi gelati
la mia vita per un bacio
ma che sia al mandarino

Dacia Maraini - "Dimenticato di dimenticare"
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birillino8
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Viaggiando con passo di volpe
Milano, Rizzoli 1991[/align]

leggi poesie.....Il pipistrello vola basso
il pipistrello vola basso
si posa senza fiato
su una fontanella asciutta
il platano fa frullare
le sue foglie malate
si copre di gocce gommose
noi tiriamo le corde
di un teatro di erbe
in questa fine estate
dai contorni sfilacciati
un teatro estivo
nella pancia di villa Borghese
fra carte marce e altri prodigi cittadini
un tenace sogno romano
il teatro della verdura
con le sue tele marroni e celesti
il pavimento di terra
percorso da radici gialle
come gomiti incalliti
i nostri pensieri volano
incontro al lume di una ragione squinternata
ma già pronta a farsi carne e parola
sotto il gioco rapinoso dei riflettori,
villa Borghese mette su un'aria languida
verso le sette di sera
in un latte di foglie dormenti
ci raggiunge il grido del leone
da dietro il muro dello zoo
nella voliera gigante
vola furente una aquila prigioniera
noi tiriamo su la tenda
con le sue fasce bordate
per coprire il palcoscenico
dei nostri smodati artifici
una coccinella si posa su un dito
leggera, smaltata, rossa e nera
assomiglia al dorso
di un cucchiaino di Sévres,
scommetto che ci porterà fortuna

Le mie notti
le mie notti
all'arancia amara
erano abitate
da goffe balene bianche
e serpenti volanti,
conoscevo il dondolio
delle tende color latte,
ho piantato un nespolo
nella ciotola del cane morto
ne è venuto fuori un alberello
storto e arrabbiato
che chiamerò estinzione
le mie notti
al gelsomino dolce
come erano salde quelle ali
e liquide quelle memorie
nella lontana isola feroce
dove ogni mattina
mi svegliavo più alta
e più allegra di una spanna
le mie notti alla valeriana
sono diventate buie e sfrontate
e per quanto vada posando
la testa su cuscini piumati
in città rovesciate
dentro stanze sconosciute
non faccio più sogni di balene
le mie notti
al diazepan
mi stanno strette di spalle
come chiamerò quella rondine
che si porta nel becco la mia vita?

Guerra dentro un piatto
guerra dentro un piatto
ma solo per occhi curiosi:
una donna tira per un braccio una bambina morta
una casa va in pezzi
crollano le pareti di biscotto
quante volte abbiamo parlato di guerra
seduti pacifici
da una parte e l'altra della tavola?
salta in aria una macchina
sopra l'insalatiera
un uomo grida fissando il vuoto
di un pantalone insanguinato
una guerra d'oltremare
fluttua sullo schermo gigante
esplode, si disfa, dilania
i nostri pensieri violati,
i fantasmi di dolori altrui
come li chiameremo, mio dio
se non propaggini, secrezioni
di un cuore in festa?
una guerra al di là del pane
si consuma nel tempo di una cena
bruciano i campi
brucia una scuola
brucia un bosco
bruciano le terrazze
di un albergo di lusso
mentre spolpiamo una lisca di pesce
un ragazzo ride trionfante
ha perduto tutti i denti,
una guerra d'oltremare
e noi che curiosiamo, guardinghi
al di là di un vetro perlato
beviamo birra
dentro una sera viola
e ascoltiamo sorpresi
il suono di un motore,
sarà fuori o dentro la guerra?
esploderà l'aereo
o scivolerà fra le nuvole?
una ragazza scappa, a piedi nudi
un bambino piange senza suono
non siamo noi a guardare la guerra
ma è lei che ci spia
al di là del doppio schermo rigato
un'altra granata
un casco che vola
un corpo di soldato
molle e inerte ricade lievemente su se stesso
una guerra d'oltremare
ci casca dolcemente nel piatto
e noi ce la mangiamo con le patate
o è lei che mangia noi
come tanti figli spaiati
guastandoci per sempre
l'esperienza carnale del dolore?

cosa pensa lo specchio sul muro?
cosa pensa lo specchio sul muro?
cosa pensa il libro sullo scaffale?
cosa pensa il piatto sulla mensola?
cosa pensa il mio vestito appeso al sole?
forse lo specchio sogna
che il libro parli e il libro sogna
che il piatto balli e il piatto
sogna che il mio vestito appeso al sole
racconti una storia di piccole seduzioni

la stalla è spalancata
La stalla è spalancata
la mucca dagli occhi a stella
e l’asino dai ricci neri
sono rimasti impalati
a guardare la mangiatoia vuota
in cui corrono allegri i topi

ho in mente un diluvio dolce
ho in mente un diluvio dolce
una leggera caduta di sassi
forse quell’uccello chiaccherino
che ieri mattina si è fermato sul ramo
sotto la mia finestra,
con le scarpe da suora ai piedi
salirò su per i viali ventosi
tanti vestiti appesi
tanti colletti flosci
sotto il lume un uomo legge
seduto con le mani in grembo,
l’insegna dei tabacchi
butta una luce quadrata,
il passo cauto del gatto
lascia dei triangoli bagnati sull’asfalto
aspetto che torni un uomo
che ho amato un milione di anni fa

torre rovesciata: qualcosa cambierà
torre rovesciata: qualcosa cambierà
mi dice e insiste, la luce le taglia
la faccia in due triangoli molli azzurri
non avrai bambini, mi guarda sorniona
tutte quelle stelle morte splendenti
mentre lui suda anima mia e mangia
cioccolata amara sul terrazzino di casa
eppure ne vedo uno che occhieggia
dice e ridice perplessa nel triangolo
pigiando la cicca nel piatto
qui c'è un re morto, forse il bambino
s'è scordato di te, dice e rutta,
la fortuna che hai in bocca si sfalda
nasceranno fiori dalle ortiche,
ride felice ha gli occhi buoni
il neo sul pollice è un buco aperto
il cavaliere cammina cammina e
l'impiccato dondola sotto la luna
e quella regina nera sudicia di unghie
e di capelli, vedo tre soli contro il cielo
segno di ipertrofia sessuale
qualcuno ti tirerà la coda fai attenzione,
è giovane la maga avrà trent'anni
bella fervida minacciosa e intelligente
la regina dice te la troverai faccia a faccia
non la mandare via, prendila per mano
mentre la morte falcia via le ortiche
e trascina i secchi dell'acqua sporca
cominciamo con il passato che è
già futuro e quelle piccole mani
farfalline che scartano, mescolano,
ci sarà un lupo nel suo letto, muto
con gli occhi a mandorla e il muso di pesce
accoglilo con simpatia, l'amore gli arriccerà
i labbri, ci sono lunghe strade
che portano spini e camelie, su quelle strade
troverai un lago e non so, non so proprio
se riuscirai ad attraversarlo, ma ti avverto,
ti bagnerai i piedi, sorride con denti
latticini, le stelle morte volano
correndo per deserti e acquitrini
due serpenti fanno un nodo,
attenzione alle beghe con la legge
qualcuno vorrà farti le scarpe
riposa quella testa vagabonda
il bambino ecco rispunta fuori, dice,
non ha né braccia né gambe
intanto mescola le carte, paziente,
se tirerai su il secchio sarà con fatica,
dice e vi bacerete tu e lui ma non ne morirai
il triangolo azzurrognolo mi sfiora la fronte
e quelle stelle morte che volano
l'impiccato ciondolante al vento della sera
cammina cammina cammina alla fine ti dico
riuscirai ad attraversare il lago
ma ti infradicerai i piedi, la torre capovolta
ti porterà fortuna dice e starnutisce
la morte che porti in petto ti aiuterà a campare

una cometa volante
una cometa volante
nel quadro di una finestra
è entrata da sinistra
è uscita da destra
sul muro è rimasta
una tenda brucicchiata

io sono due
io sono due
è chiaro ora
sono due più uno
meno uno e fanno due
che due volte sono
nata e due volte morta
due volte mi sono persa
forse una volta di più
perché due e una sono tre
le volte che ho sbattuto
e una volta ho anche vomitato
ma erano forse due
dato che sono in quattro
a tirarmi per i piedi
mentre dormo con voce di drago
e una volta sola ho amato
ma saranno duecento le volte
che ho toccato l'allegria
però non duecento volte sono nata
perché al centonovantanove
mi sono stufata ed ecco
al due mi sono scordata
non fosse due sarebbe zero
sono io e l'altra due
prendimi come sono
di una due e di due una

una notte odorosa
una notte odorosa
e le luci sono spente
l’aria quieta vibrante
vieni vieni mio vampiro
saremmo tu e io soli in casa
mi denuderò il collo
chiuderò gli occhi al morso
tratterò l’urlo quando
i denti bucheranno di sbieco
la carne tenera e nuda
vieni vieni mio vampiro
è già quasi mezzanotte
le finestre sono aperte
non ci sono ágli appesi
né crocifissi al muro
né cuori immacolati di Gesù
a far da guardia ai sensi
soli tu e io, io e te
ci guarderemo in faccia
forse un sorriso complice, cortese
in quelle arie stagnanti
porgerò il collo docile
ai tuoi denti amati
vieni vieni mio vampiro
la notte è mite e odorosa

Dacia Maraini - Da "Viaggiando con passo di volpe"


leggi prefazione di Dacia Maraini.....Per cinque anni ho abitato con Marianna Ucrìa. Poi lei se n'è andata. lo che non riesco mai a rileggere i miei libri, l'ho persa di vista. E lei si è allontanata coi suoi scarponcini «alla viennese» che la figlia Giuseppa considerava spregiativamente "fuori moda".
Così ho scoperto che quelle scarpe non erano le mie, quei pensieri neppure. Il fatto è che i personaggi rimangono fedeli a loro stessi. Noi invece cambiamo e c'è nel nostro cambiamento qualcosa di misterioso e crudo che ci fa stare all'erta, mai saziati, mai contenti.
Ora succede che provo ad entrare in altre scarpe, in altri pensieri e ci riesco anche e cammino e vado avanti sebbene ancora non abbia trovato un personaggio come Marianna che mi acchiappi con tanta impudenza per la manica, che si accampi dalle parti del cuore con tanta determinazione.Eppure una voce c'è che si sovrappone ai silenzi dell'attesa e dice delle cose che mi suonano segretamente familiari. Ascoltando questa voce, ne ho ricavato delle piccole concluse geometrie, dei segnali di un pensiero che prende la forma di tanti piccoli agglomerati formicolanti di vita in una mente addormentata e nuda.
Parlo di quegli intrichi di parole che chiamiamo poesie: che si portano dietro una grave leggerezza di nascita, una straripante libertà. Senza legami a lungo termine, senza progetti annosi, senza strutture a tutto tondo.
«Non che la tecnica sia irrilevante per la scrittura poetica. Anzi. Perfino la metrica, ormai in disuso, è necessaria. Per non dire della conoscenza quasi carnale dei poeti antichi e moderni. E certamente sarà anche bene praticare la traduzione che è un buon modo per capire e sperimentare, mimeticamente, le complicazioni del linguaggio.
A volte si ha l'impressione che certi processi linguistici siano come le malattie delle piante: crescite tumultuose che producono sui tronchi meravigliose deformazioni in forma di draghi, di montagne, di crepacci.
La metafora non è in qualche modo una malattia del linguaggio, un ingorgo, un sovrappiù di linfe che si intrecciano secondo una generosa idea di crescenza?
Cosa d'altro posso dire? che queste poesie sono nate così, come brevi coaguli di pensieri in momenti vuoti delle mie piene giornate. Eppure non stanno mai lì per significare altro o per sostituire qualcosa. Non mi è mai successo di mescolare un genere con un altro. Salvo nel caso di Marianna che è un personaggio un poco speciale ed ha avuto la forza di passare da un campo all' altro, dal romanzo al teatro, senza troppi guasti, con la sua buffa sicurezza di sordomuta.
Qualche volta, chinando mi su un lavoro di parole ho l'impressione di una competenza da "maçon": pulire i mattoni, impastare la calce, tirare il filo, prendere le misure, sovrapporre un mattone all'altro. Un lavoro di anni e di molta pazienza.
Mentre nella intensità dionisiaca della scrittura teatrale mi accompagna l'idea dello scavo di un pozzo. Si scende verso il ventre della terra, si lavora nel buio. Qualcosa ne deve sortire che assomigli ad un secchio d'acqua buona da bere.
Invece, nell' avanzare il piede per quel saltarello che è il ballo della poesia compio i gesti precisi e leggeri del piantare una tenda davanti ad un paesaggio aperto, all'ombra di qualche bel pino.Ma perché il viaggio? e perché con "passo di volpe"?
Il viaggio mi è amico. Un amico che conosco da quando ero bambina. A un anno mi sono imbarcata su una nave per il Giappone. A tre anni andavo su e giù fra Sapporo e Kyoto. E poi ho sempre continuato, da un paese all'altro, da una città all'altra, con la cocciutaggine un poco distratta di chi conosce il sapore aspro e inconfondibile del nomadismo.
Ma nomadi lo si è di nascita o lo si diventa? Il nomadismo è una condizione del carattere o un gusto che si acquista con l'esperienza? Di dove sortisce questa attrazione divorante per il moto?C'è chi pensa che si viaggia per scappare da qualcosa, da qualcuno, prima di tutto da se stessi. C'èchi lo considera una resa alle più antiche mitologie dell' estraneità.
Per altri invece il viaggio è la condizione primaria dell'essere umano, il segno di una inquietudine che ci allontana dall' occhio guardingo degli dei. Ma Ulisse è solo un lontano cugino o un fratello o addirittura sono proprio io?
Certo, viaggiando molto si rischia di perdere la stabilità dei legami. Ogni affetto tende ad annacquarsi pericolosamente, a languire. Salvo qualche volta provocare l'effetto contrario, vivificando con la lontananza dei rapporti stantii. Ma sono meteore destinate a spegnersi rapidamente.
Il viaggiatore non ha una vera casa e se ce l'ha, in cuor suo, l 'ha persa molto tempo prima. I sapori del ritorno non sono gli stessi dei cibi che si mangiano ogni giorno e che si riconoscono a occhi chiusi. Le ombre che ritrova chi rientra non hanno la stessa freschezza di quelle in cui si vive avvolti quotidianamente.
Non si sa mai cosa si trova tornando indietro da un viaggio. Siamo veramente gli stessi di prima? Ogni volta un piccolo strappo ci dice che siamo altra cosa da quello che eravamo e ci guardiamo correre battendo le braccia, ma senza volare, come appesantiti da due ali gonfie di piume bagnate.
Il viaggiatore deve disporsi, in ogni momento, a lasciare le cose più care, più sue, per andare a pescare in altre pentole i propri intingoli, respirando l'aria di altre stanze, sprofondando in altri letti, cacciando gli occhi in altre finestre, altri paesaggi, altre nature.
Al viaggiatore può anche succedere di perdere la trebisonda, diventare preda dei venti, farsi cuccia in un aereo e pensare di avere scoperto la molteplicità dell'universo. Può diventare dipendente dal liquore della mobilità e ubriacarsi a morte. Non c'è niente che gli rammenti se stesso in quei giri insensati, niente che lo richiami alle sue orme, ai suoi odori. Egli si scopre crudelmente altro da sé la mattina quando si sveglia in un letto nuovo, sconosciuto. La provvisorietà può renderlo diffidente come un marinaio che ha perduto la bussola e vede nell'oceano un padre punitivo e maligno.
I moralisti dicono che viaggiando si disperde in estensione quello che dovrebbe scendere in profondità. Ma chi l'ha detto che la profondità è verticale? Esiste un andare dentro le cose che si allungano davanti a noi come le misteriose strade di una via lattea.
D'altronde il mondo stesso non viaggia con una velocità vertiginosa? l'universo stesso non corre, non si precipita, non respira, non si espande? fino a dove? fino a quando? Non siamo tutti dentro un respiro cosmico dai ritmi alternati? finiremo proiettati nel nulla o chiusi dentro un pesantissimo blocco, grande quanto il pugno di un bambino, che conterrà in sé tutto l'universo?
Il viaggio essendo una metafora, la più ambigua e seducente delle metafore, ci si dice, può anche nascere dall'immobilità. Non c'è bisogno di portare tanto in giro il nostro corpo vestito e calzato. Fa caldo, ci sono le mosche, le malattie. Basta chiudere gli occhi, seduti su una sedia all' ombra, per partire sulle onde delle immagini. I libri non sono lì per questo?
Ma un viaggio non esclude l'altro, ché anzi lo accompagna golosamente. Così per lo meno succede a me. Non leggo mai così bene come in una camera che non è la mia, fra oggetti che mi appartengono solo per una notte, per qualche ora, senza il pericolo di essere disturbata da una telefonata, da un richiamo, da una visita, da un dovere.
Perciò il piacere è doppio: muoversi col corpo e fare andare il pensiero. Non c'è compensazione, non c'è rincorsa. È la precarietà fragrante di un colore nuovo, una luce sconosciuta che regala quel tanto di attenzione di cui si serve la nostra mente per posarsi paziente sulle lettere da decifrare.
Che ci sia una attesa erotica in questo girovagare per città e paesi non si può negarlo. E non sta tanto nella compagnia di un gentile compagno di sosta. Ma nella prospettiva che alcuni lontani e meravigliosi fantasmi dei nostri sogni più inquieti si facciano carne in luoghi remoti e inaspettati lasciandoci felicemente sorpresi. È quella sorpresa che ci incanta, anche se tarda a comparire e da un viaggio si rimanda ad un altro, sempre aspettando di vederla fare capolino.
Comunque il perché del nomadismo non ha, per me, risposte certe. Mi porto appresso questo interrogativo. Ogni tanto mi fermo con il libro aperto, la penna in mano e mi chiedo: perché sto qui e non a casa? perché ad ogni invito, che sia una conferenza, un incontro, un seminario, io mi rallegro e sono pronta a partire?
Forse che il non avere messo su famiglia è stata una premessa alla dolorosa libertà del viaggiare? Difficile dirlo. C'è stato un momento in cui ho desiderato chiuder mi dentro una casa, tappare le finestre e coccolare un figlio che avesse i miei stessi occhi chiari.
Ci ho provato covando in pancia un bambino che aveva in effetti gli occhi celesti. Me l 'ha confermato il medico che l'ha tirato fuori, morto, dal mio corpo. Non so bene cosa sia stato a ucciderlo. Una placenta messa male o forse un irresistibile desiderio di fuga, una insofferenza del mondo che l'ha portato ad andarsene prima ancora di avere messo le scarpe ai piedi.
Fosse nato e cresciuto, probabilmente mi sarei dovuta fermare. So che avrebbe avuto un bel sorriso, leggermente ironico, screziato, ombroso come quello di mio padre che mi incantava quando ero bambina.
Forse invece lo avrei portato con me in viaggio. Sicuramente. Anche lui sarebbe stato preso dal demone del vagabondaggio, come mio padre prima di me e come sua madre prima di lui. La nonna inglese, Joy Crosse Pawloska, di cui tengo sul tavolo una fotografia in bianco e nero: l'ovale dolcissimo, gli occhi un poco allungati sulle tempie, qualcosa di leggermente orientale, forse per via del suo sangue polacco, le mani piccole, le gambe robuste, da camminatrice.
Ha piantato il marito e due figli per andarsene in viaggio da sola questa mia nonna avventurosa. Erano i primi decenni del secolo. E lei scriveva romanzi e libri di viaggi. Aveva il dono della scrittura, come sua nonna prima di lei, la vecchia Cornelia Berkeley, che aveva preso in mano la penna per difendere il marito scienziato, Adrew Crosse (1784-1855), accusato di non so che eresia.
Mia nonna Joy, come si vede, ha fatto l'opposto di quello che fanno di solito le donne: restare a casa ad acchiappare i figli per le caviglie mentre i mariti partono, viaggiano, sognano, amoreggiano, si risposano, guadagnano, imparano.
Inutile chiedersi se è stato egoismo il suo o sublime coraggio. Se è stata vigliaccheria o felicità d'amore. Certo non viaggiava solo per viaggiare ma per rincorrere un suo innamorato. Che non fu neanche quello che sposò in seguito, in seconde nozze. Essendo poi approdata a Roma, avendo conosciuto mio nonno Antonio e avendo deciso di mettere su casa a Firenze infischiandosene dello scandalo.
Da lì credo che provenga quella tensione sotterranea che ha segnato i miei pochi anni vissuti a Firenze. Un vago sapore di "immoralità" che ancora profumava l'aria di Torre di Sopra, la villa del Poggio quando sono arrivata dal Giappone, prima di partire per Palermo, nei luoghi di mia madre.Nonostante i vialetti ghiaiati, nonostante le statue neoclassiche, nonostante quelle arie quiete da gente assennata, sapevo in fondo al cuore che la nostra era una famiglia "diversa".
D'altronde mio padre e mia madre non avevano rotto con il fascismo, rotto con i parenti, rotto con gli amici, per andarsene raminghi nella lontana isola di Hokkaido, solo dopo un anno di matrimonio?
So di certo che viaggiando mi allontano da me, tanto da perdermi di vista. E questo mi dà pace.Ma nello stesso tempo mi inquieta. Tanto che ho subito bisogno di acchiapparmi per i capelli, di darmi due schiaffi, di inchiodarmi le mani alla macchina da scrivere, per restare, questa volta, restare e affrontare, come mi spetta, le cose, con compiutezza e determinazione.
Ma appena sgrano il rosario delle giornate, mi sembrano improvvisamente tutte uguali e intercambiabili. Il tempo mi si sfalda fra le dita e mi scortica la pelle. So che, restando, finirò senza pelle del tutto, con una suscettibilità ai soffi d'aria che mi raggelerà.
«Girovagare,» scrive Melville «è uno dei miei sistemi per scacciare la tristezza e regolare la circolazione del sangue. Ogniqualvolta mi accorgo che la ruga attorno alla mia bocca si fa più profonda; ogniqualvolta mi sorprendo, senza volerlo, davanti alle agenzie di pompe funebri o dietro i funerali che incontro, e specialmente, ogniqualvolta l'insofferenza mi possiede a tal punto che io devo fare appello ad un saldo principio morale per trattenermi dal discendere in strada e buttare giù metodicamente il cappello di testa ai passanti, giudico che sia venuto il momento di prendere il mare al più presto possibile»...
Una insofferenza insomma, prima di tutto fisica, una urgenza di ciò che è vivo nel nostro corpo, sangue e linfe che reclamano l'allontanamento dal le crudeltà dell'essere noi, qui, ora.
Così riprendo a progettare partenze. Le quali conterranno, nei loro itinerari, la sicurezza del ritorno. E quando quel ritorno arriverà sarà festoso e caro, mi metterà addosso, lo so, una grande voglia di restare. Perché questo è il gioco dell'andare e del venire, che in qualche modo assomiglia alla catena dei giorni con le sue albe e i suoi tramonti.
In quanto al "passo di volpe", per me si tratta di un ritmo, un andamento, uno stile. Niente che rammenti l'astuzia e la ferocia, che pure a volte distinguono le volpi. Quello che mi piace di questa sorella del lupo, è la sua leggerezza silenziosa, il suo curiosare notturno, il suo amore per le ombre e per i boschi.
Da bambina, a Sapporo, una piccola donna indomita che io chiamavo Okachan, mi raccontava di volpi bianche, gentili e trepide che venivano fuori nelle notti di luna per andare a sedersi sull' orlo dei pozzi. Nelle favole giapponesi la volpe non è altro che una donna che ha subito un incantamento, che è stata trasformata in animale per un suo proibito innamoramento o per una sua proibita maternità.
Ecco, per "passo di volpe" intendo proprio questo aggirarsi notturno nei chiarori della luna, fra le ombre di boschi sconosciuti, con zampe leggere, il naso che insegue gli odori, alla ricerca di uve selvatiche e meloncini d'acqua da portare alla tana. Nessuno penserebbe di colpire una volpe che si siede a riposare su un pozzo. Nella sua pelliccia potrebbe nascondersi una piccola figura femminile innamorata del mistero.

Dacia Maraini


leggi critica....Corriere della Sera, 15 novembre 1991

Dacia Maraini: «La mia innata tendenza al nomadismo»
di Antonio Debenedetti

Dacia Maraini abita in una casa con due anime. L'androne dello stabile fa pensare a un interno moraviano. Tipico della Roma post umbertina, espressione d'un agiato gusto borghese: tale androne potrebbe fare da sfondo ti uno dei racconti che si possono leggere raccolti in Boh o in Una cosa è una cosa. Diversa l'impressione che si riceve una volta saliti all'alloggio della scrittrice. A dispetto d'un inconfondibile paesaggio di cupole e di tetti, che si stende antico e solenne oltre le vetrate, nelle stanze di Dacia si sente in qualche modo il meridione. Intanto gli spifferi. Capita di avvertirli proprio come in certe dimore patrizie del sud, dove le finestre non sembrano mai del tutto chiuse.
La doppia anima della casa rispecchia in qualche modo la personalità della scrittrice. Così come si sente Moravia entrando nell'edificio, così alle radici dell'esperienza letteraria di Dacia c'è l'autore degli Indifferenti . Viceversa nelle ultime opere e segnatamente nel fortunato romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa , come nelle poesie adesso raccolte sotto il titolo Viaggiando con passo di volpe , si fa sentire sempre più chiara e forte l'anima meridionale, siciliana della Maraini. Là sua «corda pazza».
La sua vita è stata segnata, nell'ultimo anno e mezzo, da due avvenimenti inattesi: il vasto successo anche internazionale datole dal suo ultimo romanzo e la morte di Alberto Moravia. Cominciamo in allegria Che cosa ha cambiato, per lei, il successo?
«Ho venduto duecentomila copie del mio romanzo. In questi giorni La lunga vita di Marianna Ucrìa è nella lista dei libri più venduti in Germania mentre lo si sta traducendo in altri 12 Paesi, tra cui il Giappone e la Grecia. Il successo, in termini pratici, ha significato un certo agio: con i diritti d'autore, ad esempio, sto comperando una casa a mia madre. Questo stesso successo però, arrivato dopo tanti anni di lavoro, non ha stravolto la mia esistenza. Ho più inviti all'estero, accetto perché amo viaggiare».
La morte di Alberto Moravia, che è stato per molti anni il suo compagno, torna nel libro di poesie appena pubblicato come motivo a volte solo accennato, a volte scoperto di angoscia e di nostalgia. È così?
«La morte di Moravia ha cambiato la mia esistenza perché ha creato un vuoto irrimediabile, come ho scritto nell'ultima poesia che conclude questa raccolta. Più di tutto mi manca la sua voce perché avevamo l'abitudine, da quando non stavamo più insieme, di telefonarci tutte le mattine. Tanto che non di rado ho l'impressione, quando squilla il telefono e alzo la cornetta, che a parlarmi sarà Alberto. A volte, nello svegliarmi, ho questa idea: adesso lo chiamo, faccio il numero. Moravia aveva il dono straordinario di accendere con la sua l'intelligenza altrui».
C'è, insieme con quella per Moravia, un'altra poesia piena di dolore, anzi di strazio in questo libro: riguarda un figlio morto prima di nascere. Posso chiederle di rievocare l'esperienza che sta dietro quei versi?
«È un'esperienza occorsami più di vent'anni fa: aspettavo un bambino. È morto prima di nascere, al settimo mese. È stato molto doloroso per me, contavo su quella maternità. Aggiungerò che avevo trascorso cinque mesi a letto perché c'era la minaccia di un aborto spontaneo».
Cesare Garboli, nell'introduzione, definisce fra l'altro queste sue poesie «flashes discontinui e intermittenti che descrivono un viaggio che si compie oscuramente coerente». Si allude al viaggio della vita? La raccolta adesso pubblicata può considerarsi un'autobiografia in versi?
«Direi meglio che è un diario poetico, che fa generalmente riferimento agli ultimi dieci anni della mia esistenza. Dedico un'attenzione particolare ai viaggi, che sono l'espressione d'una mia innata tendenza al nomadismo». Come, con quali termini illustrerebbe ai lettori il linguaggio vicino alla prosa eppure diverso dalla prosa di queste sue poesie?
«La poesia è un oggetto matematico come è matematica la musica. Ho cercato di rendere ballabili, attraverso il linguaggio, queste piccole operazioni matematiche». Il titolo del suo libro richiama, in qualche modo, quello d'un celebre racconto di Edward Garnett La signora trasformata in volpe .
«Il titolo mi è stato suggerito da una fiaba giapponese ascoltata quando ero bambina e vivevo a Kyoto. Nella tradizione giapponese la volpe non è mai solo un animale: è una donna trasformata in volpe a causa d'un incantesimo».

Antonio Debenedetti

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Insieme, 15 ottobre 1992

Le poesie di Dacia Maraini in «Viaggiando con passo di volpe»
di Saverio Saluzzi

Avevo letto La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini, rapito sempre più da quelle pagine dense di narrazione e vibrazioni e ritenute di pensiero e riflessività. Una lunga storia, quasi una fiaba, in cui la vita vera è metodo sviluppativo dell'espressione dei fatti e dei personaggi, che paiono elevati a comunicazione mitica, a momenti comparativi del fuggente brivido del tempo e delle vicende umane. Splendida l'immediatezza linguistica, sciolta da apparati retorici, adagiata nell'efficacia sentenziosa, svelta nelle clausole del dialogato, intensa nei luoghi meditativi. Essa oscilla di colori nella rappresentazione dei riscontri sociali, nei quali sono significati gli avvenimenti, la sensibilità dei personaggi, la poderosa svolta dei panorami ambientali, ideologici, celebrativi.
Una narrazione coerente per adeguatezze culturali e coscienza penetrativa nelle sedi più segrete dell'animo umano, nella decifrazione dei moti intenzionali, che si riassumono in una avvalorante meccanica espositiva.
Spinto da quelle ottime impressioni ho letto e divorato le poesie di Dacia Maraini in Viaggiando con passo di volpe. Festa di viaggi e di ritorni sulla spuma dei giorni, ma nel brivido della parola che si fa armonia di destini; e con passo di chi si aggira «notturno nei chiarori della luna, fra le ombre dei boschi sconosciuti», come la volpe «che insegue gli odori, alla ricerca di uve selvatiche e meloncini d'acqua da portare alla tana», ci spiega l'Autrice nella sua introduzione.
Non raziocinio, ma riflessività, non la pubblicizzazione retorica e predicatoria, ma l'empito della sapienza delle cose sofferte e vissute e trasmesse come storia di favole, come la favola di ciò che immaginiamo vedendo, di ciò che vediamo fantasticando. Eraclito nel cogliere 'il senso del mistero" affermava che "l'armonia invisibile e più forte che la visibile" come scrive R. Cantarella (La letteratura greca classica, Sansoni/ Accademia, 1968). Così ritengo che la Maraini viva il mistero delle armonie invisibili nei fatti visibili dei giorni e della memoria. Dal romanzo alle poesie v'è un tangibile rapporto di analisi psicologica e organizzazione scrittoria; v'è una riflessività autoritaria che oggettiva gli accidenti occasionali nei tempi di una interpretazione sentimentale; v'è un nesso inscindibile di pronuncia culturale e umana. Quasi la Maraini muova dalla verità delle realtà per denudarla nella espressione musicale dei versi, nella metafora delle immagini, nella politica della interpretazione dei segni. C'è nei testi una dialettica improvvisamente insorgente che intensificala descrizione e lumeggia l'essenziale dei contrasti; c'è una compenetrazione, mai dispersa, mai sfilacciata, dall' oggetto degli affetti al tono della forma che dà il nesso storico e analitico dell'immagine e del mutamento delle cause. I sentimenti della Maraini sono in movimento continuo, come le onde del mare numerose di impulsi e di riflessi. ella va dalle premesse esterne all'anima del suo ambiente umano, nel quale intona le scene e la passione della sua coscienza artistica. Il suo panorama ha ogni giorno qualcosa di indeterminato nella trasmutabilità degli aspetti, nelle splendide preoccupazioni del suo sentimento. Ella si guarda e guarda per esprimere non astuzie letterarie, ma le ore maggiori del proprio travaglio d'amore e di confessioni. La memoria raffina i suoi strumenti d'arte, pensa e pesa più che non appaia. È capace di riportare il ritmo delle tensioni, le antiche gioie le lunghe consuetudini al desiderio. La memoria è un'epoca delle poesie della Maraini; come la solitudine, chiusa nelle svagate probabilità. La solitudine che non lascia residui a rinunce o apatie, a stanchezze o impotenze. Essa urge all'aggressiva conquista della vita; essa apre a legami sempre nuovi; essa sopraffà le offese del tempo e si accenna come ripresa verso nuove ripetizioni e rapporti già carichi di nuove letture e antiche malinconie.
La Prefazione di Cesare Garboli è intensa ed esaustiva. È indicativo della consistenza e sapore dei versi della Maraini quando dice che leggendo "con interesse e curiosità crescenti" il libro, ha peccato di gola «perché le poesie di Dacia Maraini qui raccolte sono dei dolci». E veramente è così, perché i versi si gustano prima di sentirli nella coscienza e nella intelligenza; poi si soppesano in una lenta digestione; poi con essi si vola quando sono diventati parte del nostro organismo.
E dice il Garboli che «in queste poesie, Dacia Maraini allenta la sua presa razionale sul mondo...» e fa parlare «i sogni del vissuto». In ultima analisi, così opera il poeta; questa è la poesia, questa la sua consistenza e la sua funzione. Così cantava nei suoi versi la palermitana Giuseppina Turrisi Colonna: «noi, nel sogno della vita assorti...» La prefazione del Garboli, dunque, fa molto meditare e apre una via all'interpretazione dei segni umani e poetici della scrittrice. Io sento le poesie di Dacia Maraini come un bisbiglio di voci di fresche primavere; l'assomiglio a un prato di mille vegetazioni, in cui ogni pianta ha una scala di note al colloquio col sole o con le ombre. V'è una possanza lirica in congiunzione coordinata nella corsa delle parole, che fanno rapidi i versi nella loro sfida alle immagini e alla fioritura delle luminosità. Il viaggio della scrittrice è accompagnato da una vitalità sempre aperta alle ampiezze non solo dei luoghi e degli eventi, ma delle riesplosioni di contrassegni umorali, di sommovimenti affettivi, di complementari strutture contemplative. L'iterazione che fissa determinate cadenze, picchia un suono multiplo negli accostamenti delle frasi logiche, ma direi meglio nei piani delle indefinibili e stupende immagini. «Basta chiudere gli occhi, seduti su una sedia all'ombra, per partire sulle onde delle immagini. i libri non sono lì per questo?», scrive la poetessa in un passo della sua introduzione.
Veramente, il "viaggio" della scrittrice è un viaggio di giovinezza, cioè di freschezza e di scoppiettii di impressioni e di notazioni introspettive. La sua anima è rapita e corre alla bellezza che esalta il cuore, per servirmi di un'eco baudelairiana; bellezza che sa i colori dello sconforto e della gioia, della malinconia e della speranza. Settantatrè poesie dal 1983 al 1991, che sono come una trepidante profezia dei giorni, come un nascosto mondo di salvezza, come il riassunto di uno spazio vissuto non nella predicazione di fondamentali celebrazioni ma nell'inno che bagna di profumi l'immenso operare dell'uomo nella vita e nel sentimento di essa.
Annota Gesualdo Bufalino nel suo Il Malpensante (Bompiani, 1987): «Scrivere è continuare, inseguire al di là della tenebra quel fanalino fuggente che è l'uomo».

Saverio Saluzzi
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Se amando troppo
Milano, Rizzoli 1998[/align]

Antologia. Raccoglie poesie da tutti i libri di Dacia Maraini ordinate per temi

leggi poesie......una poltroncina di vimini
una poltroncina di vimini
il mare arruffato davanti
eri lì quieto e assorto
gli occhi a mollo nel tempo
che si disfa, che va, che vola
e tu con le tue brusche dolcezze
ricordi i gelati alla menta?
ti aspettavo, dicevi
la mattina alle sette
seduto sulla poltroncina di vimini
nella quiete della soglia
nell'ombra della casa
nel silenzio del sonno
eri già in lite col futuro
e filavi quel filo di attesa
fra le dita di vecchio baobàb
mentre i cieli corrono
sopra il tuo collo di tartaruga
quel futuro da niente
quel futuro spensierato
con le sue arie da gran signore
e i suoi piedi di carta
ti ha portato via
come se niente fosse
con fare di amico fedele
tradendo la mia
la tua fiducia
e il tuo buonumore
le tue impazienze garibaldine
il tuo istinto di vincitore,
hai lasciato un bastone
lo vedo ogni volta che
entro ed esco da casa
il suo pomo di osso
il suo lucido corpo
di legno rossiccio
mi rammentano il tuo
zoppicare festoso
fra bagagli e cuscini
mentre le ciglia ridono
e il mento se ne va
e i piedi battono
sul tamburo delle meraviglie
nella luce azzurrina
di un agosto a Sabaudia
come farò senza i tuoi occhi?
come farò senza la tua voce?
su quella poltroncina di vimini
caro figlio che
mi sei stato padre
nelle tue distanze astrali
ricordi i discorsi in cucina
la mattina alle sette
mentre aspettavamo che l'acqua bollisse?
e quel ridere di noi
e quel fantasticare di montagne
di carta e vapore
con quelle mani e quei piedi
quel baobab e quel tamburo
aspetterò di sentirti suonare

Se amando troppo
se amando troppo
si finisce per non amare affatto
io dico che
l'amore è una amara finzione
quegli occhi a vela
che vanno e vanno su onde di latte
cosa si nasconde mio dio
dietro quelle palpebre azzurre
un pensiero di fuga
un progetto di sfida
una decisione di possesso?
la nave dalle vele nere
gira ora verso occidente
corre su onde di inchiostro
fra ricci di vento
e gabbiani affamati
so già che su quel ponte
lascerò una scarpa, un dente
e buona parte di me

Dacia Maraini - Da "Donne mie"


leggi critica......Il mattino di Padova, La nuova Venezia, La tribuna di Treviso,
24 dicembre 1998

Vita di una donna con il cuore di bambina
di Gabriella Imperatori

Trentadue anni di poesia (1966-1998) sono il contrappunto, quasi un diario minimo, di trenta e più anni di ininterrotto lavoro di narratrice, drammaturga, saggista, giornalista.
A scorrere, nel risvolto di copertina della sua antologia poetica Se amando troppo l'elenco dei libri di Dacia Maraini pubblicati, tradotti, premiati lungo ormai quanto lo erano le liste delle opere moraviane vengono quasi le vertigini al pensiero di quanto ha registrato, narrato, conservato (vissuto) Dacia la formica instancabile, come lei stessa si definisce nell'autoprefazione.
Ma anche Dacia la cicala che canta e sogna e fantastica, ama e viaggia, sempre alla ricerca di «altro» e «altrove».
Nel libro, pieno di ossimori e contrasti, è in un certo senso un ossimoro anche il fatto che il versante più spontaneo – almeno in apparenza – dell'attività letteraria della Maraini, il più abbandonato alla fantasia, alle sensazioni e agli affetti – il più consono insomma alla «Dacia cicala» – sia quello che le ha richiesto lo sforzo maggiore (proprio da formica) di non dissipare, non gettar via i momenti fuggevoli dell'esistere, dopo aver cosparso il suo lungo-brevissimo cammino di pietruzze, come Pollicino, per ritrovare la strada. E di portarsele in groppa fino a costruire una sorta di autobiografia lirica fatta di mille frammenti di vita.
Ma quanto nella prosa la scrittrice appare costruttiva e saldamente ancorata al reale, tanto nella poesia questI frammenti sembrano fatti della stessa materia dei sogni, di colori e Immagini, voci paure e rimpianti.
Ne esce, appunto, Dacia: eterna ragazza (come a sua volta lei chiama la madre) ed eterna viaggiatrice, fragile e forte, vitale e ferita, impaurita e guerriera. Contraddittoria sempre. I soggetti delle poesie, raccolti per nuclei e non in ordine cronologico di composizione, abitano tutti i territori del vivere. Sono il padre e la madre, il bambino perduto e gli amati amanti, il viaggio e l'impegno civile.
Ma spesso sapientemente la Maraini distacca l'emozione e il sentimento con l'ironia, con il gusto del capovolgimento, con i titoli trasgressivi delle varie sezioni: «Risate e fiori fritti», «Sandali di plastica», «Pane e cioccolata», «Falli in fiore»... che mascherano la malinconia e la paura come tutti le mascheriamo inoltrandoci fra la gente: «eppure mangIo e cammino/ e rido e dico a tutti che me la cavo/... e... bevo un tè alla menta/ e vado a tentoni verso la morte».
Oltre ai presentimenti di fine («vita mia che te ne vai/ senza un giro di coda») anche i sogni sembrano esaurirsi, e le notti «all'arancia amara», «al gelsomino dolce», diventano opache notti «al diazepan» .
L'amore non si salva né potrebbe, irto com'è di guerre di coltelli, di pensieri nascosti di fuga, di progetti di sfida, di decisioni dI possesso.
E lei ben sa che sulla nave nera che «corre su onde d'inchiostro/ fra ricci di vento/ e gabbiani affamati» lascerà buona parte di sé.
Eppure continua ad amare anche se non c'è più l'amore corta candela che dura così poco «ma dura ancora»: anche se nel cuore s'è conficcato un granello di ghiaccio, come al bambino Ken nella fiaba di Andersen. E riguarda «foto sorridenti» di giorni desolanti.
A chi s'ispira, a quale bagaglio artistico e culturale, la poesia della Maraini?
Personalmente non amo troppo esercitarmi nel gioco filo.logico della caccia alle citazioni.
Certo qua e là si avvertono echi: di Prévert, di Neruda, di Lorca, e bagliori di Magritte o di Miró. Certo ogni nostra parola è citazione. Ma nella poesia di Dacia Maraini vita e cultura s'intrecciano in un viluppo strettissimo, in versi «liberi» anche se rigorosi, dove a volte prevale il ritmo della ballata o addirittura della filastrocca che lascia sempre posto alla sorpresa, alla sciabolata di un'immagine imprevista: al «lato solitario delle montagne», a quello «oscuro della luna», oppure a oggetti comuni che si animano, ad animali, odori, sapori.
Ecco l'aglio e i pomodoro che si affettano in cucina mentre l'animo piange o protesta, ecco il pane con la cioccolata di un incontro d'amore, ecco i piccoli riti della vita domestica, i passeri e i gatti, e perfino le anguille e i pipistrelli. Non mancano, dicevamo, dure poesie d'impegno civile, come quella sulla guerra vista pigramente in tivù mentre si mangia, o ricordi taglienti di un'infanzia mortificata dalla fame, dal freddo, dallo scorbuto in un campo di concentramento giapponese. O la ferita senza cicatrice che le ha lasciato nel corpo e nell'anima il suo «bambino mai nato».
Ma a Moravia sono dedicate immagini festose di «impazienze garibaldine», di «istinto da vincitore», e quella, toccante, di un bastone nell'ingresso che sembra attendere ancora il suo ritorno.
È razionalmente cosciente, Dacia, dei risvolti oscuri di ogni illusione. Delle menzogne gentili. Dei lunghi squilli a vuoto di un telefono che non vuole rispondere.
E anche dei propri tentativi di salvarsi fuggendo raminga per il mondo («quante paia di scarpe hai consumato/ pellegrina dal naso sbucciato?»).
Ma se non crede all'amore felice, ed è piuttosto convinta della «crudeltà perfetta/ del patto matrimoniale», resta, bambina nell'animo, e dunque poeta, per quel suo ostinato «giocare e morire. e rinascere». E sempre ripartire (per sempre ritornare), riprovando ogni volta qUella felice inquietudine che «ci allontana dall'occhio guardingo degli dei».

Gabriella Imperatori
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