ALBA
Inviato: mar apr 17, 2018 5:47 am
da CLAUDIOCISCO
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Claudio Cisco
“COME SONO DENTRO”
Messina 2004
INTRODUZIONE
È sempre difficile parlare di qualcuno con cui si hanno rapporti di profonda amicizia, mantenendo il giusto equilibrio.
Claudio Cisco nasce a Messina il 18/10/1964. Ho il piacere di conoscerlo da più di trent’anni, da quando cioè ero suo compagno di classe nelle scuole elementari. Non posso non ricordare con emozione quei periodi mai più ripetibili e in particolare il suo grande e quasi inspiegabile talento nello scrivere, rivelatosi sin dalla tenera età.
Ho ancora davanti agli occhi, come se il tempo non fosse mai trascorso, quel suo viso espressivo e misterioso insieme, meditativo e lontano che nascondeva chissà quali segreti, chissà quali pensieri, pensieri sicuramente molto più grandi di lui, fuori dal comune che nessuno all’infuori di lui poteva comprendere, così diversi e complicati rispetto ai miei e a quelli di tutti gli altri nostri compagnetti. Rivedo ancora nella memoria quei suoi occhi chiari e tristi di bambino, concentrati fissi sul quaderno e la sua mano che, come un automa, muoveva quella penna riempiendo infinite pagine, seguendo la traccia d’un tema, come se non riuscisse a fermarsi. Tutti noi suoi compagni, restavamo ammutoliti a guardarlo senza nulla saper scrivere, chiedendoci da dove riuscisse a tirare fuori tanta ispirazione pur riconoscendogli e ammirandone il suo grande dono di natura.
Continuo a seguire le immagini che il ricordo mi restituisce e rivedo con nostalgia i tempi dell’adolescenza quando ci frequentavamo, così diversi l’uno dall’altro. Lui solitario e introverso, un po’ timido che rideva a malapena d’un sorriso ineffabile e quasi celeste, io, al contrario, chiassoso ed esuberante ma ci rispettavamo sul serio, pur nella diversità dei caratteri, ci dividevamo ogni cosa, il panino in classe lo spezzavamo sempre in due, ci volevamo un bene dell’anima. Anzi, ad esser sincero, io sentivo verso di lui, quasi un complesso di inferiorità consapevole delle sue capacità artistiche ma mi sono guardato bene dal farglielo presente per non metterlo in una situazione d’imbarazzo.
Oggi che siamo diventati adulti, osservandolo, non riesco a staccare la sua immagine di adesso, da quella di quand’era bambino, sembra essere rimasto lo stesso, quasi si rifiutasse di crescere, a dimostrare che la giovinezza, quando la si possiede nell’anima, è eterna.
L’altro giorno, mi propone un suo libro “Come sono dentro”. Rimango, pur conoscendo la sua genialità creativa, stupito ugualmente e totalmente coinvolto dall’energia che emana. Il suo modo di scrivere è fuori da schemi. Le sue liriche danno risalto all’anima, a volte possente e virile, altre dolcissima e perdutamente sola ma sempre viva con un disperato bisogno di comunicare.
La lettura del libro poi mi rapisce totalmente. Colgo senza limiti il significato e la bellezza poetica.
Sono consapevole di essere di fronte ad una espressione artistica che va oltre le punte più avanzate degli scrittori di quest’epoca.
Non so se il lettore sia in grado di recepire tanta sensibilità e forza creativa, credo piuttosto che possa rimanerne sbalordito.
Questo libro raccoglie il meglio delle opere dell’autore dalla fanciullezza ad oggi, come sintesi della sua evoluzione poetica ed umana in genere. Per questo, con vivo interesse, vi invito a prenderlo in considerazione.
Vincenzo Fratantonio
Raccolta di
prose, poesie, pensieri, riflessioni
ALBA
Alba!
tu stai sorgendo,
silenziosa brezza nell’aria,
leggiadre ali intorno.
Alba!
tu stai spargendo il tuo colore
sul mare addormentato.
La tua pace mi sta cambiando.
La mia anima,
svegliandosi,
si sta aprendo all’amore
verso l’infinito.
Io sento che sto per nascere
sì, lo sento, io sto nascendo
COM’ERO. IL MIO STATO D’ANIMO
Inviato: sab apr 21, 2018 10:20 am
da CLAUDIOCISCO
Avevo 19 anni, sì, solo 19 anni, l’età più bella, sentivo dire dagli altri; l’età che tutti desidererebbero avere e magari mantenerla per sempre, a dispetto del tempo. Ma io, io non ero felice. Era come se quella bellissima età non mi appartenesse, o meglio non fosse stata mai mia. Se dovessi giudicarmi per com’ero allora, con gli occhi obiettivi e più maturi di adesso, probabilmente mi verrebbe facile dedurre che ero completamente immaturo, vittimista, strano e aggiungerei anche un po’ folle, anzi del tutto folle, ma d’una follia che rasenta la creatività, una follia sinonimo di stranezza, tipica di quelle anime elette, fragili, eternamente insoddisfatte che identificano nei sogni la loro voglia d’evasione, il desiderio, anzi il bisogno, di protendersi verso l’agognata libertà assoluta, unica àncora di salvezza contro gli abissi del dolore. Continuando a guardarmi con gli occhi di adesso, devo ammettere che oltre ad essere o voler sembrare folle, avevo radicata in me sin dalla nascita, una sorta di tristezza senza guarigione, desolata e abbandonata, senza una motivazione plausibile che la giustificasse. Una strana tristezza che io, un po’ ingenuamente, ritenevo potesse essere prerogativa dei geni incompresi e che contribuiva negativamente a farmi isolare sempre più dai miei coetanei, dai miei genitori, dal mondo che mi circondava e che appariva ai miei occhi tutto sbagliato. Era una tristezza che non trovava assolutamente sbocchi perché alimentata sempre e solo dal mio io, chiusa in un lacerante e ingiustificato pessimismo. Già, devo chiamarlo proprio così “ingiustificato pessimismo” perché in verità non vi era stato proprio nulla di così rilevante da poter giustificare un simile stato d’animo. Nulla la vita mi aveva riservato di così triste e crudele, ad altri, sicuramente, molto di più. Penso, ad esempio, agli handicappati, ai tanti malati che scoprono il dolore giorno dopo giorno nelle corsie degli ospedali, agli emarginati di ogni genere, agli orfani, ai poveri, ai vecchi soli al mondo abbandonati al loro destino, a chiunque insomma possa aver sperimentato realmente tutto il male che io pensavo fosse destinato solo a me e a nessun altro. La cosa che oggi mi sembra più assurda, consisteva nel fatto che io mi ero proprio crogiolato nella mia stessa tristezza, mi ero quasi chiuso in una specie di urna di cristallo dove proteggermi dalle insidie del mondo e da tutto ciò che rappresentava la vita all’esterno e che mi ruotava intorno. Fuggivo dal mondo e, quel che era peggio, da me stesso. La tristezza era per me diventata quasi un alibi, un approdo sicuro, un modo di essere nel quale trovare la mia dimensione più congeniale. Tristezza uguale incomprensione degli altri verso di me, questo era il mio assurdo binomio che serviva solo per alimentare maggiormente la mia solitudine. A dire il vero, ho sempre cercato in quel periodo e in special modo adesso che ho una capacità di analisi migliore, di scavare nella mia infanzia con la speranza di trovare una risposta a quel mio inusuale modo di essere e di rapportarmi agli altri, modo che, sia pure in minuscola parte, mi porto ancora adesso, nonostante i miei 40 anni superati. Ma, nonostante mi sforzi minuziosamente a trovare qualche indizio utile alla causa, qualunque giusta e valida prova, non riesco a riscontrare nulla di realmente importante. Sento dire che ogni essere umano sia il prodotto di un insieme di fattori ereditari che s’intersecano tra loro, di una infinità di condizionamenti ambientali, probabilmente questo è anche vero, ma io non riesco a scorgere proprio nessuno dal quale possa aver ereditato un carattere così particolare. Forse l’esser venuto al mondo dopo ben 16 anni dalla nascita di mia sorella e da una madre non più giovanissima particolarmente attaccata a me e troppo apprensiva nei miei confronti, può forse aver generato nella mia psiche, una certa insicurezza scaturita proprio dal troppo affetto materno. Una iperprotettività che mi ha impedito di crescere, di spiccare il volo verso nuovi orizzonti che apparivano ai miei occhi, sconosciuti e temuti.
Siamo sempre però nel campo delle ipotesi perché io, in realtà, testardo e un po’ narcisista oltre che esibizionista, facevo sempre di testa mia, non prendendo troppo in considerazione i consigli e gli insegnamenti di mia madre, come quelli, del resto, di chiunque altro. Tutto questo però non lo facevo per ribellione o per il semplice e banale gusto di trasgredire, ma perché ritenevo, e ne sono convinto anche adesso, che sia giusto fare ognuno le proprie esperienze, magari sbagliando per poi correggersi da soli senza commettere mai più, possibilmente, gli stessi errori. Solo così si può crescere e maturare, imparando sulla propria pelle, a proprie spese. Ho sempre pensato che nella vita bisogna appoggiarsi soprattutto a se stessi e alle proprie forze perché non esiste nessuno al mondo all’infuori di noi stessi, capace di capirci e volerci bene più di quanto possiamo volercene noi. Non bisogna ovviamente cadere nell’eccesso, ossia cedere all’egoismo, ma dosare il tutto con intelligenza ed equilibrio. Solo chi ama veramente se stesso, può poi trasferire parte di questo amore al prossimo. Questa è un po’ una mia legge, un mio modo di pensare che non pretende assolutamente di essere condiviso o di valere per tutti.
Anche il mio rapporto con la religione e con la fede, era un po’ vacillante in quel periodo, non solido come avrebbe dovuto essere. Sì, credevo in linea teorica all’esistenza di un Dio, anche perché cresciuto in una famiglia di forte ispirazione cattolica.
Conoscevo per averli sentiti nell’aria, anche inconsapevolmente, gli insegnamenti del Vangelo, i dogmi ai quali prestare solenne fedeltà. Ma, al momento estremo del bisogno, più che alla provvidenza divina, mi rivolgevo alle mie stesse forze, alla mia volontà, alla voglia di reagire, di non lasciarmi andare. Tuttavia possedevo dentro, una innata bontà che mi impediva persino di uccidere uno scarafaggio, per non provare poi il rimorso di aver distrutto una vita che, anche se apparentemente insignificante, rappresentava lo stesso una vita e come tale esigeva il massimo rispetto. Incapace di fare del male a chiunque anche verso chi ne faceva a me, non porgevo l’altra guancia, ma non reagivo, allontanandomi da lui senza meditare vendette o provare rancore di nessun tipo. Avevo pochi amici a causa del mio carattere schivo e solitario ma non ho mai avuto nemici. Mi facevo voler bene ed ero sempre pronto ad ascoltare chiunque senza pregiudizi di nessun tipo. Non riuscivo proprio a dar dispiaceri a nessuno se non a me stesso. Non trovavo giusto fare agli altri quello che non avrei voluto fosse fatto a me. Il mio era un ragionamento logico, elementare, non scaturito o influenzato dall’insegnamento cristiano, anche se poi, in pratica, coincideva perfettamente. La cosa più curiosa di allora, consisteva nel fatto di essere arrivato addirittura a mitizzare la sofferenza e, di conseguenza, anche la mia tristezza.
Pensavo fosse quasi un dono divino che sarebbe servito all’uomo, ma non per redimerlo scontando i peccati terreni in prospettiva d’una redenzione futura, ma bensì per esternare la propria sensibilità artistica. Già, avevo creato un altro assurdo binomio che consideravo allora inscindibile e che tuttora sono convinto che possa esistere, sofferenza uguale arte. Soltanto soffrendo, pensavo, è possibile diventare sensibili e di conseguenza artisti. Più si soffre e maggiormente si matura, si alimenta l’ispirazione artistica.
Non è un caso che le mie poesie più belle, o almeno quelle alle quali sono più legato, le più vere, le più sincere siano nate da una sorgente che esprimeva la tristezza d’un momento. Non so perché, ma ancor oggi, non riesco a scrivere nulla nell’istante in cui sento di essere felice o sereno per meglio dire, perché “felicità” è una parola troppo grande. Un artista, in genere, compone quando sente dentro il bisogno di comunicare qualcosa agli altri, una propria intima emozione, che è tanto più forte ed intensa, quanto più ombra ha nel cuore. Un uomo cerca l’acqua solo quando ha tanta sete. Non so perché ma è così.
Confesso però che mi sarebbe piaciuto e che mi piacerebbe ancora, poter scrivere in un momento di gioia, proprio per sentirmi altruista e aiutare così il mio prossimo, trasferendogli tramite l’arte, un po’ della mia letizia. Purché lo voglia chiunque, non solo artista, nella vita di tutti i giorni, può regalare un sorriso a chi ne ha veramente bisogno che, per quanto piccolo possa sembrare agli occhi di chi lo offre, è sempre meravigliosamente grande e importante per chi lo riceve.
Ritornando a guardarmi all’età di 19 anni, continuo a non capire ancora il motivo per il quale preferissi la solitudine dei cimiteri, alle compagnie e ai divertimenti giovani.
Non mi rendo conto del perché di tutte le fobie d’allora, delle mie ansie implacabili, delle mie paure ossessive, della mia in un certo senso depressione, tutti problemi che, fortunatamente, ho risolto in età adulta tranne qualche minuscolo residuo facilmente domabile, ma che allora, sembravano per me inguaribili, autentici drammi. È strano però il fatto che io, cantore follemente innamorato della bellezza dell’adolescenza e più in generale della giovinezza, debba trovare un po’ di equilibrio e di serenità, soltanto oggi che ho 40 anni, trovo tutto questo così paradossale e non mi oriento più. Se solo avessi avuto, in quel periodo, lo stesso coraggio che ho adesso di prendere di petto tutti i miei problemi, di affrontarli con coraggio, faccia a faccia, senza partire battuto ma con la consapevolezza di poterli vincere, di poter dire loro: “Non mi fate più paura, io sono più forte di voi!”
Se solo avessi avuto allora l’intelligenza, la maturità, la saggezza che mi ritrovo oggi e soprattutto la forza di credere nella mia volontà, tutto sarebbe stato diverso e forse non avrei avuto nemmeno l’ispirazione per scrivere la storia che sto per raccontarvi. Ma, nella vita, nulla accade per caso, anche se in apparenza può sembrare senza spiegazione. Sarei stato un ragazzo praticamente normale come tanti altri, anche se, in ogni caso, la normalità è sempre relativa e riduttiva se per normalità si vuole intendere massificazione, fare cioè quello che tutti fanno, che gli altri vorrebbero che tu facessi. Bisognerebbe sempre, in tutti i modi possibili, battersi per difendere il proprio modo di esprimersi e di essere, senza assurde e incomprensibili maschere imposte da una società troppo spesso stereotipata e insensibile alle esigenze del singolo. E pensare che ogni essere umano è un esperimento di vita, unico e irripetibile e che ha quindi tutto il diritto di essere uno spirito libero, al di fuori di schemi preconfezionati, tradizioni o condizionamenti di nessun tipo, felice di manifestare la propria identità che si diversifica da quella degli altri ma, allo stesso tempo, si integra con l’altrui libertà, rendendo la vita ancora più bella perché varia, tollerante, colorata. Uno strano ragazzo, sicuramente, molto particolare, fuori dal comune, ero io. Magro, con i capelli lunghi, vestito in maniera trasandata, senza seguire nessuna moda in voga in quel periodo. Un look schizofrenico, nel senso di liberissimo, contraddittorio, fuori da ogni regola o criterio di abbigliamento, senza il minimo abbinamento di colori che potesse dare un certo gusto estetico all’occhio. Alternavo assurdi pantaloni a quadretti tipici da clown, a strane e lunghe giacche rosa. A volte vestivo completamente di nero con dei spettrali occhiali scuri, accentuando così la mia magrezza che era per me una specie di complesso, a tal punto da impedirmi di mettermi in costume da bagno pur adorando il mare. Portavo sempre dei fazzoletti intorno al collo, di vario colore che mi procuravano, e ne ero molto orgoglioso, un’aria misteriosa e un po’ tenebrosa ma, al tempo stesso, potevo dare l’impressione di un bambino diventato adolescente troppo in fretta che suscitava immediata tenerezza e un istinto quasi materno di protezione. Non ero certamente brutto, anzi tutt’altro. Ero forse simpatico e persino carino ma non facevo nulla per evidenziare queste mie qualità, anzi, facevo del tutto per tenerle nascoste. Il colore chiaro dei miei occhi, ad esempio, che spiccava con la mia carnagione abbronzata e col castano dei miei capelli, veniva quasi sempre nascosto da occhiali scuri, come già detto, e il vestiario poteva sembrare più da zingaro anziché quello di un ragazzo che vuol farsi ammirare in armonia con la propria giovane età. Facevo insomma, forse in parte anche involontariamente, di tutto per sembrare più inguardabile di quanto in realtà non lo fossi, presentandomi agli altri come mai e poi mai avrei dovuto apparire. La dolcezza quasi infantile del mio viso, i miei lineamenti oserei dire quasi efebici, erano continuamente mortificati e messi in discussione da un’espressione che io, ad arte, facevo diventare da duro oppure di chi sembrava perso nel vuoto che contrastava nettamente con la mia disarmante sensibilità e soprattutto con l’età che dimostravo. Avevo infatti la grande fortuna che ho anche adesso, di sembrare un paio d’anni più piccolo rispetto alla mia vera età. Potevo dimostrare sì e no 14 o al massimo 15 anni. Guardandomi per ore allo specchio, a volte mi piacevo, altre invece mi detestavo trovandomi tutti i difetti possibili, fino al punto di rompere gli specchi. Era innata in me una certa timidezza che ancora un po’ conservo e che si manifestava nella mia quasi impossibilità di fissare a lungo negli occhi qualunque interlocutore, specie se si trattasse di una ragazza. I miei occhi un po’ impauriti, spesso si abbassavano di colpo, come per cercare un nascondiglio nel quale potersi rifugiare. Già, le ragazze. Con loro il mio è stato sempre un rapporto particolare. Anche in questo campo, il mio grande amore per il sogno veniva a galla. trasformando la realtà in immaginazione. Vivevo infatti amori immaginari e platonici. Le ragazze che solo io sapevo di amare, esistevano davvero, se non altro, e non come la protagonista defunta di questo libro, ma non sapevano mai nulla del mio segreto amore nei loro confronti. Io, fra l’altro, sia per timidezza, sia per la paura di guastare il sogno, non avrei mai avuto il coraggio di confessarlo. Questo mio infantile e patologico modo di concepire l’amore, in piccola parte mi è rimasto ancora oggi nella mia personalità di adulto. Infatti forse ora non cerco una ragazza o una donna specifica in quanto tale, ma amo l’idea dell’amore, della compagna che non si trova, che non esiste, quasi sublimata in angelo, segno d’una chiara mancanza di predisposizione e di adattamento alla vita reale. Sensibilissimo com’ero, lo sono ancora adesso, consapevole di essere diverso dai miei coetanei ma mai reputandomi superiore a loro, cercavo di attirare la mia attenzione presso le ragazze, adottando un comportamento inusuale, a dir poco strano se non folle, ma ottenevo sempre inevitabilmente l’effetto contrario e diventavo ridicolo ai loro occhi. Non avevo la maturità e la furbizia necessarie per capire che, per avere successo con l’altro sesso, per essere apprezzati, bisogna semplicemente essere se stessi. Andava a finire così che mi sentissi sempre più solo, giudicando tutte le ragazze, nessuna esclusa, vuote, superficiali e materialiste, prede di facili ideologie alla moda e incapaci di comprendere la mia interiorità. Non capivo che l’unico che non funzionava in quel contesto, ero proprio io, io e soltanto io. Ricordo che spesso dedicavo loro poesie, già le poesie. La mia passione per lo scrivere ha radici lontanissime nel tempo, risale agli albori della mia vita, fa parte di me. A volte mi viene il dubbio che scrivessi già dalla pancia di mia madre. Ero e sono comunque veramente contento di questa mia inclinazione, guai se non ci fosse. Mi ha aiutato moltissimo in quel periodo e mi è molto utile anche adesso. È l’unica cosa che so fare, una valvola di sfogo, un modo per canalizzare le mie energie, quasi una confessione, un aprirmi con me stesso e verso gli altri. È un bene quando le mie frustrazioni, le mie nevrosi, anziché uscire sotto forma di malattie, vengon fuori tradotte in espressioni artistiche. Guai se non scrivessi più, sarebbe come ammettere di essere morto. Credo di avere delle qualità, del talento. È un vero peccato che non se ne sia accorto proprio nessuno, che non mi abbiano mai dato fiducia credendo in me. Continuando a viaggiare sulla mia ipotetica macchina del tempo e tornando a ritroso con la memoria, mi vedo davvero stupido all’età di 19 anni, troppo immaturo e troppo bambino. 19 anni che potevano benissimo essere 30, 40, 50, 80 in base alla mia sensibilità artistica ma che, allo stesso tempo, potevano sembrare 12, 10, 8 per il mio modo di porgermi verso me stesso e verso gli altri. Non capivo la cosa più importante ed elementare di tutte le conoscenze in genere e cioè che la vera felicità, la si può trovare nelle piccole cose quotidiane della vita e che sgorga spontanea dentro di noi. Ma non ero l’unico a non aver capito questa semplice verità. Quanta gente importante nel corso della storia non l’ha compresa! Dottori, scienziati, filosofi, poeti, insegnanti sono magari in grado di recitare la Divina Commedia a memoria o tutti i classici della letteratura, ma poi non sono capaci di distinguere il ramo da una foglia. Quando si è troppo impegnati a pensare in grande, ci si dimentica completamente delle piccole cose della vita che sono le più importanti, le più vere, che fanno parte di noi, che vivono con noi e intorno a noi come piccole sorelle non viste dalla nostra cecità assoluta, non percepite dalla nostra attenzione e dal nostro cuore tutto assorbito dal marasma d’una vita materiale. A volte, confesso che vorrei che ogni uomo facesse un piccolo salto nell’aldilà per scoprire la bellezza della propria spiritualità, per poi ridiscendere in carne e ossa su questa terra. Solo allora si renderebbe conto di aver vissuto male, anteponendo la legge della materia a quella dell’anima, smarrendo del tutto la propria identità, la vera essenza della vita. Ho ritenuto giusto, cari lettori, fare questa abbondante premessa su com’ero all’età di 19 anni, non con l’intenzione di annoiarvi anzi qualora questo fosse avvenuto me ne scuso sentitamente, ma poiché credo sia necessaria per inquadrare meglio la mia personalità al tempo in cui si svolsero i fatti che sto per narrarvi, proprio in virtù dell’originalità e della stranezza di tali fatti.
La verità sta proprio nella considerazione che solo uno strano ragazzo quale io ero all’età di 19 anni, poteva trovare l’ispirazione per scrivere una storia così assurda ma anche così coinvolgente.