Chimera di Arezzo

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Soleanna1
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Chimera di Arezzo

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La Chimera di Arezzo è uno degli esempi meglio conosciuti di arte etrusca. É conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze

Si tratta di una statua bronzea rinvenuta il 15 novembre 1553 in Toscana durante la costruzione di fortificazioni medicee alla periferia di Arezzo, antica città etrusca e romana. Venne subito reclamata dal granduca di Toscana Cosimo I de' Medici per la sua collezione, che la espose pubblicamente presso il Palazzo Vecchio, nella sala di Leone X. Venne poi trasferita presso il suo studiolo di Palazzo Pitti, in cui, come riportato da Benvenuto Cellini nella sua autobiografia, "il duca ricavava grande piacere nel pulirla personalmente con attrezzi da orafo". Nel 1718 venne poi trasportata nella Galleria degli Uffizi e in seguito fu trasferita nuovamente, insieme all'Idolino e ad altri bronzi classici, presso il Palazzo della Crocetta, dove si trova tutt'ora, nell'odierno Museo archeologico di Firenze. È alta approssimativamente 80 cm e la sua datazione viene fatta risalire ad un periodo compreso tra l'ultimo quarto del IV secolo a.C. e i primi decenni del V secolo a.C. Nella mitologia greca la chimera (il cui nome in greco significa letteralmente capra) era un mostro che sputava fuoco, talvolta alato, con il corpo e la testa di leone, la coda a forma di serpente e con una testa di capra nel mezzo della schiena, che terrorizzava la terra della Lycia. Venne uccisa da Bellerofonte in un epico scontro con l'aiuto del cavallo alato Pegaso. La statua bronzea rinvenuta ad Arezzo rappresenta infatti la Chimera ferita nell'atto di avventarsi sul suo aggressore, con la testa di capra reclinata e morente a causa delle ferite ricevute. Dalle notizie del ritrovamento, presenti nell'Archivio di Arezzo, risulta che questo bronzo venisse identificato inizialmente con un leone poiché la coda, rintracciata in seguito da Giorgio Vasari, non era ancora stata trovata e fu ricomposta solo nel XVIII secolo grazie ad un restauro visibile ancora oggi. Vasari nei suoi Ragionamenti sopra le invenzioni da lui dipinte in Firenze nel palazzo di loro Altezze Serenissime (Firenze 1558, ed Arezzo 1762, pp. 107-8) risponde così ad un interlocutore che gli domanda se si tratta proprio della Chimera di Bellerofonte:

«Signor sì, perché ce n'è il riscontro delle medaglie che ha il Duca mio signore, che vennono da Roma con la testa di capra appiccicata in sul collo di questo leone, il quale come vede V.E., ha anche il ventre di serpente, e abbiamo ritrovato la coda che era rotta fra que' fragmenti di bronzo con tante figurine di metallo che V.E. ha veduto tutte, e le ferite che ella ha addosso, lo dimostrano, e ancora il dolore, che si conosce nella prontezza della testa di questo animale...»


Il restauro alla coda è però un restauro sbagliato: il serpente doveva avventarsi minacciosamente contro Bellerofonte e non mordere un corno della testa della capra. Probabilmente, la Chimera faceva parte di un gruppo con Bellerofonte e Pegaso ma non si può escludere completamente l'ipotesi che si trattasse di un'offerta votiva a sé stante. Quest'ipotesi sembra essere confermata dalla presenza di un'iscrizione sulla branca anteriore destra, in cui vi si legge la scritta TINSCVIL o TINS'VIL, che significa "donata al dio Tin", supremo dio etrusco del giorno (assimilabile allo Zeus greco o al Giove dei Romani). La Chimera faceva parte di un gruppo di bronzi sepolti nell'antichità per poterli preservare. Vennero rinvenuti accidentalmente durante la costruzione delle fortificazioni medicee fuori da Porta San Lorentino, alla periferia della città. Una replica in bronzo si leva oggi presso quel luogo.
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